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Australia, Costumismi, David Hirschfelder, Donald McAlpine, Hugo Weaving, Jocelyn Moorhouse, Judy Davis, Kate Winslet, Kerry Fox, Liam Hemsworth, Libri letti per poter (s)parlare del film, Margot Wilson, Marion Boyce, P.J. Hogan, riprese di paesaggi commissionate dall'Ufficio Turismo, RISCATTO, Rosalie Ham, Sarah Snook
Sartine alla conquista del botteghino questo weekend, però fareste bene a togliergli dalla mente certe donnine tutte dolcezze e taglia&cuci. Insieme alla tostissima Michelle di 10 Cloverfield Lane, sbarca nei nostri cinema anche la sofisticata e vendicativa Tilly Dunnage, protagonista del film australiano dell’anno. The Dressmaker ha raccimolato 5 vittorie e innumerevoli candidature agli AACTA Awards, il più importante premio per il cinema australiano, nell’anno di Mad Max: Fury Road.
Grazie a Mondadori che (non) mi ha fornito una copia recensione del libro, ma l’ha omaggiata a chi l’ha poi gentilmente passata a me, stavolta vi parlo in un colpo solo del film e del romanzo, che segnò un piccolo caso editoriale nel 2000, diventando il folgorante esordio della scrittrice Rosalie Ham.
THE DRESSMAKER DI ROSALIE HAM
In occasione dell’uscita del film Mondadori ha tirato fuori dal cappello il romanzo su cui è basato, l’esordio di Rosalie Ham datato 2000 e tradotto da __, di cui curiosamente in italiano si conserva persino il titolo in inglese. Si è optato comprensibilmente per un’edizione movie tie-in, purtroppo però scegliendo la locandina più brutta e più spoiler come copertina.
Figlia di un fattore australiano e cresciuta libera e selvaggia nelle campagne di Jerilderie, l’autrice non deve aver fatto fatica a costruire nella sua mente il piccolo assembramento di case che costituisce Dungatar: un manipolo di casette e negozi che formano la via principale, qualche fattoria annegata nelle centinaia di ettari coltivati a sorgo e grano e infine una casa sull’unica collina disponibile, dove vive rintanata l’anziana Molly la pazza.
Qui torna dopo tanti anni di lontananza la bella e dannata Myrtle Dunnage, allontanata dalla madre anni prima per un tragico incidente ora decisa a prendersene cura, anche a costo di affrontare le maldicenze e la cattiveria dei suoi concittadini.
Non si tratta di un modo di dire, anzi. Dungatar è un vero covo di vipere, una piccola comunità divisa tra strati sociali (i ricchi possidienti decaduti, gli strozzini dell’emporio locale, giù giù fino ai diseredati che vivono in roulotte e vagoni abbandonati nei pressi della discarica) e la consapevolezza che tutti sanno davvero tutto dei vicini, anche perché le pettegole del paese si spingono fin sotto le finestre delle case altrui per carpirne tresche e segreti. L’arrivo di Myrtle “Tilly” in questa realtà regala un’insperata valvola di sfogo: ostracizzata dal suo passato, dalla nascita e dalla madre pazza, è l’unico bersaglio che si possa colpire senza temere ritorsioni.
L’arma segreta di Tilly sta però nelle sue mani. Nervosa, schiva e dominata dal suo senso di colpa, la Myrtle cartacea è una sorta di cherubino dalle buone intenzioni, che con la sua abilità sartoriale mira a guadagnarsi il perdono delle signore di città. I suoi splendidi abiti le renderanno certo più belle, ma non meno vendicative nei suoi confronti, nonostante qualche fan anche la nuova arrivata ce l’abbia: l’anziana e anchilosata Irma, il sergente appassionato i cucito Farrat, il bellissimo e poverissimo capitano della squadra locale di football e la madre nei momenti di buona.
Di contro il resto della cittadina è popolato da creature grette e meschine al limite del grottesco, spesso maliziosamente colte nella loro ipocrisia che viene a cadere tra le mura domestiche, quando sono impegnate in atti carnali più o meno leciti. Il principale limite del romanzo è proprio questa galleria di malintenzionati spesso difficilmente distinguibili da loro, così cattivi da rischiar a più riprese di essere monodimensionali. Uno stuolo di matrigne, orchi e streghe che perseguitano una Tilly cartacea a cui la verve spunta solo nell’ultima parte del romanzo.
Certo la lettura posticipata dopo la visione del film ne ha irrimediabilmente mitigato gli effetti: in particolare i folgoranti, cattivissimi colpi di scena perdono tutto l’impatto che avevano durante la prima visione del film, dove però sono ottimamente resi. Bisogna però rilevare come la Tilly del romanzo sia forse meno glamour, ma ancor più tormentata dalla presunta maledizione che l’affligge.
Lo leggo? Ogni volta che senso qualcuno sostenere l’assunto incrollabile che i libri sono sempre migliori delle loro controparti filmiche, mi vengono in mente casi come questo, oltre che a chiedermi se questi soloni tengano mai in conto dell’inevitabile influenza che ha l’ordine cronologico con cui si fruiscono le due versioni. Questo esempio è un caso lampante: il romanzo di Rosalie Ham è una piacevole lettura ma il film non solo riesce a trasporla perfettamente, ma anche a donarle verve e carattere, tanto che la lettura del libro non aggiunge davvero nulla alla visione del film.
THE DRESSMAKER – IL FILM
Pare che Jocelyn Moorhouse sia arrivata casualmente alla lettura di The Dressmaker con anni di ritardo in quanto conterranea di Rosalie Ham, per quanto così si possano definire due abitanti dell’immenso granaio d’Australia.
Regista, sceneggiatrice e produttrice dalla carriera ormai consolidata, proprio con questo lungometraggio la Moorhouse ha raggiunto il suo apice, trionfando agli AACTA Awards e impressionando il pubblico del TIFF.
Qui impegnata anche nel ruolo di sceneggiatrice affiancata da un P.J. Hogan in grande spolvero dopo il catastrofico fallimento di Peter Pan, la Moorhouse si è appropriata del romanzo, apportando sostanziali modifiche al suo personaggio principale, modellandolo sulle curve e sui talenti di Kate Winslet. Il press book narra di come la produzione sia rimasta ferma per anni in attesa che la diva leggesse la sceneggiatura, la malizia della sottoscritta aggiunge che l’approdo oltreoceano della pellicola si deve alla sua ricercatissima presenza. Dal canto loro gli autoctoni assicurano che l’attrice gestisca alla perfezione la non semplice dizione del australiano con cadenza dialettale utilizzato nel film, perciò direi che è stata la scelta migliore.
Inizialmente mentre leggevo il romanzo ero stupita dalla distanza anagrafica e fisica della Winslet dal personaggio letterario, ma in realtà è proprio il film a trasformarlo e, alla luce del libro, è stato molto saggio. Kate Winslet interpreta una Tilly ricercata e glamour, più che consapevole del suo fascino e del potere delle sue curve e dei suoi vestiti, ma soprattutto sin da subito votata alla vendetta. Il che permette al lungometraggio di trasformarsi in una commedia nera ben più intrigante del cupo alone realistico del libro, ma soprattutto di mitigare la sproporzione morale tra Tilly e i suoi concittadini, le cui storie vengono per la maggior parte conservate, pur mitigandone cattiveria e stereo-tipizzazione.
Il carattere immediatamente riconoscibile di prodotto australiano (o neozelandese…potrebbe essere una mia suggestione, ma mi pare che romanzi/film provenienti da questa zona del globo abbiano tratti marcati geograficamente palesi) è ulteriormente enfatizzato dalla riunione di quello che è, ad oggi, il gotha del cinema del continente, o quantomeno di quello capace di varcarne i confini. Oltre la nome rivelatore di Hogan e ad altri soliti noti nel comparto tecnico (suggestiva e selvaggia la fotografia di
Donald McAlpine, le musiche di David Hirschfelder), anche quella attoriale è una vera e propria enclave del meglio che l’Australia ha da proporre. Al fianco di un Hugo Weaving che torna alle sue origini cinematografiche (geografiche e tematiche) ritroviamo Judy Davis in uno dei suoi migliori ruoli di carriera, senza dimenticare Kerry Fox. Ad attrarre lo sguardo è anche la nuova promessa del cinema locale che sta tentando la scalata ad Hollywood: Sarah Snook l’avevamo già vista in un ruolo complesso in Predestination e anche qui conferma le sue qualità.
Lo vado a vedere? Al momento è una delle visioni che mi ha più colpita nel 2016, l’ho trovato stuzzicante come solo la sana cattiveria cinematografica australiana sa essere, senza nemmeno dover citare i mirabolanti costumi della pellicola (dato il gran lavoro, Marion Boyce si è occupata di quelli di tutti i personaggi mentre Margot Wilson si è concentrata sugli splendidi abiti della Winslet), un vero punto forte del film. Ad onor di cronaca registro che ad alcuni non è piaciuto, ma personalmente ne sono rimasta conquistata.
Ci shippo qualcuno? No, ma qui Liam Hemsworth svolge proprio il ruolo del pezzo di carne, oltre che a dare alla Winslet intriganti venature da cougar.
Bellissima recensione!
condivido tutto ciò che hai scritto.
Quello che però credo che sia stato assorbito con maggiore avidità dal mio subconscio(a parte tutte le inquadrature di Hemsworth, che in versione australiana è praticamente uguale al suo omonimo norreno più grande) è l’inizio.
Mi ricorda molto l’apertura della prima stagione di true detective o del film la “Isla minima”, dove il paesaggio diviene artefatto umano.
Fantastico il passaggio finale della tua recensione.
Sofia, ci sono film confezionati su misura per l’occhio femminile (e omosessuale): leggendo il tuo commento, capisco che anche tu hai occhio per questi dettagli.