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Andrew Dominik, Autocompiacimento registico, bianco e nero, Deve far male!, documentario, film PESO, fotografia leccatissima, Nick Cave, tristezza a palate, venezia 73
Tra i film da salvare più citati dai disfattisti che nemmeno quest’anno sono riusciti a trovare consolazione nel ricco programma di Venezia 73, compariva molto spesso One More Time With Feeling, il documentario omaggio a Nick Cave e alla sua band, i The Bad Seeds.
Oggi è l’ultima giornata disponibile per vedere al cinema questo lungometraggio, presentato da Nexo Digital con ammirevole celerità, in una due giorni evento speciale.
A sentire tante opinioni provenienti da Venezia, questo documentario sarebbe una sintesi stilista così impeccabile da riuscire, al pari di Amy (il racconto della vita della Winehouse che l’anno passato a Cannes riscosse grande successo) a diventare un oggetto cinematografico importante a prescindere dal proprio interesse verso il profeta australiano dell’arte e della musica.
Inizialmente Andrew Dominik era stato contattato per realizzare il classico documentario tra il celebrativo e il promozionale, che raccontasse la nascita dell’ultimo album della band – Skeleton Tree – e riprendesse con grandezza cinematografica una performance live dedicata.
Tra la pianificazione del progetto e le riprese però muore Arthur, uno dei due giovani figli di Nick Cave e dell’amata moglie Susie. Il progetto pare improvvisamente irrispettoso, le canzoni scritte e registrate tempo prima profetiche, Nick Cave chiuso nel suo cupo dolore, la band incapace di fare i conti davanti alle telecamere con la tragedia che si mette al centro della lavorazione dell’album e permea ogni cosa e ogni canzone.
A salvare il progetto e trarre d’impicco Dominik sarà proprio Nick Cave, deciso a proseguire con interviste e riprese invasive, nonostante o forse proprio per quanto successo. Necessariamente il centro dei dialoghi, delle interviste e delle testimonianze diventa il dopo Arthur: il tempo si fa elastico per Nick e gli altri, a loro stesso dire, e per quanto si parli di musica e vita l’elastico si tende fino a un certo punto, schiocca e poi torna al punto di partenza: la morte del figlio di Nick Cave.
Andrew Dominik decide di aprire il suo documentario d’impeccabile eleganza (bianco nero livido, montaggio significativo e mai banale, fotografia rifinitissima, ossessione per la profondità teatrale che solo il 3D secondo lui riesce a donare) palesando il disagio, suo e dei soggetti che riprende, palesando la sensazione che tutto debba tornare ad Arthur e parlare di lui. La sequenza d’apertura, in cui la band si chiede come sia possibile non affrontare la questione, è forse l’unica a perforare la percezione esterna di Nick Cave e del suo gruppo, scavando davvero dentro.
One More Time With Feeling è un documentario stilisticamente impeccabile e per questo spesso, soprattutto nelle parti musicali, finisce dalle parti dell’estetica videoclippara. Dominik si ritrova per le mani un dono tragico, la possibilità di andare oltre il celebrativo e promozionale, di tirar fuori l’umano da quello che da decenni in patria viene considerato un profeta contemporaneo.
Invece è Nick Cave a guidare l’azione e ad amministrare rigidamente la quantità di se stesso che può essere analizzata. Non c’è bisogno di leggere le dichiarazioni di Dominik, che promise al cantautore di lasciargli possibilità di veto sulle sequenze che l’avessero messo a disagio, per capire che questo documentario non ha il mordente necessario per cogliere il drammatico e il contraddittorio, profondamente a disagio con la necessità di testimoniare il dolore altrui.
One More Time With Feeling insomma si limita a testimoniare la compostezza e la dignità di un lutto che i Cave non mettono quasi mai in parole, per timore di banalizzare la morte e la mancanza del figlio. Svuotato della sua forza, la capacità di guardare in faccia la verità più spinosa anche a costo di fare male, è proprio il documentario a mancare della profondità per rendere il film qualcosa di più di un tributo interessante per quanti siano affascinati da Nick Cave e dalla sua musica. C’è il Cave artista, il Cave musicista e perfino un po’ di Cave marito e padre, ma l’uomo, quello si nasconde in un luogo sicuro e inaccessibile.
Lo vado a vedere? Ovviamente imperdibile per i fan della band, poteva essere un grande film sulla passione di quello che è stato più volte apostrofato come un Gesù contemporaneo, invece è poco più di una superficie levigatissima e riflettente. Andare a guardare sotto sarebbe stato indubbiamente doloroso, ma decisamente più potente. A meno di un interesse specifico, nonostante l’indubbia resa stilistica, non vale la candela.
Ci shippo qualcuno? No.