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Alfredo Castro, Autocompiacimento registico, Cannes 2016, delicate palette cromatiche, Gael García Bernal, Luis Gnecco, Pablo Larraín
È un destino beffardo quello di Neruda, metà trascurata dell’incredibile dittico biografico che Pablo Larraín ha tirato fuori dal cappello quest’anno. D’altronde il biopic che omaggia la sua terra natia, il Cile, e il suo cittadino e poeta più illustre, Neruda, non gode della smaccata visibilità della sua prima pellicola in lingua inglese e con serie aspirazioni per la corsa agli Oscar, Jackie.
In attesa di vedere questa seconda prova dell’incredibile 2016 di Larraín, non posso che mettervi in guardia: non dovete lasciarvi assolutamente sfuggire Neruda, anche a costo di lanciarsi in una caccia all’ultima delle poche sale cinematografiche che punteranno coraggiosamente su questo film. Neruda rischia concretamente di essere il film dell’anno.
Sarebbe davvero interessante poter fare un confronto diretto con Jackie, che ahimè invece non vedremo fino a febbraio 2017 (con la speranza che i distributori italiani rinsaviscano nel frattempo). Per un caso curioso, quasi nessuno è riuscito ad intercettare Neruda a Cannes e Jackie a Venezia, rendendo la valutazione irrimediabilmente monca di una metà.
Se Jackie ha entusiasmato in qualità di film completamente a servizio del ritorno in pompa magna di Natalie Portman (anche se questo capolavoro di trailer suggerisce che comunque una certa sostanza ci sia), Neruda è stato, insieme a The Assassin, il film rivelazione dell’ultimo festival di Cannes, protagonista di maliziose e indignate voci: perché presentare fuori concorso un film che avrebbe avuto pochi rivali nella corsa alla Palma d’Oro?
Se c’è una cosa che è mancata in questi anni a Larraín, ormai additabile come uno dei migliori e più innovativi cineasti contemporanei, non è certo il talento o la costante qualità dei suoi film, bensì un tangibile riconoscimento internazionale di quella fama che tende ancora a lambire territori esclusivamente cinefili. Se già El Club avrebbe ampiamente meritato quella mancata nomination all’Oscar, Neruda spinge ancora più in là le ambizioni e i risultati del regista cileno, trasformando il dubbio in certezza: è uno dei grandi, uno di quelli che continua a spingere il cinema in territori inesplorati, uno di quelli con qualcosa di davvero importante da dire.
Sin dall’apertura Neruda è il biopic contemporaneo che indica una nuova direzione e fa qualcosa di inaspettato, artistico e ardito. Le somiglianze tematiche e strutturali con il bel Stefan Zweig – Farwell to Europe sono notevoli (biografia degli ultimi tristi anni del poeta vate cileno e del romanziere simbolo tedesco, braccati dall’ascesa delle dittature, assistiti da amici e compagne fedeli) ma Neruda gioca in tutt’altra lega.
I fatti sono in realtà risicati: il politico, romanziere e poeta cileno noto a livello internazionale nel 1973 morì in ospedale di tumore, ma non sono poche le voci che parlano di un omicidio politico, a causa della sua opposizione al regime di Pinochet.
Per un altro regista la scarsità d’informazioni riguardanti i mesi della fuga sarebbe stata un ostacolo, ma non per Larraín, che trasforma gli spazi vuoti in poesia visiva e artificio narrativo. La grande impresa del regista cileno è raccontare il romanziere cileno ricreando l’equivalente visivo di un suo romanzo sognante e romantico, pieno di realismo magico, passione e poesia.
Così la fuga di Neruda alla Prova a Prendermi, braccato da un poliziotto incaricato di trovarlo ad ogni costo (il buon Gael García Bernal) diventa ora un poliziesco classico, col poeta che lascia indizi in forma di libri al suo inseguitore, ora un western di malinconica bellezza e crudeltà, ora un’amara commedia in cui Neruda sfugge agilmente al suo aguzzino e tenta di affrontare con lievità il caro prezzo che questa agilità mentale e fisica gli richiede.
Al fianco di un sardonico Luis Gnecco dalla credibile somiglianza con Neruda troviamo il solito gruppo di attori cileni ormai divenuti familiari, proprio grazie a Larraín, così ambizioso e spregiudicato da potersi permette di utilizzare l’Attore cileno, Alfredo Castro, per un ruolo delicato ma molto risicato come quello di un Pinochet farsesco.
Il resto è viaggio e paesaggio, in cui i blu soffusi tipici del regista assumono una forza prima d’ora mai così intensa, e contraddizione classica, nell’eterna ambiguità di ruoli e sentimenti tra guardia e ladro, preda e predatore, tra perdenti che vogliono essere protagonisti della propria storia e vincitori pieni di amarezza.
Lo vado a vedere? Assolutamente sì: se c’è un film da vedere quest’anno al cinema, quello è Neruda. Mi spingerò persino a dire che non è nemmeno così fuori portata da chi non ha grande dimestichezza con il cinema autoriale e festivaliero. Imperdibile.
Ci shippo qualcuno? Ma sapete che in fondo in fondo e sotto sotto, con quella scena finale lì, io forse un po’ sì?
L’ho trovato un po’ pesantuccio.
Dici che sono stata troppo ottimista io? Però secondo me Larrain uno sforzo se lo merita.
No no, credo di condividere tutto quello che hai scritto, però ci sono stati dei momenti in cui la noia dominava. Detto questo, non è un brutto film!