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La rubrica aperiodica e ritardataria nell’anima in cui vi racconto brevemente i film che ho visto prima dell’uscita nelle sale italiane ma che non sono riuscita a recensire prima del loro approdo nelle stesse.
Hashtag suggerita #megliotardichemai.
In questa puntata parleremo di:

Spira Mirabilis
Quando Hai 17 Anni
Lettere da Berlino
Inferno
Bad Moms
American Pastoral
Lo and Behold: Reveries of the Connected World

spiramirabilisSpiace sparare lì una stroncatura al primo film italiano che approda su queste pagine da Venezia 73, specie dopo che Alberto Barbera ha evocato divinità pagane e oscuri malefici per mettere insieme un programma più che dignitoso e soprattutto affossando a sorpresa il concorrente canadese TIFF (Toronto International Film Festival), mai così sbiadito come quest’anno.
Spiace poi cominciare dalla scelta sicura nel terzetto italiano in gara, ovvero il documentario; sarà anche vero che abbiamo una grande scuola documentaristica ora più vivace che mai (vedi l’orso d’oro a Berlino di Fuocoammare), però vista da qui sembra la mossa di uno che ha delle carte pessime in mano (Piuma e Questi Giorni) e pesca il jolly. Cosa può andare male in un documentario girato da 2 autori tendenzialmente abbastanza apprezzati come Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, specie se poi il film è stato sottratto all’ultimo al Festival di Locarno? Male che vada sarà noioso no? E invece no, oltre che ad essere mortalmente noioso, ma di quella noia micidiale che ti secca dopo 15 minuti e ti fa assopire dopo 25, Spira Mirabilis è un documentario senza un punto o un senso. Dalla cartella stampa comprendiamo che si tratta di 4 storie volte a raccontare come l’umanità lotti per l’eternità e l’immortalità. A parte che contando Marina Vlady che legge Borges io ne conto 5, ma il problema è che il filo conduttore è tale solo negli ultimi 10 minuti di pellicola. La parte riguardante il restauro delle statue del Duomo di Milano è chiaramente un avanzo nemmeno troppo esaltante del lavoro precedente, che con l’immortalità c’entra pochino, così come la storia di come si costruiscono gli hang (quello strumento musicale che sembra un disco volante) e sono abbastanza certa di non essermi mai comportata così male da meritarmi i filmini di famiglia dei due ideatori e costruttori. La storia dei nativi statunitensi che lottano per la loro terra ancora una volta, ma che c’entra? L’unica con un chiaro legame con l’argomento dichiarato – e non a caso di gran lunga la migliore – è la storia di uno scienziato giapponese con il pallino del canto che studia da anni un particolare tipo di medusa capace di rigenerarsi. Se già il nucleo dei 4 segmenti è tutto tranne che mirabilis per contenuto e accostamento, la pretenziosità con cui gli autori se ne fregano di favorire la comprensione del pubblico, lasciandolo in balia di quelle che sembrano immagini a caso – stile video installazioni inutili – ricordandosi solo sul finale di darvi una parvenza di senso è francamente inaccettabile. Capisco che Rai Cinema abbia un suo feudo a Venezia e lo debba difendere, ma mi spiace sinceramente che la stampa estera si sia sorbita questa pellicola. Saltate a piè pari.
Non escludo di essere semplicemente stronza io, per cui ecco cosa ne pensano a riguardo Massimo D’Anolfi e Martina Parenti:

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quabndohai17anni_4Questo invece proprio l’avevo perso nella classica settimana in cui le proiezioni stampa escono dalle fottute pareti. In attesa che mi offrano una brandina su cui dormire al cinema Apollo facilitandomi la vita, talvolta devo dire no a qualcosa e la scelta è ricaduta sventuratamente su Quando hai 17 anni.
Alla regia c’è André Téchiné, mentre alla sceneggiatura c’è anche Céline Sciamma (Tomboy, Diamante Nero). Il divario anagrafico è piuttosto ampio, ma il duo trova un terreno comune nel tema che è la vera e propria ossessione delle rispettive carriere: l’adolescenza e i suoi turbamenti.
Ora, se conoscete un po’ di film di ciascuno dei due, vi basterà guardare 10 secondi la locandina per capire dove si andrà a parare, ma conoscere la destinazione non significa non godersi il viaggio, specie se ambientato nei suggestivi scenari della Francia dei Pirenei (non la solita Parigi insomma) e specie se alla guida c’è un come Téchiné, così ossessionato dall’idea di un corpo nudo di colore scuro sullo sfondo innevato delle montagne da tirar fuori un adone come l’attore teatrale Corentin Fila dopo una marea di audizioni. Pur non essendo all’altezza delle cose migliori della rispettive carriere dei due compari con il pallino per l’adolescenza, il film è comunque emozionante e intenso, capace di tirar fuori il meglio da un trio di protagonisti che sa decisamente il fatto suo. Il migliore secondo me è il povero Kacey Mottet Klein, uno che ha già una certa carriera alle spalle e che qui si sobbarca l’ingrato compito di fare l’adolescente poco brillante e incapace di porre uno schermo tra le sue emozioni e il mondo.

quabndohai17anni

Nota Spoiler ma secondo me gradita a qualcuno – Come va a finire Quando Hai 17 anni? Il finale vede Damien che si trasferisce a Lione (immagino che il falò sia un simbolo immediatamente chiaro per chi ne sappia qualcosa a riguardo) che guarda con incommensurabile mestizia la festa intorno a lui. Lo vediamo poi abbracciare e baciare felice un Thomas più sciolto e estroverso del solito. Se chiedete a me che adoro i risvolti melodrammatici, è un momento di fantasia autoconsolatoria di Damien che in realtà ha detto addio al suo primo, importante amore, soprattutto per il fatto che il comportamento di Thomas è poco in linea con quanto visto fino ad allora e la natura intorno ai due è così bucolica da sembrare irreale, però la chiusa è volutamente ambigua. Qui il cuore #TeamDrama della sottoscritta ha parlato.
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letteredaberlinoSi avvicina novembre e, come ogni anno, non avremo scampo: brace yourself, i film sui nazisti e l’Olocausto are coming. Lettere da Berlino batte gli altri sul tempo e, pur adattando un romanzo del 1947 riconosciuto da Primo Levi come il migliore sul nazismo mai scritto, in realtà ha un taglio contemporaneo: come ben sapete, negli ultimi anni vanno fortissimo le storie di ordinario eroismo antinazista vissute nella tana del lupo, ovvero ambientate nella Germania nazista.
Ognuno Muore Solo purtroppo lo conosco solo di fama, ma la mia impressione è che l’onesto ma basico film che ne ha tirato fuori Vincent Perez non sia all’altezza della suo coefficiente, pur essendo una dignitosissima prova da uno che in passato ha diretto La Regina dei Dannati.
Certo, è anche difficile sbagliare un film che ha un trio di protagonisti così formidabile: sono sempre intensi sottotraccia Emma Thompson e Brendan Gleeson – l’anziana coppia di genitori che ha perso il figlio in guerra e si ribella silenziosamente attraverso la diffusione di cartoline postali sovversive – ma forse il migliore è ancora lui, Daniel Brühl, che interpreta l’investigatore dall’approccio accademico che finisce per scontrarsi con la brutalità del corpo di polizia di cui fa parte.

letteredaberlino3Uno dei grandi della sua generazione, che grazie alla dimenticanza di Hollywood è sempre a disposizione del cinema europeo.
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interno_posterIl più grande mistero riguardante il ciclo di film di Dan Brown è come uno con la levatura cinematografica e la fila di grandi registi che lo vogliono costantemente nei loro film come Tom Hanks possa prestarsi a una commercialata complottara simile. Inferno rientra appieno nel filone aperto dai precedenti film e tenta disperatamente di essere più adrenalinico, veloce, montato a una velocità di taglio e ritaglio tale che non dispiacerebbe a Michael Bay.
Oltre allo spottone a Venezia e Firenze (che purtroppo si limita all’immagine più canonica e prevedibile della pittoresca città d’arte italiana vista con occhi stranieri e xenofili) c’è poco altro materiale davvero sfruttato: Felicity Jones è rigida come il suo parruccone che si porta a spasso, Tom Hanks è stanco (e non solo per la corsa contro il tempo del film) e il plot è un filo prevedibile.


Chi però apprezza il genere e vuole vedere questo terzo capitolo, difficilmente uscirà deluso dalla sala. Per gli altri si preannuncia una pellicola che dà segni di stanchezza.
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badmomsMean Girls è diventato un classico del cinema da citare, oltre che ad un film generazionale di quelli che hanno lasciato il segno. Bad Moms non è il primo a citarlo palesemente, ma nessuno finora aveva tentato tanto chiaramente di raccoglierne l’eredità: le cattive mamme sono le cattive liceali di un tempo, semplicemente passate dall’altra parte della barricata.
Rispetto a pellicole ormai anacronistiche come Io prima di Te ha l’indubbio pregio di essere connesso (forse fin troppo) alla contemporaneità culturale e cinematografica, diventando una sorta di Notte da Leoni materno e femminile, che non si nega persino qualche riferimento al sesso anale e un onesto personaggio eye candy maschile e consapevole di esserlo. Certo siamo lontani anni luce dal tentativo di Mean Girls di denunciare una scomoda realtà o di dare vita a battute così irresistibili da emozionarci ad ogni 3 ottobre.

badmom4Certo che di fondo a Hollywood non cambia mai nulla, ed ecco qui Jon Lucas e Scott Moore a farci mansplaining su gravidanze e gestione dei figli, anche se con grande umiltà e onestà narrativa.
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americanNon ci voleva un veggente per capire l’evidente squilibrio tra esperienza e aspettative che stava portando Ewan McGregor a un fiasco clamoroso per il suo esordio da regista: non è mica un caso se tanti più stagionati registi avevano scansato la sfida di portare su schermo il romanzo più noto di Philip Roth. Non fraintendetemi: non credo sia un problema di intraducibilità nel cinema, quanto piuttosto il contrario. Di pellicole similari è pieno il cinema statunitense di qualità, dove per tutti gli anni 60/70/80 hanno regnato incontrastati i prototipi dell’alter ego letterario di Roth: maschi bianchi etererosessuali tra i 40 e 60, ebrei e con il pallino del genio incompreso.
L’errore di Ewan McGregor è duplice: pensare di riuscire a gestire un film sia davanti che dietro la cinepresa, togliendo mordente all’assoluto protagonista (che forse avrebbe avuto bisogno di un volto più carismatico) e limitandosi a scopiazzare movimenti di cinepresa e take da altri grandi autori, rendendo la composizione del film familiare e priva di carattere.

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Il vero limite però secondo me è l’impossibilità di intervenire a fondo su una materia così blasonata già esplorata da tanti grandi film, cavandone fuori qualcosa di nuovo e potente da dire sulla distruzione del sogno americano, che abbiamo già visto andare in pezzi decine e decine di volte. Dakota Fanning dà punti più o meno a tutti.
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loandbehold4Voglio rimanere giovane per sempre, così non mi verrà mai quella riverenza per i grandi vecchi di qualsiasi nicchia culturale stile velo di fronte agli occhi che appanna ogni sensazione. Non posso accettare il fatto che numerosi under 30 mi abbiano consigliato il nuovo documentario di Werner Herzog su nascita, crescita e futuro di Internet come un’approfondimento notevole e degno di attenzione. No, maddai. Anche solo la pretesa di essere coerenti ed esaustivi in meno di 100 minuti in un campo d’indagine che ormai è così sterminato a me pare già un’errore procedurale enorme, un po’ come quando vai dal relatore della tesi e gli dici “voglio parlare di x” e lui scuote la testa mestamente e spiega per la millesima volta che bisogna trovare una nicchia, farsi guidare da una singola domanda di cui indagare le risposte già date e cavarne fuori qualcosa di nuovo. La domanda qui di fondo non c’è, è Herzog con la verità rivelata in mano, una mano analogica che tende a guardare con più sospetto che meraviglia le possibilità del nuovo mondo interconnesso, senza dichiararlo apertamente, preferendo giustapporre gli orrori di trolls e stalker a gente che canta beata nei boschi dove non c’è Internet, con quella vena nostalgica che ma anche no, grazie.
Emblematica l’apertura, che mostra l’università americana dove è nato Internet, o meglio l’ARPANET, al grido di “gli studenti di qui non sanno di essere nel luogo dove è nato Internet”. No, prego? Io, studente di discipline letterarie a cui è stata data un’infarinatura generale sul come e cosa su Internet da un disperato ingegnere alle prese con noi caprescientificamente illetterate che affolliamo i corsi umanistici, lo sapevo io. Insomma, qualche pagliuzza d’oro in tanti materiali di costruzione nemmeno così pregiati, presentati come lingotti di rara saggezza. loandbehold2
Ho provato più meraviglia e interesse e genuina passione per il discorso di quel poveretto che ci spiegò dilemmi e soluzioni dell’Unicode nei primi personal computer, che in un’ora e mezza di Herzog che pontifica decidendo a priori da che parte dobbiamo stare e cosa già sappiamo. La forma è al solito ineccepibile.
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