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arrival_locandinaArrival è il film di fantascienza del 2016 e sarà probabilmente la pellicola scifi dell’annata per noi che lo vediamo arrivare al cinema solo ora. Ci tengo a sgombrare il campo da dubbi sin da subito: è bellissimo, così bello che ormai si è dissolto ogni mio timore circa la possibilità che Denis Villeneuve possa avere qualche chance di uscire dignitosamente dalla sfida del sequel di Blade Runner, che sta girando in questi mesi.
Ovviamente il presupposto è che abbia mano libera in fase di composizione del film e che la sceneggiatura che si ritrovi per le mani sia all’altezza del compito e della sua bravura, che dopo una cinquina di film notevoli, sembra sempre più sconfinata. Certo partiva da uno dei racconti più potenti e memorabili di uno scrittore fantascientifico del calibro di Ted Chiang, ma proprio per questo il rischio di non essere all’altezza della fonte era molto alto. Da amante del genere, non posso che sperare che altre opere SFF capitino tra le mani di Villeneuve.
L’idea alla base del racconto di Chiang è fenomenale così come il suo svolgimento narrativo, ma quella originale non è certo una storia che spicca per immediatezza cinematografica, tutt’altro. Innanzitutto siamo nel campo della linguistica, che di per sé è tra le materie meno fotogeniche di sempre. Inoltre lo spunto può far credere al pubblico di trovarsi di fronte a un film già visto e completamente diverso da questa gemma. Louise la linguista fredda e introversa viene chiamata dal governo americano a tentare di decifrare la misteriosissima lingua parlata dagli alieni che sono apparsi all’improvviso nel cielo di molte città terrestri con le loro astronavi monolitiche, senza palesare alcunché delle loro intenzioni. Questo spunto può condurre ovunque nel filone della fantascienza al cinema, da Indipendence Day a District 9.

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Uno degli aspetti che più mi ha sorpreso (uno dei pochissimi che non mi ha convinto) è come questo film riflessivo, ponderato e articolato su un crescendo terso e raffinato somigli visivamente moltissimo al modo di fare cinema di Christopher Nolan, con palette cromatiche e movimenti di camera che non possono che ricordare Interstellar. Qui però la storia diventa via via più incisiva e chiara man mano che Louise e gli altri esperti trovano il bandolo della matassa e cominciano a comunicare, pur tra mille difficoltà e incomprensioni, con gli alieni. Il lavoro tecnico svolto sull’estetica delle astronavi, la fisicità e la tecnologia aliena è impressionante. Dalle musiche rarefatte chiaramente composte da Jóhann Jóhannsson e la fotografia di Bradford Young, Arrival è capace di dare una certa inquietante bellezza alle creature plasmate su una base meramente scientifica e pragmatica da Ted Chiang, insistendo su quella sensazione di inumanità così estrema da palesarsi come incomprensibile per gli standard umani al pari di capolavori come Incontro con Rama.

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Se il confronto con Interstellar viene vinto facilmente grazie a una regia capace di essere perfetta nella sua essenzialità, pur prendendosi qualche momento di fascinazione per esplorare il primo, emozionante incontro del terzo tipo (la prima ascesa nell’astronave è un esempio perfetto di fisica impossibile e aliena ed è cinematograficamente pazzesco), a parer mio Arrival non teme nemmeno il confronto con il film scifi più lodato degli ultimi anni, Gravity. Il merito va diviso tra un’attrice portentosa come Amy Adams – che a differenza della Bullock è ancora capace di mimesi completa con la storia, senza sembrare “x che interpreta y” – e Louise Banks, un personaggio femminile di rara efficacia e interezza. Come Gravity, Arrival finisce per essere soprattutto una storia umanistica che si concentra per contrasto su cosa significhi essere umani: là il contrasto era l’enormità dello spazio, qui l’alienità di una razza extraterrestre spesso imperscrutabile.

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Protagoniste di entrambi i film sono due scienziate, due figure di grande professionalità che appaiono fredde e introverse, abituati come siamo a vestali e comprimarie che vivono simbionticamente con il protagonista maschile a cui stanno accanto. La differenza è che a un certo punto Gravity sente il bisogno di giustificare “l’antipatia” della protagonista, tirando fuori il più classico degli stilemi della maternità. Qui invece il personaggio di Amy Adams si arricchisce via via delle sfumature materne e amorose senza però mai perdere il suo essere una linguista, una donna, un’essere umano, rivelandoci la ricchezza del suo sentito senza giustificarne la riservatezza e la freddezza apparente. In questo senso ho molto apprezzato anche le modifiche apportate a quella che è la vera e propria rivelazione del film, semplificata e spiegata il giusto per non lasciare lo spettatore troppo confuso ma mai banalizzata.
L’unico vero passo falso di un film così bello è l’aver affiancato alla Adams un tipo così poco carismatico come Jeremy Renner, che invece rimane sempre Renner (o Occhio di Falco): non posso impedirmi di pensare che un attore più capace di esercitare in maniera mesta il proprio fascino e carisma, quel pezzo della vita di Louise sarebbe stato ancora più emozionante.

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Lo vado a vedere? In quanto riflessione filosofica e scientifica su un grande quesito speculativo, Arrival non è certo un film per tutti e comprendo perfettamente come possa risultare tedioso o insulso a chi al cinema chiede un ritmo o un tono differente. Detto questo, è davvero un gran film, snobbato all’uscita veneziana ma già in grado di scavarsi una certa considerazione tra critici e cinefili. Pur avendo letto il libro (o forse proprio perché già conoscevo la trama e ho potuto apprezzarne di più alcuni dettagli visivi e registici), la visione è stata sorprendente e appagante. Possiamo essere più o meno d’accordo sul grado di bellezza e compiutezza, ma è sicuramente uno dei film a cavallo tra autorialità e Hollywood che va visto del 2016.
Ci shippo qualcuno? No, ma non capite quanto abbia dovuto sforzarmi per essere così diplomatica su Renner.

Nonostante sia molto più esplicito del racconto, ho come l’impressione che ci sarà bisogno di un
Spiegazione del finale di Arrival – Ovviamente è super SPOILER!
Insegnandole via via la loro lingua, gli alieni hanno “donato” a Amy un nuovo modo di organizzare il suo pensiero, così come postulato durante il film da una celebre teoria linguistica. Siccome lei ha una conoscenza tale dell’eptapodiano da poter pensare/sognare come gli alieni, la sua percezione del tempo diventa non lineare ma comprensiva di vari momenti, compresi quelli futuri, come avviene per gli extraterrestri in questione. Gli alieni hanno “visto” un futuro in cui avranno bisogno dell’umanità e sono venuti apposta per fare in modo che anche l’umanità possa farlo, così da essere preparata a dar loro una mano. 
Tutti i flash della figlia di Louise non sono del passato, bensì del futuro: man mano che lei comprende l’eptapodiano comincia a vivere anche dei momenti del futuro, come quello con il generale Zhang. Scopre che avrà una figlia con Jeremy Renner, che morirà di un morbo incurabile e che lui la lascerà poco prima, proprio perché lei gli rivelerà di aver saputo tutto e di aver scelto comunque di diventare madre. Il film si apre nella casa di Louise, nel momento in cui dice sì a Renner che le chiede di avere un bambino e si chiude a qualche secondo da quella scena, non più flash futuro ma presente, con la consapevolezza che Louise sa già tutto quanto succederà ma ha deciso comunque di viverlo.