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Beat, Daphne du Maurier, e vissero felici e più gotici, lesbo en passant, letteratura inglese, Literary Fiction, manieri malvagi, Neri Pozza, Tatiana De Rosnay
C’è chi in vita ha avuto tutto e chi beffardamente diventa un grande solo dopo la morte. Nel panorama biografico e letterario inglese sembra riflettersi quel ricorso monarchico che vuole che a fare la storia siano le regine del Regno Unito più dei re. La produzione letteraria e accademica ha raccontato, investigato e speculato maniacalmente sulle vite delle sorelle Brontë, di Jane Austen e di Virginia Woolf, molto più che su tanti illustri colleghi di sesso maschile. Aggiungendo all’equazione un flusso costante di adattamenti filmici, teatrali e televisivi (l’ultimo di poche settimane fa della BBC) incentrati non sulle opere, ma sulla vita di questo pugno di autrici, si comprende il grado elevato di familiarità che ha il pubblico con le scrittrici stesse, la loro vita e il loro carattere.
L’erede più autorevole delle sorelle Brontë non ha condiviso gli stenti e i dolori delle sue madrine letterarie. Oltre che ad essere stata una donna bellissima, Daphne Du Maurier è nata in una famiglia influente, era molto ricca e ha potuto godere appieno sin da giovane di fama e successo mondiali.
Eppure fatica ancor oggi ad affrancarsi da una certa sufficienza con cui la critica affronta le sue opere e non è ancora stata ammessa nel club dei grandi della letteratura inglese. Sul fronte biografico Daphne ha avuto una vita davvero non comune per possibilità, esperienze e frequentazioni (J.M. Barrie, Victor Gollancz, Agatha Christie, Alfred Hitchcock, Elisabetta II), degna dei romanzi avventurosi e palpitanti che scriveva. Neppure la sua vita eccezionale ha però saputo conquistare davvero l’attenzione dei biografi e degli storici.
Al di fuori della produzione accademica, i tentativi più convincenti di narrare al grande pubblico la donna dietro Rebecca e Rachele sono solo due. Il primo è la biografia della sorella Angela, una martire della critica letteraria, schiacciata dal successo della congiunta più famosa e dotata, che racconta ampiamente di Daphne e della famiglia. Di recente ci ha dovuto pensare una affezionata lettrice francese, nazione a cui la Du Maurier era legatissima (e di cui parlava perfettamente la lingua) ma dove la sua produzione letteraria è stata funestata da una storia travagliatissima di traduzioni pressapochiste, tagli ed errori grossolani.
Manderley Forever non è certo una biografia di spiccata letterarietà, con il suo stile banale e il suo ritmo uniforme. Quello che difetta in forma però guadagna in piacevolezza di lettura; una volta preso il ritmo, si divorano letteralmente l’infanzia, l’adolescenza e gli anni della maturità della scrittrice, senza soffrire troppo nell’ultimo periodo, quando la scintilla della scrittura abbandonò la scrittrice insieme a quella vitale. L’attenzione è insomma tutta sulla vita e il carattere di Daphne, dipinta come una giovane e volitiva Lucrezia Borgia, la preferita dal padre, animale da palcoscenico letteralmente ossessionato dalla sensualità delle tre figlie. Come ogni personaggio artistico di inizio Novecento, Daphne vive una sessualità fluida, pur avendo un rapporto travagliato con la parola che inizia per L. Il libro, puntuale senza essere pruriginoso, dà ampio spazio alla genesi delle sue vestali letterarie più celebri, figlie di un incontenibili, violentissime passioni della scrittrice per un’insegnante di francese e per la moglie del suo editore americano. Il titolo allude alle seconda passione travolgente di Daphne, quella per il maniero di Menabilly. L’enorme villa riechieggerà in molte sue opere ma esigerà in cambio tutta l’attenzione, il denaro e l’amore che Daphne può dare, sottratto alle figlie e al marito spesso abbandonati nella caccia all’ispirazione letteraria e nell’isolamento necessario per la stesura dei manoscritti.
Il carattere volitivo al limite della crudeltà di Daphne e la possibilità economica e di plasmare la sua vita esattamente come desiderava l’hanno resa la scrittrice di fama globale che conosciamo ma anche una persona piuttosto estrema per intensità di passioni (le amanti, i cani, la navigazione, i paesaggi della Cornovaglia) e talvolta per ingratitudine ed egoismo verso i suoi cari.
Sembrerebbe il ritratto dell’alterego della seducente e crudele Rebecca, eppure il libro è anche testimonianza di come Daphne stessa ancor oggi interpreti l’ingrato ruolo della seconda moglie. Di fronte allo straordinario successo del libro, un amico scrittore le vaticinò che la critica non le avrebbe mai perdonato la popolarità raggiunta, profezia per cui Daphne soffrì in vita e che continua ad avverarsi a decenni dalla sua morte.
Lo leggo? Ovviamente consigliatissimo agli amanti di Daphne Du Maurier, che ci scopriranno dentro un’ulteriore eroina da amare e odiare, Daphne non ha la letterarietà e il respiro necessario per essere d’interesse per gli amanti di biografie e memoir. La vita della sua protagonista però è così eccezionale che se vi intrigano le Lucrezie Borgia e le belle dame senza pietà, potreste comunque rimanerne stregati.
L’edizione italiana, tradotta dal francese da Alberto Folin, è edita da Neri Pozza.
Jamaica Inn è un’altra recente riproposizione che interesserà gli amanti della Du Maurier all’ascolto. Si tratta di un romanzo giovanile dell’autrice, pubblicato nel 1936, a metà strada per fama e livello qualitativo tra le opere più celebri e quelle presto cadute nel dimenticatoio. Forse leggendola qui e altrove non si definirebbe la Du Maurier una scrittrice di luoghi, eppure le case e i manieri sono stati secondi solo alle donne come fonte d’ispirazione nella sua carriera. Il Jamaica Inn era (ed è) una rispettabile locanda dove si trovò a soggiornare durante una gita, dopo essere stata colta da un violento acquazzone durante una passeggiata.
Nella fervida e macabra immaginazione della giovane Daphne, ancora fortemente influenzata dalle atmosfere e dai toni gotici delle Brontë, la rispettabile locanda dagli alti camini si trasforma in un covo di brutti ceffi e contrabbandieri senza scrupoli, sinistro e sudicio, dove la giovane protagonista Mary Yellan si ritrova a vivere. A legarla a questo luogo maledetto è la zia, creatura pavida e completamente alla mercé del marito Joss Merlyn, un orco dalle mani spaventose, vigorose per percuotere e uccidere, ma anche capaci di delicata precisione e perciò imprevedibili, così come del resto dell’imponente e animalesco locandiere.
Jamaica Inn per molti versi è un’avventura per ragazzi sviluppata con l’ardore di una penna fresca e una letterarietà già sviluppata: ci sono i lupi di mare, i briganti, i contrabbandieri, segreti sussurrati all’ombra di una bottiglia di rum, inseguimenti nella brughiera, naufragi e omicidi.
Hai mai sentito parlare della gente che provoca naufragi per saccheggiare le navi?
A controbilanciare il carattere avventuriero, marinaresco e mascolino della storia c’è la bella e savia Mary Yellan. Inizialmente sembra la nipote perduta di una protagonista delle Brontë o una contadina sfuggita da una sottotrama di Thomas Hardy. Legata alla saggezzza agreste ma intrigata dall’avventura, Mary riflette i propri umori sulla brughiera e sui cupi massi della Cornovaglia, circondata da una natura che come in ogni buon romanzo gotico riflette e riecheggia delle emozioni della protagonista putativa della storia.
La Du Maurier però è attratta dall’orrorifico e dal macabro e infatti il romanzo non è permeato solo di violenti sentimenti, ma di violenza vera e propria. L’abilità dell’autrice è già tale da amalgamare astutamente i vari ingredienti, ma riflettendoci a mente sgombra Jamaica Inn inanella una serie piuttosto lunga di omicidi, tra quelli suggeriti magistralmente da un oggetto fuori posto e uno mostrato e nascosto dai lampi di una tempesta, nella scena madre del libro, una mattanza costruita magistralmente dalla Du Maurier.
Certo il libro eredita dal gotico anche qualche caratteristica che l’ha fatto invecchiare precocemente, per esempio una verbosità assillante e una descrittività di paesaggi e ambienti troppo pervasiva. Tutto sommato però è comunque una buona lettura, riservata a quanti hanno già divorato i capolavori riconosciuti dell’autrice e ne vogliono ancora.
Lo leggo? La sinistra avventura di Mary Yellan, una saggia eroina brontiana che dimostra sul finale di non sapersene proprio che fare di tutta la morigeratezza e logica di cui è stata ammantata, è una buona lettura tout-court, ma certo non il primo volume da recuperare se si è colpevolmente digiuni di Du Maurier. Dopo Rebecca, Rachele e le storie brevi però, costituisce una prova precoce del talento (e dell’inquietudine interiore) dell’autrice.
L’edizione italiana, tradotta da Marina Vaggi, è edita da Beat Edizioni.