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lalaland2Se il cinema è l’arte di girare film in senso lato, allora è dura argomentare qualche tesi contraria alla preponderanza artistica dell’ultima fatica di Damien Chazelle nell’anno cinematografico che stiamo preparandoci a chiudere con gli Oscar. Se invece, per parafrasare un noto motto, il cinema è vita, allora pur riconoscendo a La La Land una sartorialità cinematografica eccelsa, qualche appunto da fare io ce l’avrei. Partiamo da un dato non trascurabile: ho cominciato a riflettere sulla valenza della storia di Mia e Sebastian durante la visione del film, indice non certo di grande coinvolgimento emotivo. Contante che ho un trasporto emotivo senza pari, in sala empatizzo come manco Will Graham e sono parziale al limite dello scandalo per ogni briciola estetizzante che appare sul grande schermo. Mi piacciono discretamente le persone che al posto di agire riflettono cantando e ballando coi passanti e sono una paladina persino dei cinemozioni5 brutti come il peccato, figuriamoci dei film romantici belli e pieni di sentimento. Allora perché ero così distaccata mentre Ryan Gosling e Emma Stone ballavano tra le stelle?
Mentre cantavamo le lodi del giovane prodigio Xavier Dolan avremmo forse dovuto prestare più attenzione al quieto ma risolutissimo Damien Chazelle, che a soli 32 anni non solo ha tirato fuori due film capaci di imporre una cifra stilistica al cinema statunitense contemporaneo (due pellicole che verranno citate e che non hanno bisogno di citare), ma che da dietro le quinte e da dentro le sceneggiature ha messo lo zampino in tanti film che hanno saputo distinguersi chiaramente dal sottofondo uniforme della produzione hollywoodiana.
Dopo aver ottenuto 30 milioni di dollari da Lionsgate (additata come coraggiosissima ma con gente come Emma Stone e Ryan Gosling al timone, quanto ha davvero rischiato?), Chazelle torna alla sua tesi di laurea sui musical anni ’50/’60 della MGM, a cui aveva già dedicato uno squattrinatissimo lungometraggio in bianco e nero.

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Stavolta però c’è solo il cielo perennemente fotografato nei toni del pastello da Linus Sandgren e la viabilità losangelina – bloccata per poche ore per realizzare l’incredibile dichiarazione d’intenti che è la scena introduttiva – a frenare l’ambizione di Damien Chazelle. Libero ma più calcolato rispetto a Whiplash, il regista realizza un film il cui scopo principale rasenta l’arroganza: non vuole spiegarci dove sta andando Hollywood, vuole attivamente deciderne la direzione. La consapevolezza e l’autocompiacimento toccano le stelle, ma è difficile contestare qualcosa a questo film, che nelle sue linee perfettamente curve e sinuose (tutto il contrario delle asperità di camera e di toni del complementare e contrastante Whiplash) e nel suo girato irresistibile mette sul piatto una sequenza quasi interrotta di scene, canzoni, coreografie (di Mandy Moore), costumi (l’inno al comodo da elegante hipsterico di Mary Zohres) e situazioni che mentre le vedi sia già che ti si stanno imprimendo per sempre nel cervello e che torneranno in forma di omaggio, citazione o calco ironico per i prossimi decenni (cfr. spezzone di apertura ai Golden Globe). A ben vedere mentre detta l’agenda stilistica di Hollywood in questo straordinario esercizio di estetica Damien Chazelle è così furbo da prendere in prestito parecchio dai suoi colleghi più talentuosi (era un’omaggio o proprio una scopiazzata quel montaggio a giustapposizionealla Edgar Wright del servizio in caffetteria?) senza farsi quasi mai sorprendere.

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Se il cinema però è vita, La La Land non parla della vita di nessuno, nemmeno di quella attuale delle stelle di prima fascia che interpretano (Emma Stone ottimamente, Ryan Gosling discretamente) i due protagonisti. Superficialmente potrebbe sembrare un inno alla generazione che tiene duro e lavoracchia in attesa della realizzazione del proprio sogno, che sia hollywoodiano o meno. La totale mancanza di un vero e proprio conflitto però fa scricchiolare questa ipotesi, dato che poi scivola tutto via senza attriti o intoppi e il sangue, il sudore e il sacrificio a ben vedere si riducono nella scarsa attenzione rivolta a Mia durante le audizioni e a una bonaria lavata di capo di John Legend (“che davvero?” pensavo a ogni primo piano) che ridimensiona l’egocentrismo di Sebastian.

L’amore tra la giovane attrice e il jazzista disilluso e arrabbiato è così totalizzante che cancella di colpo la tridimensionalità del mondo dove si muovono e non è solo una questione di musical. Le amiche di Mia e le persone che interagiscono con Sebastian sono sempre e solo figuranti intercambiabili, pronti a ballare non appena comincerà una delle iconiche, trascinanti canzoni che compongono la OST.

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Privo di conflitti e privo di abitanti, il mondo di La La Land viene ulteriormente privato di profondità da un uso del musical classico, un canta che ti passa, una perfetta glassatura a un mondo già perfetto, in maniera ancora più smaccata del classico a cui guarda, Cantando sotto La Pioggia che, pur allegro e positivista, aveva tutta la tridimensionalità e i conflitti indispensabili per raccontare una storia. Senza nemmeno voler tirare in ballo chi ad oggi il musical lo sta utilizzando per fare discorsi enormemente più complessi, stratificati e interessanti, con meno di due spicci, vedi alla voce Rachel Bloom in Crazy Ex-Girlfriend (non a caso citata quasi sempre nelle recensioni più scettiche).

Nemmeno la musica tanto amata e raccontata è così centrale in questo film, pur contenendo una hit tormentone come City of Stars, in grado di raggiungere il livello di pervarsività e orecchiabilità di una Let It Go. Qui il ruolo della musica in senso lato è talmente accessorio che non c’è stato nemmeno bisogno di trovare due interpreti di razza canterina, ripiegando su due interpreti e basta. Damien Chazelle argomenta che non è interessato alla perfezione formale, ma il film che ha tirato fuori racconta tutt’altro, ad ogni movimento di camera. Il punto è proprio quello: sotto l’occhio di bue più che la storia d’amore o la musica, c’è quel movimento di camera audace e curvilineo: il suo.

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Lo vado a vedere? La La Land è un film imprescindibile per capire il cinema del 2016 e fortunatamente non è una condanna a morte da pesantezza filmica. È bello, trascinante, stupefacente, impalpabile, emozionante. Non ho problemi a credere che tanti ne saranno profondamente toccati ed emozionati e hanno perfettamente ragione e diritto di esserlo. Il mio dubbio è se la La La Land del titolo sia davvero la città che racconta o il film stesso, o se sia sostanzialmente una pacca sulla spalla e un abbraccio forte che questa storia riserva allo spettatore, celando però la visuale sulla realtà che si propone di raccontare.
Ci shippo qualcuno? No.