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Autocompiacimento registico, Billy Crudup, biopic, Caspar Phillipson, delicate palette cromatiche, fotografia leccatissima, Greta Gerwig, John Hurt, Natalie Portman, Noah Oppenheim, Oscar 2017, Pablo Larraín, Peter Sarsgaard
Ci sono registi che la sera vanno a dormire pensando della loro carriera “è tutto qui?”. Il giorno dopo si alzano, bevono un caffè e si rimettono a lavorare, pregando ardentemente il loro Dio di riuscire a realizzare nella propria carriera almeno un film al livello di Neruda o Jackie. Poi c’è Pablo Larraín, che questi due film biografici eccezionali, sull’orlo del capolavoro, li ha realizzati nel solo 2016. In un solo anno, lavorando all’interno di uno dei generi più attivi e in corso di evoluzione nel panorama cinematografico mondiale, il regista cileno più noto al mondo ha saputo regalare ai cinefili due pellicole diversissime, due risposte contrastanti al che spostano in avanti il confine del cinema contemporaneo e in alto l’asticella della qualità. Il fatto che nessuno dei due sia finito tra i nominati a miglior film di questo giro agli Oscar è l’esclusione più scandalosa, che certifica lo status di Pablo Larraín di regista autoriale più sottovalutato e trascurato al mondo. L’ho detto, sue me.
La comparazione di Jackie con Neruda è semplicemente impossibile, perché pur essendo due figli dello stesso regista, vengono da storie produttive con finalità e messaggi davvero differenti. Tanto Neruda è caldo e personale, appassionato nel ritrarre un pezzo di storia cilena, tanto Jackie è composto ed elegante come la sua protagonista, intento a fare leva su uno sguardo così estraneo sulla realtà statunitense da essere stridente quanto le musiche che accompagnano il film. Vedere da vicino la più celebre e iconica first lady statunitense spogliata di ogni riverenza, retorica o senso di familiarità (come siamo abituati a fare per ogni vicenda cinematografica statunitense, sempre girata con un profondo senso di partecipazione) è già di per se qualcosa di inedito, potente come uno schiaffo, così come il taglio profondamente celebrale e laico che questo ritratto biografico assume.
Così come successo per Arrival di Denis Villeneuve, ci troviamo di fronte a un film dalla struttura circolare, la cui narrazione è tutta basata su una sorta d’inganno prospettivo. Mentre un giornalista intervista l’ex first lady Jackie a poche settimane dall’omicidio del marito e dal suo funerale, pensiamo di avere un punto di vista privilegiato su di lei, così come pensa il reporter. Non a caso il suo breve periodo di felicità alla Casa Bianca ci viene spesso mostrata da dietro la cinepresa, permettendoci di vedere oltre la donna elegante ma superiìficiale e e vanesia che presenta ai telespettatori le meraviglie della casa del popolo. Mentre fuma, risponde acidamente al reporter e sottolinea più volte che non confermerà mai i passaggi più oscuri della storia che sta raccontando, come il giornalista pensiamo di aver già capito tutto di Jackie, di poterla ridurre ai minimi termini. La first lady è una donna ambiziosa alle spalle di un uomo potente che, di fronte alla sua tragica morte, cerca con tutte le sue forze di rifondare il suo mito con un funerale che lo consegni alla storia come un’icona ancor prima che il tempo faccia il suo corso. Jackie insomma è la grande donna alle spalle di un grande uomo, madre e moglie dolorosa tramutata in animale politico dalla paura che la scarsa eredità politica di JFK venga dimenticata.
Sarà la magistrale chiusa del film e il personaggio memorabile di John Hurt (il ruolo ideale per chiudere la sua maestosa carriera) a farci capire che non avevamo capito niente, che eravamo davvero il giornalista, il primo di una lunghissima fila di persone a cui Jackie ha detto tutto senza in realtà svelare nulla. Il suo piano era sì di rifondare il mito del marito, ma l’operazione è incredibilmente più cinica, spregiudicata e iconoclastica di quanto ci è dato capire; non siamo i privilegiati a cui viene svelato l’inganno di Camelot, siamo solo i primi a venir ingannati dalla favola delle favole, quella della famiglia reale degli Stati Uniti d’America. Il dubbio strisciante è che la sia stata grande solo la donna dietro l’uomo e il presidente facendo di tutto per farlo entrare nella storia in una versione ben più maestosa della realtà.
Così l’iniziale scena sgangherata e senza senso diventa un capolavoro di lucido cinismo, così Pablo Larraín conferma di poter infondere in una singola sequenza tutto il cinismo necessario per ricordarci che, nonostante ci avesse già avvertito del potere inarrestabile del marketing in politica con No – I Giorni dell’Arcobaleno, ci basta davvero quel minimo senso indotto di partecipazione per essere ingannati. Così quel continuo negarci la ripresa della macchina presidenziale che tutti attendiamo per poi darcela sul gran finale con quel che è sempre omesso – il cadavere – non è quel segreto che finalmente Jackie ci rivela, è solo un altro tassello della bugia consolatoria che ci racconta. Cosa rimane poi da dire su un regista capace di alludere in maniera palpabile al presunto rapporto speciale tra Jackie e Bob solo ed esclusivamente con le immagini, lasciandoci nel dubbio se volesse davvero dire che o se anche noi stiamo cadendo nella trappola della maldicenza?
Se Pablo Larraín è eccezionale, Natalie Portman è oltre i confini dell’umano, circondata da un cast superbo che riesce a stare al suo passo. Un volo così noto e iconico è quasi sempre certezza di una presenza attoriale ingombrante. Qui invece il suo lavoro maniacale su mimica e intonazione la fa scomparire letteralmente dentro Jackie: la mimesi è perfetta e ci scordiamo immediatamente non solo di Natalie, ma anche di Pablo che, indisturbato, riesce a giocare ancora più spregiudicatamente con le nostre aspettative e i nostri pregiudizi.
Lo vado a vedere? È un’opera magistrale, irrinunciabile per chiunque si interessi di cinema, a qualsiasi livello. Con il sentito grazie che si deve a Lucky Red perché ogni volta ci assicura di vedere Pablo Larraín in sala, mi permetto di esprimere una forte critica: nell’era in cui lo standard qualitativo di visione si avvia ad essere 8k, è inammissibile che l’opera struggente di questo formidabile genio, graziata di una fotografia sempre sublime, venga distribuita in home video solo su supporto DVD. Si sa che il mercato home video italiano è vittima di un trascuratezza deprecabile, ma questa mancanza in particolare è davvero una vergogna: film come El Club o Neruda devono essere distribuiti anche e almeno in blu-ray.