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Da sempre sorellina minore e meno sfavillante dell’armata artistica e commerciale Disney / Pixar, Dreamworks si è ritrovata da poco a fare i conti con la nuova, agguerritissima rivale, Illumination Entertainment, che sostituisce la sua assoluta mancanza di sostanza con tormentoni che fanno sembrare le saghe de L’era glaciale e Madagascar tentativi quasi fini d’ingraziarsi lo spettatore e il suo portafoglio.
Incapace al momento di trovare una dimensione personale, una terza via tra quelle ben definite della concorrenza, con Baby Boss Dreamworks decide di intraprendere un passo che mai si era azzardata a fare negli anni di competizione più feroce con Pixar: citarne apertamente lo stile e il canone nel proprio lavoro.

Sarà perché ci troviamo in un piccolo mondo di cui gli adulti sono beatamente inconsapevoli (però stavolta i protagonisti sono i bimbi, non i giocattoli), sarà perché nelle sue lunghe sequenze d’avventura e descrizione di passa in scioltezza dalla computer grafica all’animazione tradizionale, è comunque davvero difficile completare la visione di questo film senza compararlo a Toy Story o altri classici della prima era di Pixar, quanto ancora Disney era un’entità ben distinta.

Richiamando Tom McGrath come regista dopo i successi di Madagascar, Dreamworks si dimostra anche abbastanza saggia da non tentare nemmeno la gara al ribasso tra gag e tormentoni nel tentativo di lanciarsi all’inseguimento di Illumination, anzi, decide di concentrarsi sul pubblico dei più piccoli, realizzando un film in parte persino didattico ed educativo, volto a dare una spiegazione intrigante e comprensiva ai tanti fratelli e sorelle maggiori che si ritrovano all’improvviso messi da parte, invidiosi delle attenzioni che i nuovi bebè di casa hanno attratto su di sé.
Il ribaltamento geniale e pixariano della storia, che si apre proprio con una lunga sequenza che introduce la sfrenata capacità immaginifica del piccolo protagonista di 7 anni, è di rimanere dentro il suo punto di vista di bambino che, con avventure spaziali e galeoni pirati, cerca di razionalizzare l’arrivo del fratellino minore.

Il bebè urlante diventa quindi un astuto e scaltrissimo dirigente capitalista, arrivato in missione segreta a casa del protagonista per sventare l’ascesa dei cuccioli nella classifica di gradimento delle cose tenere per il genere umano. Dipendente della Baby Corp, il Baby Boss è il catalizzatore dell’umorismo più adulto della pellicola, giocato sul suo corredo di sonaglini e pannolini, dietro cui si nasconde un’attitudine da dirigente e un’efficienza crudele da neoliberista.

Il tempo per ammiccare ai grandi in sala però è ben più risicato di quanto succeda nei film Pixar, spesso sin troppo sbilanciati nel voler a tutti i costi piacere al pubblico adulto, perdendo un po’ di vista quello dei piccoli. Qui il film rimane invece concentrato su di loro, a costo di diventare largamente prevedibile nella seconda metà e persino un po’ didattico: d’altronde la missione di Baby Boss è proprio quella di riappacificare gli animi dei tormentatissimi fratelli/sorelle maggiori invidiosi dei nuovi arrivati, con buona pace degli adulti in sala.

Se qualche passaggio ripetitivo e prevedibile è quindi perdonabile, risulta francamente più difficile capire il bisogno di un paio di scene slapstick che sembrano sintonizzarsi repentinamente sulle frequenze di prodotti tipo Sausage Party, con il bebè (in originale doppiato da Alec Baldwin) che chiede al fratellino di suck it harder il ciuccio, per raggiungere un nuovo livello di consapevolezza: una scena che fortunosamente non è nemmeno lontanamente così stridente e pedobear come in originale nella sua traduzione italiana, ma che comunque mal si armonizza con il suo pesante sottotesto sessuale con il resto di un film davvero dedicato ai bambini.

Lo vado a vedere? Non meritava di sbancare il botteghino statunitense, ma nemmeno di venir massacrato dalla critica, che spesso tende a dimenticarsi che un film con queste premesse deve parlare ai bimbi ancor prima che ai cinefili. Baby Boss è certo prevedibile e fa i compiti seguendo le linee guida dettate da altri, ma è anche divertente e amorevolmente confezionato per i più piccoli, riuscendo talvolta ad azzeccare soluzioni stilistiche, visive e narrative. Soprattutto Baby Boss non è un esercizio pigro alla ricerca di denaro facile, ma un tentativo più che dignitoso di (ri)trovare una propria voce personale nel panorama molto uniformato dell’animazione dei grandi studios statunitensi.
Ci shippo qualcuno? No, ma quella scena di cui sopra è davvero, in un certo bizzarro qual modo un filo disturbante, memorabile.