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Amos Oz, Cannes 2015, film col dramma dentro, film PESO, Natalie Portman, Shira Haas, Tomer Kapon
Se il riscaldamento globale non esiste eppure non ci sono più le stagioni di una volta, come fare a stabilire che l’estate è davvero arrivata? C’è un segno inequivocabile su cui fare affidamento: quando arrivano nelle sale italiane i film di Cannes sì, ma di due o tre edizioni fa, allora è tempo di estrarre crema solare e costume da bagno. Estate stagione della social responsability, con le case di distribuzione italiana che si danno alle buone pratiche di recupero e riciclaggio, per salvaguardare la sostenibilità del botteghino italiano. Primo di una serie infinita di ripescaggi di cui parleremo quest’estate qui su Gerundiopresente è il debutto dietro la cinepresa di Natalie Portman, alle prese nientemeno che con uno dei romanzi più noti dello scrittore israeliano Amos Oz, portato su schermo dopo ben otto anni di lavoro sull’adattamento e la sceneggiatura.
Come dimostrato anche quest’anno dall’edizione numero 70, Cannes è la meta privilegiata delle star con aspirazioni registiche di sorta: vuoi perché in cambio di un red carpet prestigioso un posto in qualche sottosezione si trova sempre, vuoi perché la Croisette è una signora vetrina per qualsiasi tipo di prodotto cinematografico.
Quello di Natalie Portman però non è un corto artistoide per togliersi lo sfizio però, è un film vero e proprio, girato a Gerusalemme e costato 4 milioni di dollari, che la vede protagonista anche davanti alla cinepresa.
Per il pubblico italiano difficile la trama è presto detta: Sognare è vivere è una sorta di Fai Bei Sogni in salsa yiddish. Con il film di Marco Bellocchio che portava su grande schermo il romanzo confessione di Gramellini i punti in comune sono innumerevoli: entrambe le storie sono memorie romanzate ma comunque autobiografiche dei rispettivi autori, che narrano dal punto di vista di un ragazzino sensibile la storia di una donna e di una madre dall’animo fantasioso eppure fragile, a cui una situazione esistenziale grigia e un marito disattento danno il colpo di grazia, finendo nella spirale della depressione.
Qui la madre, interpretata da una castigatissima Natalie Portman, è figlia di un’illustre famiglia ebrea originaria dell’Europa, costretta a lasciare una vita agiata fatta di servitori, lussi e grandi giardini per sfuggire alle persecuzioni naziste. Tra gli anni ’30 e gli anni ’40 si va concretizzando il sogno di tornare a Gerusalemme e la giovane donna si recherà nella terra promessa che imparò ad amare da bambina.
Nel suo nuovo mondo troverà l’amore e si costruirà una famiglia, dedicando il suo affetto al figlio via via che il rapporto con il marito si raffredda.
Con il passare degli anni, mentre lo stato d’Israele muove i suoi primi passi, la donna è sempre più scoraggiata da una realtà afosa e arida, da una società spartana e ortodossa al midollo, ancora più soffocante perché unita nel resistere alle nascenti proteste palestinesi, dalla penuria di cibo e dalla crescente violenza. Tra la trascurata distrazione del marito e il dolore silenzioso del figlio, la donna diventerà sempre più preda della depressione.
Il primo e unico commento che questo film forse si merita è: che noia. Già la trama è parecchio drammatica, ma diventa in tutto e per tutto un film PESO perché manca di cuore, di sentimento. La sua creatrice è così impegnata a farsi prendere sul serio come regista che adotta un approccio sin troppo serioso, badando oltremodo alla forma – ortodossa quanto la sostanza, addirittura recitata in yiddish – ma priva di un qualsiasi slancio sentimentale. Sognare è vivere è insomma una lezione rigidamente portata a termine con i suoi bravi chiaroscuri e le sue cupissime palette cromatiche, dove a brillare non può che essere Natalie Portman, circondata da attori non alla sua altezza e isolata in un film che ruota attorno a lei ma che non riesce ad andare oltre alla sua presenza e performance.
Lo vado a vedere? Se a livello storico e informativo mette in scena un racconto delle persecuzioni naziste viste da una prospettiva inconsueta (quasi fosse il sequel di Wolf di Thidar), il suo rigore fin troppo rigido e la sua pesantezza lo rendono piatto e senza brio, una visione decisamente antitetica all’atmosfera estiva che si respira dentro e fuori le sale italiane.
Ci shippo qualcuno? Figuriamoci.