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Aleksey Rozin, Andrey Zvyagintsev, Brady Jandreau, Cannes 2017, Cannes e dintorni, Chloé Zhao, Deve far male!, film PESO, Lilly Jandreau, Maryana Spivak, piangerone, Tim Jandreau, tristezza a palate
Sono stati salutati da buona parte dei presenti come i migliori film passati a Cannes 2017, in una 70esima edizione risultata molto più deludente del previsto. Anche se poi si sono dovuti accontentare di riconoscimenti minuti, non è escluso che tornino a far parlare di sé in autunno.
Sto parlando del secondo film di una giovane cineasta cinese che racconta l’America del West – The Rider – e del ritorno contemporaneo e glaciale del grande cineasta russo Andrey Zvyagintsev con Loveless.
Se sulla qualità si può e si discuterà, sulla tristezza e il PESO direi che siamo di fronte a una doppietta formidabilmente depressiva dalla competizione: vale comunque la pena di sfidare le crisi depressive che i due film generano. Ecco perché.
THE RIDER
Vincitrice della Caméra d’or come miglior cineasta esodiente, Chloé Zhao è una cineasta cinese trapiantata nelle terre un tempo di frontiera degli Stati Uniti d’America. Dopo aver raccontato le tribolazioni degli indiani Sioux, ha tirato fuori questa lodatissima piccola perla del Festival, intitolata The Rider.
In un orizzonte immenso dove convive l’aura del selvaggio West e un senso di marginalità e degrado contemporaneo, una giovane stella del rodeo affronta un grave incidente che gli ha lasciato un’orrenda cicatrice sul cranio. Brady è un cavallerizzo che vive in una roulotte con la sorella Lilly, affettuosa ma con qualche problema psicologico, e il burbero e ombroso padre. A interpretarli ci sono tre volti provenienti dritti dritti dal Sud Dakota, le cui vicende sono così contigue a quelle narrate dal film che hanno giusto un cognome differente da quello della pellicola, mentre hanno lo sguardo, la cadenza e le cicatrici dei loro stessi personaggi.
A essere raccontato in un film sempre magnificamente bilanciato tra lirismo e realismo è il Sud Dakota dei cowboy di oggi, che tentano di far convivere un’etica cavallerizza senza tempo con una realtà durissima che ne spezza la schiena e le speranze in giovanissima età. Chiariamoci: è un film di paesaggi e tristezze estreme, tanto che è umanamente lacerante assistere alla sequela di negazioni e scherzi del destino che Brady deve imparare ad accettare, ricacciandosi in gola lacrime e orgoglio. Una tristezza epocale che ti fa salire i lucciconi in più occasioni, eppure dietro c’è un’umanità incredibile, che tocca il cuore. Poteva essere un altro film che guarda in faccia il degrado altrui, che segue i suoi protagonisti in spirali distruttive, invece è un The Wrestler ancora più pacato e lirico, che dona dignità e bellezza a figure dalla vita estrema, spesso esasperate o oggetto di patetismo nel cinema autoriale.
I cavalli, gli umani, i paesaggi e il dolore: tutto è ripreso con poesia ma senza autocompiacimento, per un film capace di mettere a dura prova i dotti lacrimali e di toccare il cuore.
LOVELESS
Andrey Zvyagintsev gira quel che ci si aspetta da lui: un monumentale film autoriale di quelli russi e cattivi, a cui a livello qualitativo è davvero difficile contestare qualcosa. A sorprendere, date le premesse, è l’accessibilità di un fim comunque PESO, ma più per tematiche che per forma scelta.
Siamo nella Russia d’inizio millennio, in un tranquillo quartiere borghese percorso dall’inestinguibile sete di realizzazione personale di chi lo abita. Zhenya e Boris sono benestanti e in procinto di ottenere il divorzio e la felicità con i loro nuovi compagni. Sulla loro strada ci sono due ostacoli: la casa da vendere e il figlio del primo matrimonio da sistemare in qualche modo. Dopo un confronto terribile in cui i due si rimpallano la responsabilità del piccolo Alyosha e calcolano grettamente come liberarsene in modo che non ostacoli i loro progetti, il ragazzino fugge di casa e scompare nel nulla.
Quello che segue è un glaciale memento mori e una condanna durissima dei russi benestanti di oggi, ritratti come persone prive dei più elementari sentimenti di patetismo e umanità. Il piccolo Alyosha non trova da scomparso quell’amore che gli è mancato nella vita e sembra essere un peso per tutti: i genitori impazienti di farla finita, le autorità già rassegnate a passare al caso successivo, i metodici ricercatori di persone scomparse che portano avanti meticolosamente ma senza sentimento le ricerche, l’orribile nonna infastidita dal coinvolgimento marginale nelle ricerche. L’esperienza è opposta a quella di The Rider: la mancanza di empatia nei confronti di un manipolo di personaggi tanto gretti ed egoisti è tale che l’impressione è quella di abbracciare un blocco di ghiaccio per l’intera durata del film, mentre poco a poco il gelo ti si insinua fino alle ossa.
Non si può che essere affranti di fronte alla vita del tutto priva d’amore di Alyosha, ma più il film esplora i tentativi infruttuosi di trovarlo e quindi la sua vita, più appare chiaro che il titolo si riferisce all’intera società russa. La morale del film, che non ha risparmiato davvero nulla alla vita del piccolo 12enne cancellata senza troppe remore dai suoi genitori, è ancor più raggelante: il finale infatti sembra suggerire che non fosse Alyosha l’ostacolo alla vera felicità dei genitori, quanto piuttosto l’enormità del loro stesso egoismo. Bello, durissimo e fulgido esempio di show, don’t tell: Zvyagintsev non ha nemmeno bisogno una battuta per esprimere una critica feroce alla società moderna e alla Russia di oggi. Come ad ogni bravo cineasta, basta il brusio di una radio di sottofondo e una certa insistenza nel riprendere la madre che scrolla annoiata qualche social sul cellulare.