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Storie di lettura all’epoca dei social network: pur avendo adorato Elle di Paul Verhoeven (tanto da cacciarlo persino nella mia classifica di fine anno) ho finito per scoprire per era tratto da un romanzo francese edito in Italia da Voland grazie a una foto su Instagram postata da chissà quale influencer o blogger.
A dirla tutta il merito va addirittura a una di quelle molestissime, odiose fascette giallo fosforescente, che proclamava a gran voce che da quel romanzo era tratto un grande film, Elle. Difficile altrimenti che collegassi il libro di un autore francese a me sconosciuto con il film del regista olandese. Anzi, se diversamente dal solito non sono andata a caccia di informazioni è proprio perché la storia di Michèle Leblanc è davvero belle corde del regista di Basic Instict e Robocop, tanto da sembrare tutta farina del suo sacco.
Invece la storia della volitiva e talvolta crudele Michèle l’ha pensata un altro uomo, Philippe Djan, un autore francese di una certa fama e, a giudicare da questo breve romanzo, d’innegabile maestria. In 200 pagine scarse Djian racconta una settimana di una donna più che adulta ma men che anziana, costretta da un drammatico episodio di violenza a soppesare e rivalutare tutte le persone e gli eventi che ne caratterizzano la vita. La Michéle protagonista di “Oh…” è un personaggio suo malgrado straordinario, abituato dalle circostanza terribili in cui la sua famiglia è divenuta celebre mentre lei era adolescente a aspettarsi una certa dose di ostilità e violenza da parte degli sconosciuti. Tanto che quando viene aggredita in casa sua e stuprata, pensa sia l’ennesimo strascico di quanto suo padre ha fatto, cambiando per sempre la sua vita.

Philippe Djian

Se è vero che anche in “Oh…” Michéle rifugge sin dalle prime pagine il ruolo della vittima e che le sue reazioni di brutale onestà e genuina cattiveria sono spiazzanti, di fondo Dijan descrive una reazione anticonformista a uno stupro ma pur sempre articolata nelle classiche fasi di ritorno alla “normalità”. Certo, Michéle non piange e non appare spaventata a un osservatore esterno, ma passa del tempo prima che si senta relativamente al sicuro, prima che il suo corpo ritrovi il desiderio, sebbene poi s’incanali nella direzione più controversa e pericolosa possibile.
“Oh…” è ambiguo come l’esclamazione di sorpresa lasciata in sospeso dal suo titolo, ma ha dei punti saldi da cui non si svicola: la protagonista è suo malgrado (e con molto fastidio) vittima di un sopruso fisico nel presente e di uno scandalo nel passato, anche se tenta in tutti i modi di rifuggire i comportamenti che ci aspetteremmo da una persona che ricopre questa scomoda posizione.

Nel film viene citato paro paro uno dei passaggi più belli di “Oh…”

Dijan alla fine “sfrutta” (nell’accezione più neutrale possibile) lo stupro in apertura del romanzo e alcuni cambiamenti irreversibili che occorrono in famiglia nei giorni successivi per darci uno spaccato tanto repentino (200 pagine scarse) quando vivido e ricco di sfumature della vita di questa donna eccezionale. Nonostante i temi forti e le soluzioni spesso brutali, non è né un libro duro, né drammatico, concedendosi spesso un tocco di humour nero, senza mai perdere un’eleganza formale ammirevole. Djian esplora con sagacia e incisività ciò che ha plasmato la protagonista e che alimenta le sue preoccupazioni quotidiane: il matrimonio fallito ma mai davvero chiuso, il rapporto di amore e d’insofferenza verso un figlio iracondo e poco pragmatico, l’ambiguità e l’egoismo con cui gestisce amici, nemici, amanti e persino il suo stupratore, finendo per mettere in riga tutti al momento giusto. Insomma, “Oh…” è tanto così dall’essere eccezionale e di certo è memorabile: una prova di forza letteraria che non ha mai bisogno di mostrare i muscoli per dimostrare il suo carattere, senza mai scomporre la propria raffinata eleganza. Un gioiello che mi causa un unico cruccio: senza aver prima visto l’adattamento filmico, nei avrei colto al volo la grandezza?

Difficile a dirsi, perché se è vero che Djian fornisce a Verhoeven del materiale eccellente, il regista olandese crea qualcosa di derivativo ma a mio modo di vedere nettamente superiore, capace di mettere a tacere quel genere d’affermazione imbecille e superficialissima secondo cui il libro è sempre meglio del film. Casomai è il progetto d’adattamento che sbaglia approccio e non crea un nuovo prodotto con un motivo personale e specifico d’essere, a differenza di quanto avvenuto con Elle.

“Oh…” e Elle partono dallo stesso punto di partenza – lo stupro della protagonista – e giungono allo stesso traguardo, attraversando più o meno le stesse tappe. Eppure messi a confronto paiono piuttosto distanti, perché la medesima biografia è piegata ad esigenze personali e messaggi totalmente differenti, che si riflettono nel tono e nelle sfumature della storia. A Paul Verhoeven non sembra poi molto importare del progressivo recupero di Michéle, anzi, il punto dell’intero film sembra essere l’impossibilità di stabilire negli episodi chiavi del suo passato e del suo presente se sia davvero una vittima. Il finale di Elle viene anticipato per esempio da una sua fantasia che lascia il dubbio che il film si chiuda proprio dove lei voleva farlo finire, così come l’episodio legato al suo passato è ben più fumoso nei suoi contorni rispetto al libro, non chiarendo quale fosse poi il suo coinvolgimento (o se provi un qualche tipo di rimorso).

La Michéle di Verhoeven e il film che le ruota attorno sono più estremi nei toni, più netti nei bordi, tanto da avere un certo retrogusto da B movie qua e là. Elle è un film controverso fino al midollo, in maniera molto differente e molto più disturbante di un Basic Instict. Qui non c’è una donna potenziale assassina che mostra sfrontatamente il proprio sesso durante un interrogatorio, bensì un personaggio femminile ostinato nel scegliere l’opzione che la renda via via meno empatica per lo spettatore, che si definisce onestamente “una stronza”. Verhoeven di fondo vuole mettere in crisi l’assunto secondo cui – per definizione – chi subisce una violenza del genere è automaticamente una vittima perché nessuno può davvero meritarsi di subire una cosa del genere. La Michéle filmica invece è costruita appositamente in un dimensione pericolosissima in cui quel nostro bisogno di spuntare almeno un paio di punti della lista delle vera vittima non trovano mai conferme. Tutti i dettagli che vogliamo per valutare la situazione sembrano indicare come unica opzione “se l’è cercata/se lo meritava” e finiscono per mandarci in crisi, perché ci rendiamo conto di quanto di fatto abbiamo bisogno delle lacrime e del dolore per venire davvero incontro alla vittima. Michéle invece si ribella e di essere vittima non ne vuole sapere e noi sentiamo tutta la fragilità delle nostre buone intenzioni.

Elle non è certo un film che si metta a delimitare un perimetro più stretto per lo stupro come atto sbagliato e violento, uno che non li comprenda tutti, eppure ha messo così paura a Hollywood che il regista è dovuto andare a farselo finanziare altrove. Sebbene i suoi copioni siano notoriamente più che altro delle linee guida, il personaggio di Michéle ha rischiato di rimanere nel suo cassetto per sempre, perché aveva messo paura con la sua ambiguità a tutte le attrici a cui lo aveva proposto. Ad accettare è stata la più grande attrice francese vivente, una che non si capisce proprio da cosa potrebbe essere spaventata. Isabelle Huppert, nervi d’acciaio e professionalità eccezionale, in questo azzardo si prende sulle spalle il film e lo trasporta lontano, fino a un Golden Globe e a una nomination agli Oscar che le era già stata ingiustamente negata troppe volte. A me piace baloccarmi con l’idea che non avrei potuto che pensare a lei per quella parte, anche se avessi letto il romanzo prima dell’uscita del film. Quel che è certo è che per me la voce della protagonista di Djian durante la lettura  ha assoluto a più riprese il tono di voce ironico e inimitabile di Isabelle Huppert.