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Quella che segue è la traduzione e trascrizione il più fedele possibile del lungo incontro che il regista di Carol, Lontano dal Paradiso e Velvet Goldmine Todd Haynes ha avuto con il pubblico del Festival di Locarno 70, il 9 agosto 2017.
La versione video pressoché integrale per chi non ha problemi con l’inglese la trovate in coda al post.

Nel frattempo in questo post potete ascoltare l’eco di una voce tra le più stimate del panorama cinematografico statunitense contemporaneo, mentre parla di cose cinematografiche, mondane e queer: dal suo rapporto con Cate Blanchett e Julianne Moore alla sua passione per Mary Poppins, fino al suo titolo di giornale preferito di sempre a lui dedicato. Buona lettura!

Va da sé che trascrivere in diretta tutta questa spataffiata è stata una bella faticaccia, per cui copincollate come e dove più vi pare, ma linkate questo post come fonte, grazie.

Todd Haynes commenta lo scandalo seguito all’uscita del suo primo film, Poison:

Negli anni ’90 uscì il mio primo film al Sundance, quello che presentai anche qui a Locarno. Mentre in Europa se ne parlò per quello che ne era, negli Stati Uniti venne da subito definito come “il film gay che ha vinto un premio al Sundance”. Ci fu persino un senatore che, senza nemmeno averlo visto, ne parlò come del “film che era stato finanziato con le tasse dei contribuenti americani per ritrarre uno stupro gay in carcere”. I miei PR erano estasiati, tutta quella attenzione inattesa per un film piccolissimo!
Alla fine venne organizzata a Washington una proiezione speciale per i senatori di Poison e venne fuori quello che secondo me rimarrà il titolo a me dedicato migliore di sempre: Todd Haynes, il Fellini della Fellatio. A me il paragone parve più che lusinghiero. Poison fu insomma molto controverso, ma nello scandalo ci fu un lato positivo: fece molto parlare del problema dell’AIDS negli Stati Uniti in un periodo critico come l’inizio degli anni ’90. Comunque fui davvero felicissimo di venire a Locarno per parlarne come film in quanto tale.

Todd Haynes risponde a una domanda riguardante il suo metodo di casting di attori e attrici professionisti e non:

Il mio metodo per scegliere gli attori? Dipende da caso a caso, naturalmente. Per esempio la prima volta che scritturai Julianne Moore avvenne dopo Poison, per un film intitolato Safe. Con questo copione continuavo in qualche modo a parlare Aids, ma uscendo da quello che era riconosciuto come il cinema queer dell’epoca. Per quanto riguarda Safe, cercavo qualcuno che potesse essere l’incarnazione della casalinga perfetta di quell’epoca, ma che non avesse idea di chi realmente fosse. Qualcosa del genere “quella che incontri a una festa e te la scordi completamente il giorno dopo”.
Notai Julianne Moore in Shortcut di Robert Altman; all’epoca si parlava di questa attrice in ascesa e io riuscii a visionare il film con largo anticipo rispetto all’uscita. Intanto lei ebbe in qualche modo lo script di Safe, seppe che ero interessato e acconsentì a fare un reading con me. Appena entrò nella stanza, fui colpito nel profondo da come usò in maniera unica la sua voce, come mai più fece dopo negli anni della nostra amicizia. Usava questo accento sud californiano che mai le avevo sentito. (imita) Faceva così no? Come se alla fine di ogni frase ci fosse una domanda?
Rimasi a bocca aperta. Credo che sia un film rilevante per la nostra società ancora oggi. Lei è capace di dare informazioni a chi guarda film ma anche trattenere qualcosa, mantenere una sorta di mistero. Ormai la considero parte della mia famiglia, siamo molto intimi, eppure ha qualcosa per me di enigmatico e ineffabile in quello che fa a livello di attrice.

Todd Haynes parla del processo di casting dei vari Bob Dylan per I’m Not There:

Il Bob del 1966 è quello più famoso, no? In quel periodo diventò androgino e magrissimo, sembrava quasi una marionetta impazzita, quello che vediamo quasi folle in No Direction Home di Scorsese. Ad un concerto a Manchester un fan lo insultò urlandogli “Giuda!”. Quando cominciai a lavorare al ritratto di quel Dylan per I’m Not There pensai “ok, lo deve fare una donna forte.” Non sapevo ancora chi l’avrebbe fatto ma volevo somigliasse anche fisicamente a quel Dylan perciò feci delle foto alle attrici in shortlist, tagliai la loro faccia e le incollati alle foto di Dylan. Dai, mi serviva qualcuno di forte e coraggioso per farlo e scelsi Cate Blanchett dalla shortlist, dopo aver tentato in tutti i modi di spaventarla mostrandole delle clip. Lei le osservò attenta e sempre più interessata e dichiarò fermamente: lo voglio fare io. Credo sia ancora una delle sue performance migliori.

Todd Haynes parla di ciò che voleva ottenere girando Velvet Goldmine:

Velate Goldmine è il tentativo di catturare il momento storico in cui artisti come David Bowie tentarono di utilizzare convenzioni artistiche come quelle di Andy Warhol per creare se stessi come artisti e come star. Volevo raccontare il momento in cui si passò dall’autenticità sincera degli hippie alla teatralità costruita delle star degli anni ’80, in una sorta di scontro tra la cultura della costa est e quella della ovest.
Alice Cooper e David Bowie e Iggy Pop: stava succedendo tutto insieme in posti diversi, con poi evidenti riferimenti in tutti e tre a come Andy Warhol cambiavaa sua volta il mondo dell’arte. Era una narrazione autogenerata dai musicisti, perciò io credo che Velvet Goldmine sia una vera storia di finzione che cattura un momento del pop in cui si comincia a raccontare una narrazione.

Todd Haynes parla dei registi che lo influenzano maggiormente:

Non era previsto che diventassi un regista, per cui ancor oggi mi sento uno studente di questo medium e mi preparo molto per ogni film. Per Wonderstruck, per esempio, mi sono documentato molto sul cinema muto e sui suoi processi tecnici, perché dietro a quella rivoluzione tecnologica si cela anche la creatività e l’inventiva con cui i registi dell’epoca crearono soluzioni infinite. Fu un periodo di grande sperimentazione, quello degli ultimi anni del cinema muto, con ogni nazione che sperimentava nuovi processi. Molti registi dall’Europa vennero in America per girare i loro capolavori. Per dire, nella sequenza della miniatura di New York di Wonderstruck ci siamo ispirati a quella famosissima e lunga sequenza de L’Appartamento che pian piano stringe sul cubicolo dove lavora Jack Lemon.
Le mie influenze sono spesso secondarie. Spesso traggo ispirazione da come il primo melodramma cinematografico influenzi a sua volta quello delle epoche successive, come per esempio i lavori di Fassbinder degli anni ’70 presero in prestito il linguaggio del melò antecedente per parlare della classe media. Ultimamente per un progetto che sto preparando sto vedendo molto Hitchcock e quale regista non vorrebbe avere una carriera del genere? Per me è fonte di grande ispirazione. Insomma, continuo a venire influenzato dagli altri registi.

Todd Haynes confessa il suo amore per Mary Poppins:

Adoro Mary Poppins, forse perché è la fantasia materna definitiva: dopo averlo visto, credo non avremo bisogno di altro. Quando lo vidi avevo forse 3 anni, credo sia stato il primo film che io abbia mai visto. Ha penetrato il mio essere, ha avuto un effetto psicotico su di me. Avevo questa ossessione creativa riguardante questo film, anche se non c’erano DVD e VHS e i bimbi potevano vedere una volta sola i film, al cinema. Ero così estasiato che avrei voluto vestire mia madre da Mary Poppins, mi era entrato nel DNA.

Todd Haynes sul girare con la pellicola e sull’immagine ricorrente di vetri e specchi nel suo cinema:

Il mio film precedente a Carol era girato in pellicola super 64 mm. Quando lo vidi in TV mi accorsi che trasmesso in HD perdeva quella grana tipica della pellicola che con tanta fatica avevo cercato, quell’effetto che fa apparire l’intero film come percepito attraverso un vetro.
La metafora dello specchio/vetro l’ho usata molto, in particolare in Carol. Questo perché trovo che le storie d’amore più appassionanti sono quelle che vediamo attraverso una sola parte del vetro, solitamente quella che desidera di più e magari non è nemmeno ricambiata. Guardare solo da un lato significa dare una sfumatura molto personale in cui il desiderio è così forte che distorce la realtà. Per questo motivo le superfici trasparenti e riflettenti sono una sorta di motivo del film, insieme a cornici, finestre e vetri.

Todd Haynes e il suo rapporto con la serialità: 

La mia unica esperienza è stata la miniserie di Mildred Pierce. Devo dire che in questo comparto si aprono molte possibilità. Mi sembra che oggi l’interesse principale sia creare una sorta di gancio con cui agganciare lo spettatore e mantenerlo davanti allo schermo il più al lungo possibile. Credo sia quello che fanno i prodotti commerciali oggi e non solo in televisione. Anche all’interno di grandi saghe o franchise, cercano anche di fare ogni film incentrato su una singola tematica, ma utilizzando sempre gli attori dei capitoli precedenti. Credo che oggigiorno si lavori molto su entrambi i fronti, con trame orizzontali e verticali.
Con Mildred Pierce è stato interessante perché dopo il lavoro di adattamento avuto nel film del 1945, credi che la miniserie sia stata l’unico modo per fare davvero giustizia al romanzo originale. L’autore James M. Cain volle per una volta lasciare il genere del crime e scrivere una sorta di Madame Bovary delle casalinghe americane, ma a Hollywood questo non stava bene, ci misero di mezzo lo stesso un crimine e cancellarono il centro del romanzo, ovvero l’epoca della Depressione. Del film del 1945 mi piacciono però alcuni aspetti, per esempio come Joan Crowford incornici l’immagine con le spalline delle sue giacche (ride). Se ho accettato di dirigere la miniserie è perché mi piaceva l’idea di esplorare il rapporto madre e figlia, seguendolo per un’intera decade. Se lavorerei ancora per la TV? Se avessi per le mani il materiale adatto, qualcosa che richieda una forma così lunga, sì, lo rifarei.

Todd Haynes racconta la lavorazione di Wonderstruck:

Ogni attore è unico, anche nel mondo professionale, quindi credo sia giusto trattare ogni attore come una nuova conoscenza, cercando di fare in modo che abbia tutto quello che serve per tirar fuori le loro specificità. Nel film di Dylan ho dato ad ogni attore un “pacchetto” di mixtape, foto e referenze varie per il loro Dylan, affinché avessero del materiale a cui ispirarsi. Quando giri su una persona vera non c’è niente di meglio dei materiali d’archivio, anche per ricreare il modo di parlare. Per esempio Christian Bale e Ben Whishaw tentarono di internalizzare la metrica del modo di parlare di Bob Dylan guardando e riguardando i filmati dell’epoca.
Quando lavoro con attori non professionale, certo di rispettare comunque la loro integrità e fare in modo che si sentano incoraggiati e capiti. E’ un grande cliché ma è vero: la riuscita del film sta tutta nel cast. Non è che c’è un solo attore che possa fare un dato ruolo, ma devi avvicinarti il più possibile all’ideale che hai in mente per ottenere un buon risultato. Avere un buon rapporto con il casting director per me è fondamentale. Ovvio, gli attori più importanti li inviti a un reading, non li fai passare per i casting.
La più grande sfida della mia carriera è stata quella di trovare un’attrice sordomuta per Wonderstruck. Avevamo limitazioni importanti di tempo e risorse per trovarla e Millicent Simmonds è stata un’incredibile colpo di fortuna. Ci siamo messi in contatto con le città statunitensi che hanno scuole per i sordomuti. Avevamo fatto mettere un volantino nelle bacheche delle scuole e gli insegnanti hanno incoraggiato i ragazzi a mandare un provino. Millie l’abbiamo trovata a Salt Lake City, Utah. Juliane Moore vide qualcosa in lei da subito, qualcosa che nemmeno la vera madre aveva visto. La videocamera riesce a catturare quella nuance unica, quel trattenere qualcosa agli occhi dello spettatore: Millie quel non so che ce l’ha. Porta lo spettatore completare le performance, ad aggiungere da sé ciò che lei trattiene: non so come faccia questa ragazzina dodicenne ad avere questo dono, ma non puoi toglierle gli occhi di dosso.