Quella che segue è la trascrizione pressoché integrale della lunga intervista che ho avuto la fortuna di fare a Olivier Assayas, raffinato regista francese, responsabile del rilancio delle ambizioni professionali di Kristen Stewart e presidente di giuria a Locarno 70. La versione snella ed editata è apparsa qualche giorno fa su MondoFOX. Per cinefili e curiosi del dietro le quinte del cinema contemporaneo, è davvero un post da leggere, ma anche un’ottima occasione per cogliere qualcosa di privato di una personalità complessa e intrigante come quella di Assayas. Buona lettura!
VA DA SÉ CHE TRASCRIVERE UTTA QUESTA SPATAFFIATA È STATA UNA BELLA FATICACCIA, PER CUI COPINCOLLATE COME E DOVE PIÙ VI PARE, MA LINKATE QUESTO POST COME FONTE, GRAZIE.
Cosa rappresenta per te il Festival di Locarno?
Vengo a Locarno da tempo e mi piace come esperienza, penso sia uno dei Festival più attenti ai giovani e con un certo interesse per la sperimentazione. Locarno è un luogo dove puoi farti un’idea del futuro del cinema, della direzione che sta prendendo.
Sei stato un giurato al Festival di Cannes, ora sei presidente di giuria qui a Locarno. Cosa è cambiato tra le due esperienze come membro di una giuria festivaliera?
Beh, quando ero a Cannes il presidente di giuria era Robert De Niro, qui quel ruolo lo ricopro io, quindi puoi ben capire la differenza (ride). A Cannes ci sono film diversi, che vertono su alcune problematiche specifiche. Inoltre il Festival di Cannes ha un’atmosfera più formale ma affascinante, a modo suo. Non ti capita però di vedere film sconosciuti, di registi al loro esordio assoluto o al lancio internazionale, come avviene a Locarno. Sono davvero esperienze molto diverse.
Una delle difficoltà di essere giurato qui è che i film presentati sono davvero eterogenei.
Sì, assolutamente. Penso sia molto difficile trovare un metodo giusto per valutare ogni film rispetto al gruppo selezionato per il concorso internazionale, dato che sono così diversi uno dall’altro. Locarno rappresenta bene i vari strati che compongono il cinema oggi. Ci sono persino film che sono contingui al mondo dell’arte e cinema sperimentale. Per quanto riguarda la produzione del film stesso, si varia dall’approccio classico a pellicole che definirei postmoderne.
Sei interessato al cinema sperimentale. Come pensi si rapporti al cinema moderno?
Spesso il cinema sperimentale è considerato un mondo a sè stante, mentre io credo sia assolutamente necessario per comprendere la storia del cinema stesso. Per me il cinema sperimentale è il reparto Ricerca e Sviluppo del fare cinema. Anche John Cassavetes era considerato sperimentale ai suoi tempi, perché ha reinventato il modo di raccontare una storia e di lavorare con gli attori, così come Jonas Mekas, che ha inventato una sorta di forma diaristica in prima persona che ha influenzato moltissimo il cinema successivo. Senza di lui non ci sarebbero stati Fassbinder e Almodovar. Per me parte del cinema considerato sperimentale è centrale nel concetto stesso di cinema.
Molti grandi registi di oggi – ad esempio David Lynch e Jane Champion – stanno lavorando sulla serialità televisiva. Pensi sia anche questa una forma di sperimentazione?
Sì, lo è. Per me però il cinema è quello che si vede su grande schermo. Mi interesso a ciò che passa in TV, perché no, però la mia esperienza di cinema è stare seduto in sala con altre persone a vedere un film, al buio. Non mi importa se in TV un film lo vedranno in milioni, il pubblico con cui voglio relazionarmi sono i duecento spettatori nel buio della sala. Penso a loro quando giro un film, mi sembrano un pubblico più interessato e partecipe.
I dibattiti nella giuria sono stati accesi?
Non particolarmente. La retorica vuole che ci siano tra i giurati queste discussioni di ore e ore, invece noi eravamo sostanzialmente d’accordo sui film da premiare, abbiamo solo dovuto decidere quale rilevanza dare a ciascuno e con che premio. Abbiamo visto i film insieme in sala e ogni due giorni ci siamo ritrovati a discuterne.
Qual è la differenza tra essere un membro della giuria e un critico cinematrogafico? Tu hai cominciato la carriera proprio in questa veste.
In verità non ricordo nemmeno più come sia, fare il critico (ride). In realtà i due ruoli hanno un punto d’incontro, ovvero la possibilità di avere un’esperienza “vergine” di visione di un film, senza saperne nulla, senza avere sentito cosa se ne dice in giro a riguardo. Qui a Locarno sono stato attento a preservare questa modalità di visione e non ho letto nulla di quanto scritto sui film in concorso.
Come presidente della giuria pensi di dover passare un messaggio con le tue decisioni?
No, credo che il compito di un presidente di giuria sia quello di essere l’adulto della situazione, di incanalare le diverse sensibilità dei colleghi in una soluzione comune. Un ruolo che odio, preferisco essere il ragazzo ribelle della situazione (ride). Sono una sorta di spettatore benevolo che tenta di mettere in risalto i contenuti migliori dei film in concorso…tranne quando non sono all’altezza, ovvio (ride)!
Hai cominciato la carriera come critico cinematografico, scrivendo degli articoli sugli effetti speciali. Nei tuoi ultimi due film, Sils Maria e Personal Shopper, sembri molto interessato alla tecnologia e hai già annunciato che il tuo prossimo lungometraggio d’intitolerà Ebook. Cosa ti affascina della tecnologia legata al mondo del cinema?
Quando scrissi quegli articoli, tra il 1980 e il 1985, il mondo del cinema venne scosso da due grandi eventi: la scoperta del cinema asiatico, completamente fuori dai radar internazionali fino ad allora, e l’introduzione di nuovi effetti speciali. All’epoca il caporedattore di Magazine mi chiese di scrivere qualcosa sul cinema di fantascienza perché ero interessato alla produzione statunitense. Io ci pensai su e gli risposi che l’argomento davvero importante erano gli effetti speciali e come stessero cambiando la stessa forma del cinema, il modo di girare i film. Questo avveniva nel cinema di genere perché si sforzava di rapprensentare i mondi immaginari, diversi da quello reale.
A un certo punto ero una sorta di esperto francese in materia, anche se non intrapresi mai quella carriera perché non ero davvero interessato alla tecnologia, ma a come cambiava il mondo e il cinema. Ho sempre amato la dimensione documentaria del cinema, come un film possa catturare il presente. Sfruttando questa capacità del cinema, voglio parlare della nostra contemporaneità concentrandomi su come internet e i social network stiano cambiando la nostra vita.
Sei stato spesso visto alle proiezioni della retrospettiva di Jacques Tourneur. Lo apprezzi come regista?
Lo amo come regista, anche se ha una filmografia altalenante. Non sono molto originale, i film di Tourneur che hanno avuto maggiore effetto su di me sono Cat People, I Walked with a zombie, Anne of the Indies.
Tra l’altro non amo definirmi cinefilo, perché mi influenza più la realtà che la frequentazione assidua della sala. A essere importanti per me sono i film del passato che influenzano il mio presente e mi colpiscono. Essendo cresciuto in campagna non ho avuto modo di andare spesso al cinema, per cui i classici li ho visti in TV e mi piace l’idea di “riempire i buchi”: le retrospettive sono ottime in questo senso, pur avendo io una buon conoscenza della storia del cinema. Locarno è stata una grande occasione per recuperare i film di Tourneur che non si trovano in homevideo.
Credo sia proprio questo il lato interessante del programmare il cartellone di un festival: organizzare la retrospettiva giusta al momento giusto, che faccia scoprire a una nuova generazione che si prepara a creare film artisti del passato che possano influenzare il loro presente. Per me negli anni ’80 ha svolto questo ruolo la riscoperta di Douglas Sirk, perché ho realizzato grazie ai suoi film che ero interessato il melodramma e che esisteva un modo per girarli in maniera interessante ed eccitante. Lo stesso è successo con Michael Powell, che ho scoperto nel periodo in cui facevo ricerche sugli effetti speciali.
Se tu dovessi organizzare una retrospettiva per un festival, che regista sceglieresti? Magari qualche nome del cinema asiatico, di cui ti sei molto interessato in passato?
Domanda interessante! Direi Chor Yuen, un regista di Hong Kong da tempo fuori dai radar dei cinefili, che ha incarnato la tradizione melò di quella terra con pellicole come Intimate Confessions of a Chinese Courtesan. Merita una retrospettiva, è un regista molto eccitante. Non sarebbe male vedere una retrospettiva delle pellicole migliori di Liu Chung-Liang o del filone delle ghost story del cinema di Hong Kong tra gli anni ’50 e gli anni ’60. In realtà di questo filone non ho visto molto, qualcosa su Hong Kong TV quando mi trovavo nella metropoli cinese negli anni ’80. Oppure una retrospettiva sul cinema taiwanese prima della sua new wave, perché la nostra conoscenza di quella cinematografia inizia sempre con Hou Hsiao-hsien, ma ci sono 20 anni di produzioni interessanti prima di quell’era, quando si era instaurata una tradizione di cinema seriale e pensato per un pubblico adulto. Senza dimenticare il cinema cinese vero e proprio, come quello di Xie Jin, il regista di Two Stage Sisters e Woman Basketball Player No. 5: viene spesso ignorato perché era il regista per antonomasia dell’epoca di Mao e per questo politicamente disprezzabile, ma ha fatto dei film interessanti.
Nei tuoi film spesso i personaggi hanno una doppia dimensione, una vera e una fittizia. Come scrivi personaggi che mescolano così bene aspetti simbolici e elementi reali, come per esempio i veri tatuaggi di Kristen Stewart visibili in Sils Maria?
Sono interessato simultaneamente alla finzione narrativa e alla realtà: penso che la prima sia uno strato di cui è composta la seconda, mi piace come la realtà fa capolino anche nella finzione.
Penso anche che la psicoanalisi sia una dimensione oggi trascurata al cinema, è una dimensione potente del fare film che permette di mettere in scena anche il subconscio. Questo processo nel mio cinema è quasi letterale, forse è per questo che molti miei personaggi sono in parte figure, maschere e in parte persone reali.
Questa esperienza a Locarno arriva dopo Sils Maria, un film in cui le alpi svizzere giovano un ruolo importante. Perché hai scelto questa nazione, che rapporto hai con la Svizzera?
Credo che il mio rapporto con la Svizzera sia un retaggio dell’infanzia, quando venivo qui in vacanza. C’è qualcosa di misterioso e rassicurante nei suoi paesaggi, così quieti e naturali.
Sils Maria è capitato per caso: mi sono unito a degli amici che facevano scalate qui in Svizzera. A un certo punto vidi queste nubi correre sulla cima delle montagne e non so, quell’immagine mi è rimasta dentro.
Pensi che sia possibile un progresso nel mondo del cinema, una creazione di qualcosa di nuovo, quando di fondo assistiamo a una continua rielaborazione degli stessi materiali e delle stesse idee?
Non penso che il cinema progredisca, penso che muti e cambi continuamente. È un’arte molto giovane e molto vecchia, rinnovata continuamente da una tecnologia che cambia davvero velocemente, alterando i confini di cosa si può fare e cosa no. Molto del lavoro di fare un film sta nel spingere il confine di ciò che si può fare un po’ più avanti.
Non usi da tempo musiche originali per la colonna sonora dei tuoi film, sembri preferire brani già esistenti. Come lavori alla scelta dei brani per i tuoi film?
I brani arrivano solo in sala di montaggio, inizialmente il film è completamente senza musica e poi pian piano trovo i pezzi; ognuno è un piccolo miracolo, spesso finisco per usare brani che mai avrei associato al film in fase di scrittura.
In passato ho provato a lavorare con dei compositori ma proprio non fa per me, mi sembra di essere ad adattare il film alla musica e non viceversa. È stata un’esperienza frustante per me.
Tuo fratello lavora nel mondo della musica, ti dà una mano?
No, sai come vanno le cose tra fratelli (ride). Io e mio fratello siamo cresciuti con lo stesso gruppo di artisti musicali, ma lui ha un’educazione musicale superiore alla mia e tende a preferire un repertorio più classico, io preferisco cose più sperimentali.
Trovo molto problematico come l’indie rock abbia contagiato ogni genere cinematografico, persino la più stupida delle commedie sentimentale ha qualche motivo indie rock che si sente nella scena dell’ascensore.
Durante il suo soggiorno a Locarno 70, dove ha ricevuto il premio d’onore, anche Todd Haynes ha citato Douglas Sirk come influenza. Avete quindi delle affinità come registi?
Amo molto il lavoro di Todd e non avevo mai avuto la possibilità d’incontrarlo prima d’ora. Noi abbiamo una formazione molto simile, siamo entrambi interessati alla sperimentazione e a un modo di fare cinema moderno. Abbiamo cenato insieme una sera e ci siamo trovati davvero in sintonia. Nei nostri lavori vogliamo catturare il glamour del melodramma hollywoodiano, è una cosa a cui teniamo molto, la dimensione di fascino che esecita un film.
Hai scritto per Roman Polanski l’adattamento di Based on a True Story: è stato difficile fare da sceneggiatore, senza avere pieno controllo del risultato finale?
Sì molto, perché amo il libro e in quanto regista è stato difficile adattarlo senza poter godere del pieno controllo sull’intera operazione. Per me per esempio il cast di Roman non ha senso girato in quel modo, perché io immagino le due protagoniste come una la proiezione dell’altra: quella realistica e vera, l’altra una sorta di proiezione nata da una fantasia. Le attrici scelte da Roman (Eva Green e Emmanuelle Seigner NdGardy) sono troppo diverse fisicamente e per età, io non le avrei svelte.
Avevo scritto un adattamento e poi l’ho riadattata per i bisogni di Roman e alla fine il film Based on a True Story è appunto, un film di Roman. Se l’avessi fatto io sarebbe stato più lento, più incentrato sugli scambi verbali… ovviamente è lo scrittore frustrato che parla, era parte dell’accordo iniziale no?
Cosa pensi dell’universo espanso Marvel e delle narrazioni che si allungano su più film?
Penso ci sia stata una degradazione nel livello di scrittura di film a Hollywood, che risalta ancora di più in film dal livello di sofisticazione tecnologica altissimo, così come per i costi. Il punto di partenza è che qualsiasi cosa successa più di 5 minuti fa è già stata dimenticata. Hanno budget assurdi e sceneggiature miserabili. Non sono nemmeno all’altezza dei fumetti stessi della Marvel, da cui io stesso sono stato molto affascinato per la loro complessità, che nei film non ho mai trovato. Mi sembra che cerchino di parlare con un pubblico molto giovane e quindi certe tematiche diventano off limits, come quella sessuale, invece molto nella dimensione cartacea.
Christopher Nolan è però un’eccezione: trovo sia molto bravo nel raccontare storie, ho apprezzato i suoi cinecomics.