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Armie Hammer, Gardy intervista, Luca Guadagnino, Michael Stuhlbarg, omoaffettività, Oscar 2018, Sufjan Stevens, Timothée Chalamet
Si è tenuto oggi al Cinemino di Milano l’incontro di Luca Guadagnino con il pubblico, moderato da Maurizio Porro. Il regista di Chiamami col tuo nome ha ripercorso la sua carriera e raccontato il dietro le quinte del film che lo porterà alla notte degli Oscar, con qualche accenno ai suoi progetti futuri.
Questa è la trascrizione pressoché integrale di quanto ha raccontato ai fortunati presenti in sala.
Maurizio Porro – MP
Pubblico – P
Luca Guadagnino – LC
MP – Che sensazione dà essere passato da una carriera prestigiosa ma sostanzialmente non riconosciuta in Italia ad essere amato e osannato nel tuo Paese?
LG – L’inizio della mia carriera cinematografica – dopo qualche produzione autarchica girata con i miei fondi e la fida super8 – è avvenuto dopo aver studiato a lungo cinema. Non tutti sanno che prima di diventare regista, ho insegnato per anni storia del cinema e ho anche fatto il critico cinematografico.
Una cosa di cui sono molto consapevole è che le carriere sono traiettorie nel tempo, hanno un andamento ondivago che trovo fisiologico, con tanti alti e bassi. Sono un po’ in imbarazzo perché non ritengo che quello che sta scucendo con Chiamami col tuo nome sia al di fuori della traiettoria della mia carriera. Lo dico senza arroganza. Chi sono io non è cambiato, non dopo questo successo, tantomeno il mio modo di fare cinema.
Il merito del successo di questo film è del suo pubblico, lo dico senza alcun tono di populismo, che adesso va tanto di moda.
Quando lo abbiamo presentato al Sundance in anteprima assoluta, il direttore della sala scoppiò in lacrime mentre lo presentava e la cosa ci fece una grande impressione. Alla fine della proiezione erano tutti in lacrime ed è stato lì che abbiamo capito che il film faceva scattare qualcosa nelle persone.
MP- A me il film sembra molto vicino al cinema italiano anni ’60.
LG – Per me questo film è soprattutto figlio del cinema di Maurice Pialat, deriva direttamente dai suoi film.
Da quando Chiamami col tuo nome è stato distribuito a livello internazionale, ricevo tantissime lettere al mio indirizzo di casa, lettere di carta, scritte a mano. In particolare mi ha colpito molto quella di un ragazzo indiano; nella sua missiva mi ha raccontato in 20 pagine scritte di suo pugno praticamente tutta la sua vita. Mi piace constatare di aver realizzato un film che sblocca un bisogno di comunicazione nelle persone.
MP – Raccontaci come sei arrivato alla regia di Chiamami col tuo nome.
LG – Nella mia esperienza i miei film sono sempre degli accadimenti eccezionali. Ero a Milano, era il 2008 e ne sentii parlare per la prima volta mentre ultimavo Io sono l’amore. Peter Spears, uni amico e il produttore che poi si è occupato anche di questo film, mi ha contattato perché si cominciava a lavorare a Chiamami col tuo nome. Inizialmente volevano farlo dirigere a un giovane regista e girarlo in Liguria, dove è ambientato il romanzo.
Mi chiesero aiuto in quanto regista e italiano, per individuare le location e la realizzazione. Inizialmente quindi ci lavoravo come produttore e, dopo che la prima sceneggiatura e il primo regista sono stati scartati, abbiamo vagliato vari nomi, chiesto a Thom Browne, Sam Taylor-Johnson, poi siamo passati agli italiani vagliando la disponibilità di Muccino e Ozpetek.
Io non ho mai avuto l’istinto di fare questo film, pur avendo letto il romanzo, che trovo molto proustiano. Durante gli anni in cui il progetto è rimasto in fase di stallo, mi hanno chiesto diverse volte di dirigerlo, ma io rifiutai sempre, non ero interessato.
A un certo punto abbiamo pensato di scrivere la sceneggiatura da capo e l’abbiamo chiamato James Ivory. Lui è venuto a casa mia, a Crema, e ci siamo messi al lavoro.
Sarebbe stato bellissimo farlo girare a James, ma sarebbe costato molto per le esigenze che aveva in quanto regista di un certo tipo e in quanto pluriottentenne. Sarebbe stato forse il suo ultimo film e sarebbe stato grandioso, ma sulla carta un progetto con quel costo non aveva mercato. Tutti continuavamo a chiedermi perché non lo facessi io e alla fine ho accettato, soprattutto perché se non l’avessi fatto sarebbe finito in nulla. Inoltre era da anni che volevo affrontare la sfida di dirigere due film in un anno solare e avevo già concluso le riprese di Suspiria.
MP – Sei stato spesso accusato di raccontare i sentimenti d’amore solo quando a provarli sono ricchi.
LG – Non credo sia così. Per esempio A Bigger Splash parla di persone che sono rock star, che stanno fuori dalla medietà e fuori dalla norma di ciò che li circonda, ma non perché essenzialmente danarose. Vivono dell’adorazione dei normali, nelle case lussuose dove li vediamo sono essenzialmente ospiti non paganti.
In Io sono l’amore invece il punto centrale non è tanto la famiglia, ma lei, una donna sovietica presa come trofeo vivente e messa in esposizione dopo il matrimonio. Alla protagonista non interessa e non appartiene quella ricchezza che la circonda.
Parlando di Chiamami col tuo nome, facendo le debite proporzioni con il presente, credo che i genitori di Elio (lei traduttrice, lui professore universitario) vivano con uno stipendio di 2, 3mila euro al mese. Certo, hanno ereditato una casa bellissima, ma immagino che probabilmente dovranno vendere a breve perché è troppo oneroso mantenerla. Secondo me sembrano ricchi perché in realtà hanno molto buon gusto: trovo sia una caratteristica spesso riscontrabile negli intellettuali, che è quello che penso che siano i genitori di Elio.
Nel libro si parla continuamente di queste tavolate culturali che si svolgono a casa dei genitori di Elio. A me questi cenacoli mi sembravano un’astrazione americana dello scrittore, non qualcosa di autentico. Mi piaceva che Annella avesse questi amici un po’ rumorosi, che parlano ad alta voce dei temi del momento, un po’ come faremmo noi.
MP – A proposito di accuse, sei stato spesso criticato perché usi poco gli attori italiani.
LG – Non è vero che non lavoro con gli italiani, è una bugia colossale: io lavoro con i grandi attori di teatro. Il problema è un altro. La varietà di attori italiani disponibile è davvero notevole, ma quelli con cui prediligo lavorare – essendo noti in ambito teatrale – spesso non vengono come parte dell’industria del cinema italiano.
P – Nel film si parla del compromesso storico, di Craxi e del pentapartito. Ritieni che sia un film politico o se ne stia fuori dal tempo?
LG – Abbiamo cercato di fare in modo che accadesse nel tempo della storia, è quasi più una questione di tessitura della trama. Io ho dato istruzioni di farlo esattamente come se fossimo nel 1983.
MP – Come hai scoperto Timothée Chalamet?
LG – Timothée mi è stato caldamente raccomandato dal suo agente, un grande del settore, che è anche un amico di Peter (il produttore del film). Dopo averlo incontrato ho capito subito che era perfetto per la parte di Elio, sia fisicamente sia per una certa innocenza che ancora esprime.
È un ragazzo, ma come attore lavora praticamente da sempre ed è molto preso sul serio in patria. Lui ha vocazione per la recitazione e fisicamente era perfetto per l’immagine del personaggio che volevo dare.
Io gli ho chiesto di venire a Crema un mese o due prima dell’inizio delle riprese: viveva dall’altra parte della strada dove abito. Gli ho affiancato delle persone locali, per capire davvero cosa significhi essere un adolescente che cresce lì.
MP – Non posso non chiederti degli Oscar.
LG – La notte degli Oscar in realtà è molto noiosa, lo dico perché l’ho già vissuta con Io sono l’Amore quando era candidato per i costumi. Dura 5 ore!
No, scherzo, è fantastica, è fantastico essere presenti, già la nomination è il traguardo, il riconoscimento che fa piacere.
MP ricorda di aver visto a casa Guadagnino un suo lavoro intitolato Cuoco contadino e sostiene che lui abbia una passione per la cucina.
LG – Proust, al cucina… mi hai dato ancora di più la patente di decadente! Quei progetti li ho tutti lì, mi mandate una mail vi mando il link per vederli. Cuoco contadino, il documentario su Bertolucci, il lavoro sulla scena musicale di Catania…
Molti non conoscono la mia filmografia per intero, tanti pensano che abbia fatto solo cinque lungometraggi mentre in realtà sono otto. In realtà sono contento che alcune cose che ho diretto siano finito nell’oblio e che forse, chissà, riemergeranno solo nel futuro.
MP – Parlaci anche di Suspiria. Perché proprio Suspiria poi?
LG – Da ragazzino, quando avevo 8 anni, avevo un’autentica ossessione per il cinema dell’orrore e ho conosciuto Argento come spettatore, vedendo Profondo Rosso in TV. Ringrazierò per sempre i miei genitori per avermelo fatto vedere.
Anche il poster di Suspiria con la testa mozzata e tutto quel sangue mi impressionò, anche se poi il film lo vidi a 14 anni: non sapevo cosa fosse un remake, ma da quando lo vidi sognavo di rifarlo, avevo l’istinto di voler tornare su quell’emozione che il film aveva prodotto in me. Sicuramente posso anticiparvi che Suspiria sarà il mio film più personale.
P- Suspiria sarà un vero film di genere o ne filtrerai l’atmosfera gore e splatter attraverso un filtro autoriale? Hai girato un horror per davvero?
LG – In quanto regista mi pongo nessun limite: quindi se faccio un film dell’orrore faccio un film dell’orrore in tutto e per tutto.
P – Che impressione ti ha fatto Michael Stuhlbarg?
LG – Michael è un attore straordinario. Innanzitutto è un’umanista con una capacità tecnica pazzesca; come interprete ha un grande spettro interpretativo e al contempo ascolta molto le vibrazioni del luogo dove si trova. Posso dire di aver conosciuto davvero Michael solo al termine delle riprese, perché lui s’immerge nel personaggio così tanto che sul set parlavo sempre col professor Pearlman.
P – C’è davvero materiale per un sequel?
LG – Certamente sì. Il libro continua per altre 40 pagine dopo la fine di quell’estate che ho raccontato in Chiamami col tuo nome, e sono passaggi densi di accadimenti. Si parla di un nuovo incontro tra i due, della morte del padre di Elio e di tante altre cose. Secondo me c’è materiale per un sequel. La mia motivazione principale però è che ho davvero voglia di tornare a passare del tempo con questi personaggi.
P – Come hai conosciuto Dakota Johnson e perché l’hai scelta per Suspiria?
LG – È successo mentre giravo A Bigger Splash. Avevo incontrato parecchie attrici per interpretare la protagonista. All’epoca il primo film di 50 Sfumature non era ancora uscito nelle sale, lo stavano ancora girando. Io ero in buoni rapporti con la regista, che mi parlò di questa ragazza con cui stava lavorando e me la raccomandò. Lei è venuta a incontrarmi a Crema e ho capito che era quella giusta.
MP – Grazie a te Crema è diventata crocevia del mondo! Frequenti davvero grandi star.
LG – I miei conoscenti presenti possono testimoniarlo, io ho tanti amici, di tutti i tipi. Ultimamente le cose sono un po’ cambiate. Sono andato a fare la spesa al mercato intanto che era ospite da me Isabella Rossellini, negli ultimi giorni: non l’avessi mai fatto!
MP – Come mai hai deciso di girare in Lombardia, nonostante il libro sia ambientato altrove?
LG – Non credevo al tema del mare per questo film, lo trovavo languido in una maniera stupida. James l’aveva scritto pensando alla Sicilia, ma ci avevo già fatto A Bigger Splash, che avevo appena ultimato. Avevo voglia di cambiare.
La campagna lombarda ha una grande traduzione cinematografica in Italia (pensate a Bertolucci) e inoltre potevo tornare la sera a dormire nel mio letto, il che non è scontato. Alla mia età non mi piace fare tardi la sera, per cui apprezzavo molto questa contiguità.
MP – Hai mai pensato di girarlo in bianco e nero?
LG – Il bianco e nero contemporaneo il più delle volte lo trovo assolutamente pretestuoso, quindi proprio no. Tra i film in bianco e nero moderni, forse si salva giusto Il cavallo di Torino.
P – Il film mi ha dato un grande senso di concretezza, una grande sensorialità. Era un’impressione che volevate suscitare?
LG – E’ molto difficile spiegare come si fa un film, ma tendenzialmente nulla nella sua lavorazione è mai casuale, quindi se hai avuto quel tipo di esperienza probabilmente è stato perché abbiamo cercato quel risultato.
P – Anchise e Mafalda incarnano un po’ l’anima contadina dei luoghi. Cosa significano per te questi personaggi?
LG – Era interessante per me cercare di visualizzare lo spirito del luogo, che è ovviamente contadino, cercando di evitare le forme e il linguaggio del pittoresco. Bernardo Bertolucci in questo senso per me è stato un’ispirazione fortissima. Tutte queste figure sono cremasche, non ci sono attori professionisti a interpretarle, proprio per garantirne l’autenticità.
P – Come hai hai scelto Sayombhu Mukdeeprom, un direttore della fotografia thailandese, per fotografare il cremasco?
LG- Lui ha fatto la fotografia di alcuni grandi film. quando Ferdinando Cito Filomarino (il compagno di Luca Guadagnino NdGardy) ha diretto Antonia (film del 2015 su Antonia Pozzi NdGardy), gli chiesi chi voleva come fotografo e mi diede il suo nome e io dissi che valeva la pena fare un tentativo e provare a contattarlo. Dal set di Antonia ho scoperto il suo talento e mi è venuto naturale volerlo al mio fianco sia per Chiamami col tuo nome sia per Suspiria.
MP – Quanti ciak fai in media per ogni scena?
LG – Quattro o cinque, in genere. La volta in cui ne feci di più fu con Flavio Parenti in una scena di Io sono l’amore. Come regista credo che l’atto di dirigere un attore è maieutica, non dici “fai così” all’interprete. Lì commisi l’errore di chiedergli perché non la facesse come dicevo io alla quarantesima ripresa e non alla quarta o quinta. Lui mi disse, serafico: “capisco cosa vuoi, ma non la penso così”. Alla fine credo non l’abbia spuntata nessuno dei due, perché la scena non è proprio finita nel film (ride). Sul set di Chiamami col tuo nome è invece è stato tutto molto fluido, ogni scena ci è riuscita incredibilmente facile.
A commento di una citazione di Oscar Wilde
LG – È facile tollerare una persona, il difficile è accettare l’altro nella sua oscenità: io la penso così.
P – Pensi sia davvero verosimile la figura del padre di Elio, con il suo famoso monologo?
LG – Penso che Pearlman sia un padre come un altro. Non credo che la sua posizione appartenga necessariamente alla modernità o che sia per forza progressista.
Anzi, trovo che negli ultimi 15 anni ci sia stato un preoccupante ritorno del conservatorismo brutale e sconcertante del passato, che investe generazioni che non riescono a sognare un’utopia.
Penso che il punto di questo personaggio – che nel libro è ispirato al padre dell’autore e quindi a un uomo vissuto negli anni ’60 – sia che abbia la capacità di ascoltare. Annella e lui ascoltano con grande apertura e compassione le persone intorno a loro, fino ad assorbirne il punto di vista e le emozioni, ancor prima di giudicarle.
Nei giorni scorsi a questo proposito Cazzullo ha detto una cosa che reputo raggelante: secondo lui “si tratta di un padre di quelli che vedi al cinema, noi padri veri non siamo così”. Parli per sé.
P – Nei giorni passati si è sentito parlare del significato del monologo del padre di Elio dappertutto e ognuno ha una sua interpretazione specifica del suo significato e della sua valenza. Come vivi questa responsabilità di autore che regala un terreno di discussione?
LG – Quando finisci un film diventa del pubblico, non ti appartiene più. In quanto regista mi piace molto ascoltare le persone che parlano del film, che spiegano come lo hanno interpretato. Mi imbarazzo molto di più quando fanno i complimenti, non mi viene in mente altro da dire a parte grazie.
MP – C’è una qualche differenza tra le reazioni del pubblico statunitense e quella del pubblico italiano?
Il pubblico americano è così abituato a fruire il cinema…la sua capacità di analisi è così raffinata che trovo sia insultante pensare che abbocchino al “marketing dell’ufficio turismo”, come qualcuno ha insinuato nelle scorse settimane.
Certo, immagino che alla fine la villa del film (messa in vendita in questi giorni per 1,7 milioni di euro) finirà nelle mani di qualche texano che del film non ha compreso nulla. Si sa, da quelle parti c’è chi può permettersi un acquisto simile.
MP – A proposito della villa, nel film la vediamo come è nella realtà?
LG – Non esattamente, della villa abbiamo rimaneggiato molto gli interni prima di cominciare a girare.
P – Elio è energico, percorso da continue pulsioni… somiglia un po’ ai protagonisti del tuo Mundo Civilizado, no?
Quel film l’ho realizzato nel 2003, seguendo a Catania una delle scene musicali più attive dell’epoca in Italia. Per me è stato molto destabilizzante, anche se interessante, perché giravamo costantemente di notte e io sono abituato ad andare a letto presto. Elio potrebbe essere un amico dei quattro protagonisti di quel lungometraggio, sì.
In generale devo dire che mi piace stare in mezzo alla gente, parlare con gli altri, percepire le loro esperienze.
P -Cosa ne pensi del doppiaggio italiano e del presunto appiattimento linguistico?
In originale Elio e la sua famiglia parlano spesso in francese oltre che in italiano e in inglese
LG – Non ho potuto seguire io direttamente le fasi di doppiaggio, quindi è stato Walter Fasano (che ha curato il montaggio anche sonoro del film ed è noto collaboratore di Argento, Ozpetek e Guadagnino NdGardy) a supervisionare il doppiaggio.
La distribuzione italiana è stata curata da Warner Bros e devo dire che sono davvero soddisfatto di come hanno lavorato. Sono stati molto intelligenti e aperti rispetto alle mie richieste: hanno accettato di distribuire più copie del normale in lingua originale e il riscontro è stato ottimo in termini economici. Comunque sì, mi piace molto anche la versione italiana.
P – Cosa ci puoi dire delle musiche e del coinvolgimento di Sufjan Stevens?
Mentre lavoravo alle prime fasi del film, ho ascoltato tantissimo Futile Device di Stevens. La sentivo anche nei primi giorni di riprese. L’ho contattato perché mi piaceva questo anacronismo, le sue musiche inserite in questo film ambientato nel 1983 creavano una sorta di terza voce nel lungometraggio stesso.
Gli chiesi di comporre una canzone gli chiesi di riarrangiare per pianoforte la stessa Futile Device. Poco tempo dopo mi ha mandato due canzoni inedite scritte appositamente per il film. Eravamo sul set da due giorni e al primo ascolto ci hanno subito colpito molto; secondo me sono perfette per il film.
MP – Quali progetti hai per il futuro?
LG – Per me è difficile rispondere a questa domanda perché ho molte passioni e curiosità che mi influenzano nella scelta dei miei progetti. Forse ancora per un po’ mi piacerebbe lavorare con gli attori hollywoodiani, mi piace come si comportano sul set. Se hanno fiducia in te danno davvero tantissimo, non ragionano mai con soggettività ma con grande spirito collettivo. Se aderiscono a un progetto in cui credono, lo fanno con grande devozione. Per me è la realizzazione del senso più nobile del cinema, almeno in senso hollywoodiano.
MP – Hai dichiarato che non ti dispiacerebbe girare un film tipo blockbuster Marvel.
Io faccio il regist, quello è il mio mestiere. Perciò confermo e confesso.
P – Cosa ci puoi dire della scena con il flickering della pellicola, simile a quella de L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese?
Quando vidi L’ultima tentazione di Cristo, rimasi davvero impressionato dal flickering della pellicola come mezzo per raccontare la trascendenza di Gesù. Ho sempre ambito a fare qualcosa di simile, ma in realtà è successo quasi per caso.
Mentre stavamo montando, ci ha chiamato il laboratorio per annunciarci che quella scena andava rifatta, la pellicola si era danneggiata. Ci siamo ritrovati una splendida sequenza sui toni del blu e in qualche modo raccontava la trascendenza del loro amore, perciò ho preso l’occasione al volo.
P – Cosa pensi della diatriba tra pellicola e digitale? Registi come David Fincher sono grandi fautori di quest’ultimo.
LG- Reputo Fincher un maestro e un regista molto interessante, ma dissento totalmente dal suo punto di vista du questa questione.
Il problema del digitale è che diventa proprio un altro tipo di cinema, è una forma di controllo assoluto – esattamente come gira Fincher – che risulta in un film che non respira. Un colpo di sfortuna come quello di cui vi dicevo che permette di creare qualcosa di artistico in quel tipo di cinema non avverrà mai.
Inoltre è possibile girare ad altissimi livelli, ma solo per chi ha ingenti budget alle spalle. Quando hai grandi mezzi puoi pitturare come vuoi, sistemando la fotografia letteralmente fotogramma per fotogramma, ma ovviamente con costi altissimi.
Per la fotografia di un film come Gone Girl parliamo di una postproduzione da milioni di dollari, lunghissima. Lì il lavoro sull’immagine in presa diretta è minimo, si sistema tutto dopo. Noi facciamo tutto durante le riprese, con esiti spesso inaspettati, ma che il digitale non avrà mai.
Inoltre per mia esperienza personale nessuno mi potrà mai convincere che la pellicola costì di più che il digitale. È impossibile. Quando da produttore ho realizzato Antonia con Ferdinando, abbiamo girato tutto in pellicola 16mm e il risultato finale non superava il milione e 300mila euro. Chiamami col tuo nome l’ho girato in 35 mm ed è costato meno di 2 milioni di dollari. Per questo motivo, il premio che mi rende più orgoglioso ricevere è quello che mi darà Kodak in persona, tra qualche giorno a LA.