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Pur avendo già visto parecchie delle uscite di questa ricca settimana, non ho dubbi su quale sia la pellicola con cui aprire questa tornata di recensioni del fine settimana.
Il nuovo film di Sean Baker che approda finalmente nei nostri cinema dopo un anno festivaliero vissuto intensamente è una spanna superiore al resto della concorrenza per qualità, forte del suo status di principale snobbato agli Oscar 2018.
Dopo l’acclamazione seguita al passaggio in Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 70, la mancata nomination di Un sogno chiamato Florida ha fatto particolarmente male a una pellicola non solo tra quelle che più lasciano il segno dell’annata, ma anche la migliore del gruppo di quante avrebbero beneficiato della mezza verità e mezza scaramanzia che a contare davvero sia esserci e non vincere.

Per fare l’esempio di casa nostra, presentarsi sotto l’egida degli Oscar avrebbe di certo attratto l’attenzione di quel pubblico mediamente cinefilo che, tra il distratto e l’automatismo disciplinato, garantisce anche ai titoli più autorialmente improponibili un certo tipo d’incasso, a fronte della vincita di un premio (festivaliero e non) di peso. Sean Baker non è certo uno sconosciuto in ambito cinefilo, soprattutto dalla svolta della sua carriera con Tangerine – film che non a caso da noi è apparso a malapena al Torino Film Festival – ma non ha ancora in filmografia il titolo capace di sdoganarlo di fronte al pubblico che al cinema ci va con regolarità, anche quando da tempo di cinefili più impazienti considerano il passaggio in sala oltre la soglia massima di sopportazione.

Questo ruolo avrebbe potuto ricoprirlo The Florida Project, che sulla carta (e in altri ambiti) il salto di qualità glielo ha fatto fare, pur continuando a presentare tutti gli elementi da cinematografia di frontiera e d’ingegno con cui è abituato a muoversi. Con l’eccezione di Willem Dafoe (lui sì nominato a un Oscar), il film vive dei volti e dei corpi di assoluti esordienti e non professionisti, per non parlare delle riprese fatte di straforo e senza permesso a Disneyland, con uno smartphone e la troupe ridotta al minimo e in incognito.

The Florida Project è infatti il nome da progetto top secret che Disney aveva dato al megaimpero del divertimento sorto a Orlando. Il film coscritto e diretto da Baker si svolge interamente alle porte e ai margini del sogno di benessere e d’intrattenimento statunitense, in una serie di coloratissimi e stucchevoli hotel pensati per accogliere i turisti. A viverci e in pianta stabile sono invece gli statunitensi sull’orlo dell’indigenza, che una casa non riescono a permettersela ma riescono a non stare per strada pagando l’affitto in questi complessi.

L’espediente usato da Baker per non affogare nella drammaticità di questo presupposto non è certo nuovo: la vita in questi hotel per quasi senza tetto è interamente raccontata attraverso gli occhi dei bambini che crescono e giocano qui. Di fatto The Florida Project è il racconto avventuroso e fantasioso della drammatica discesa di una giovane ragazza madre verso il confine più estremo e degradante della povertà, visto però attraverso gli occhi della figlioletta, che non può che vivere anche le svolte più drammatiche della storia come un’avventura, una nuova caccia al tesoro.

Il film intesse con ricercata sottigliezza una doppia trama, non immediatamente evidente allo spettatore. Da una parte c’è il sogno in grande di Disneyland e dall’altra c’è la piccola Moonee – 6 anni – che sembra ricreare inconsapevolmente le attrazioni più note del parco di divertimenti così vicino e così fuori dalla sua portata, esplorando con i suoi amici dimore abbandonate, prati, buffe rivendite dalle architetture folli che punteggiano il circondario.
A colpire nel segno è soprattutto la familiarità e la dimestichezza con cui Moonee affronta ora le sue avventure da bambina, ora i momenti di più manifesta povertà e degrado, scene che mettono impietosamente in luce quanto ricevere il cibo dalla Chiesa locale o da amici compassionevoli rientri per lei una dimensione assolutamente quotidiana e normalizzata.

La madre i Moonee è una giovanissima donna di nome Halley, apparentemente indisciplinata, polemica, eccessiva e poco portata a ricoprire il ruolo di genitore. Sotto la sua scorza da donna tatuata e sexy, non ci vuole poi molto a scorgere una Moonee poco più matura, investita (quando non proprio travolta) dalla necessità di essere la responsabile del gruppo familiare, anche se completamente sprovvista non solo della maturità, ma anche dei presupposti più basilari per sperare di poter fare qualsiasi gesto oltre la mera sopravvivenza.

Poco più in là c’è chi se la cava (per ora) gestendo lo stesso stabile come tuttofare, responsabile e amministratore di condominio: l’operoso Willem Defoe è l’unico adulto ad avere un ruolo vero e proprio nel film in cui i grandi sono solo uno sfondo parziale, un chiacchiericcio di sottofondo alle avventure di Moonee e alle piccole truffe di Halley per riuscire a pagare la stanza/casa in cui vive. Il personaggio di Defoe è complesso, perché pur partecipe delle storie dei suoi affittuari, è strenuamente impegnato a far funzionare il lavoro che lo distingue dalle persone a cui affitta camere e da cui s’intuisce basti un rovescio di fortuna per azzerare la distanza.

Girato in pellicola 35mm, The Florida Project descrive questo mondo di mezzo anche attraverso la sua impressionante resa cromatica. Solo il supporto fotografico poteva garantire la resa vividissima e sognante delle scenografie pastello attraverso cui si muovono i personaggi, con hotel interamente dipinti di sfumature zuccherose simili a quelle dei coloranti per dolci.
Lo spettro pastello e arcobaleno che caratterizza il film esalta quando necessario anche la sensazione di esistenze posticce, di madornale contraddizione che si respira in queste case non case. Come possono questa persone vivere accampate o poco più tra le mura di una ex camera d’hotel, come possono lottare per la loro sopravvivenza immersi in una realtà specchio del benessere di chi l’ha concepita, in cui il loro squallore è uniformemente tinteggiato a tonalità vivaci e falsamente rassicuranti?

La vera forza di un film come questo – oltre alla scrittura di azioni e non reazioni al nucleo di esperienze che si vogliono far vivere allo spettatore, senza per forza spiegarle – è come lasci che siano i giochi infantili di Moonee a rivelare a poco a poco la sua drammatica esistenza, senza mai cedere spazio alla pesantezza di toni, anzi, strappando spesso un cenno d’assenso. Quella di Moonee rimane il giocoso vivere di una birbante sempre pronta a combinar marachelle e godersi la libertà estiva, a cui il film regala una chiusa nonostante tutto speranzosa, dal guizzo cinematografico che si lascia ricordare. Con o senza nomination.