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anni '80, Ben Mendelsohn, fantascienza, Lena Waithe, Mark Rylance, maschio caucasico over 30 dalla genialità incompresa, nessuno mi capisce, Olivia Cooke, Philip Zhao, Simon Pegg, Steven Spielberg, T.J. Miller, Tye Sheridan, videogiochi
…e poi arriva Steven Spielberg, che all’età di 71 anni ancora ancora è costretto a mettere le pezze ai limiti del lavoro altrui, tra l’altro derivativo dalla propria carriera.
È un processo di maturazione davvero invidiabile quello del regista statunitense. Da una parte rifiuta il ruolo dell’eterno giovane che ripete a pappagallo schemi e temi che gli hanno donato la celebrità 40 anni fa. Dall’altra però è un processo di maturazione e non d’invecchiamento, perché lungi dal ripiegarsi su sé stesso o dal perdere progressivamente contatto con la realtà contemporanea, Spielberg rimane un acuto e irriverente osservatore del mondo che gli si evolve attorno, dentro e fuori la sala cinematografica.
Un regista di questo calibro, dopo un paio di prove serie e importanti, avrebbe meritato un ritorno alla leggerezza e all’avventurosa commerciabilità meno impegnativo di Ready Player One. Con impegnativo non mi riferisco al versante tecnico, comunque tutt’altro che banale da considerare. Stiamo pur sempre parlando di un film in cui gli attori in carne ed ossa cedono il posto per lunghi tratti ai loro avatar, in una dimensione virtuale sì, ma che dovrebbe risultare realistica quanto la realtà. Un film come Ready Player One solo dieci anni fa sarebbe stato impensabile con questo livello di mimesi: nel 2018 invece, pur non avendo ancora raggiunto un fluire ininterrotto e senza attriti tra reale e virtuale, propone passaggi equilibrati e morbidi, che non pesano mai sulla visione complessiva del film.
Anzi, l’aspetto più riuscito e stupefacente di una pellicola che si spinge abbondantemente oltre la seconda ora, è la leggerezza con cui scorre via a velocità sempre sostenuta: pare appena passato il tempo di accomodarsi in sala che il film è finito, divertendo e appassionando il giusto per il target commerciale e avventuroso a cui si vorrebbe rivolgere. Qui è difficile non vedere la mano di Spielberg, che guida un manipolo di giovani interpreti abbastanza incolori e un Mark Rylance sempre incisivo per una narrazione tutto sommato semplice, ma attiva e ritmata al punto giusto, per non scadere quasi mani nel semplicistico. Nella sua veste giocosa e commerciale Spielberg è persino più ironico e incisivo di quella rigorosa e politica, dove spesso si lascia andare a lezioncine tediose e costrutti sin troppo tradizionali per retorica.
Alla luce di queste considerazioni e date le premesse problematiche del materiale di partenza, Ready Player One risulta un film ben più gradevole di quanto fosse lecito aspettarsi. Il merito va per una volta alla sensibilità di uno studios e di un team di sceneggiatori (tra cui figura anche Cline) che hanno compreso al volo l’assoluta necessità di aggiornare un materiale relativamente recente ma tragicamente ancorato a un modello ormai vetusto.
Così ecco che il protagonista Wade lascia una bella fetta di agency ad Art3mis, la ragazza del suo cuore legittimata ben oltre il ruolo di love interest all’interno del film, senza dimenticare come venga anticipato e disinnescato il “colpo di scena” più scricchiolante dell’intera storia.
Certo bisogna superare un blocco introduttivo che nemmeno ci prova ad ovviare gli spiegoni di rito, ma appena la gara all’Easter Egg di Oasis ha inizio, il film non smette di correre e funzionare. Anzi, la riscrittura completa delle tre prove che devono superare i concorrenti per vincere la corsa all’eredità del geniale inventore della realtà virtuale che ha salvato il mondo non ovvia solo ai comprensibili problemi di diritti e alla staticità di certi passaggi del libro (battersi agli Arcade delle sale giochi, recitare a memoria sceneggiature di film cult degli anni ’80), ma sfuma ancor di più i contorni perfettamente sovrapponibili del protagonista Wade al protagonista tipo del Gamersgate.
Ready Player One rischia persino di scontentare questo profilo di spettatori, a favore di tutti gli altri, quelli che il romanzo originale nemmeno contemplava. Il merito va a Spielberg, che affronta un’operazione di assoluta retronostalgia con un approccio ironico e irriverente, che chiarisce lapidariamente come a lui tutto sommato quell’epoca non manchi per nulla.
Il risultato finale anzi soffre un po’ dell’approccio puramente razionale e abbastanza calcolatore di un regista che davvero non ha trasporto emotivo o coinvolgimento personale nell’operazione che sta svolgendo: è questa la distanza contenuta ma incolmabile che impedisce a Ready Player One ad essere più di un semplice buon film, avvicinando i suoi cult dell’epoca.
Questo discorso ha però un’importante eccezione, la citatissima seconda prova della gara di Halliday. Senza spoilerare uno dei passaggi più sorprendenti del film, Spielberg sembra quasi voler mostrare a Cline come si tributa un omaggio a un prodotto culturale di riconosciuta e personale importanza. Tanta è la dimensione reverenziale che suscita il soggetto scelto, tanto è dissacrante l’approccio dell’iconoclasta Spielberg, che davvero non si fa remore a giocare e smantellare un pinnacolo della storia del cinema. In quel segmento Spielberg è eccitato e partecipe, regalando uno spezzone superbo di cinema in un film che si muove per il resto di tempo in territori molto meno ambiziosi.
Un discorso similare si può fare per la chiusa del personaggio di Halliday, che accenna a una possibilità inedita rispetto al romanzo, la cui ambiguità vive tutta nell’intensità e nella tristezza dello sguardo di Rylance. Halliday è morto, eppure in qualche modo sopravvive come avatar in OASIS, in una forma diversa rispetto a quella che in vita lo ha portato a gettare al vento tutto ciò che di buono aveva.
Alla luce di questo, siamo davvero sicuri che quell’ombra che ha lanciato la gara sia solo una reminiscenza e non una nuova coscienza, un’entità derivata da Halliday ma mossa da un’intelligenza artificiale tale da diventare qualcosa di differente e capace di muoversi in autonomia?