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La fortuna vive in città è quel genere di battuta memorabile con cui uno sceneggiatore di razza farcisce un film, specie se decide di farlo diventare il suo esordio in veste di regista. Sui lungometraggi che raccontano il cuore nudo e cupo degli Stati Uniti Taylor Sheridan non ha certo bisogno di lezioni, avendo scritto negli ultimi anni esempi strepitosi di analisi cinematografiche della violenza istituzionalizzata alla base degli Stati Uniti d’america, da Sicario (di cui ha appena firmata anche la sceneggiatura per il sequel) a Hell or High Water.
Lo scontro tra natura selvaggia (il confine spaccato dal sole con il Messico, gli spazi immensi texani e qui le montagne impervie del Wyoming) e violenza degli abitanti rivolta contro altri essere umani sembra essere il conflitto che genera la sua stessa scrittura. Un conflitto che ha a sua volta radici profonde e attuali, che generano discriminazione e disuguaglianza, che nutrono l’attuale società statunitense.
Il Wyoming è una delle patrie del western e una delle incarnazioni cinematografiche e geografiche del concetto di frontiera. Wind River è però la stortura che il mito fondativo americano tende ad omettere; una riserva dove ai nativi privati di tutto è stata lasciata solo la neve. Razziati dei bisonti allora e dei giacimenti oggi, i nativi vivono confinati in un territorio inospitale a voler essere gentili, un microcosmo in cui un popolo privato della memoria storica scende anche con una serie di storture legislative che ne plasmano l’avvenire senza speranza.

Queste considerazioni sono alla base del film, che in particolare si concentra su un dato statistico mancante e sconvolgente, che costituisce al contempo l’ispirazione prigenia e la meta finale del racconto. Questo dettaglio è una scheggia di realtà infilata nella carne viva di un film poliziesco con tanto di cadavere femminile abusato e omicida da catturare, una cornice chiaramente fittizia attraverso cui palpare il gonfiore e l’infezione causata da un certo modo di assicurarsi che i vinti dalla Storia rimangano tali.
A capitanare le indagini per scoprire cosa sia successo è una coppia bizzarra, tanto che se fossimo in uno di quei film che racconta l’America violenta attraverso un ironia paradossale o macabra, sarebbe questo lo spunto più brillante del film.

Invece Sheridan spinge gli unici caucasici coinvolti nelle indagini a formare una coppia investigativa sui generis, ma mantiene un tono completamente scevro di ironia, ora quietamente cupo, ora persino malinconico.
A investigare sulla morte della ragazza arriverà Elizabeth Olsen, un’agente del FBI che si configura da subito come la prova vivente di quanto interessino ai piani le storiacce della riserva: è bionda, giovanissima, giunta direttamente sul posto senza nemmeno i vestiti ad atti a raggiungere la scena del crimine senza congelare.

La sua attitudine e la sua inesperienza la faranno presto scontrare con un clima assolutamente inospitale, non solo dal punto di vista meteorologico. Si rivolgerà così all’intuito dell’altro caucasico del film, interpretato da Jeremy Renner, un cacciatore di fiere selvatiche che tradurrà per lei sia i segni lasciati dai corpi sulla neve, sia i comportamenti dei nativi colpiti dalla morte della ragazza.
A livello di scrittura e genere, Wind River è il punto mediano tra Sicario e Hell or High Water: con il primo condivide un’analisi silenziosa e graduale delle marcescenze su cui si basa l’intero sistema statunitense, con il secondo un’impennata finale che mette in esecuzione tutta la violenza minacciata a paventata nelle fasi precedenti del film.

Pur senza impressionare, la regia di Sheridan è curata nella resa estetica finale e capace di catturare sia la bellezza crudele della natura selvaggia sia la desolazione morale e spirituale di chi vive a Wind River. È paradossale che alla fine a ridimensionare la riuscita del film non sia tanto l’elemento registico – con cui Sheridan da esordiente è giocoforza alle prime armi – quanto il suo cavallo di battaglia, la sceneggiatura.
Più il film scorre più il tono inquieto ma pacato della storia (la sua vera forza espressiva) viene bruscamente interrotto da passaggi dialogati o monologhi incentrati sui Grandi Temi e le Grandi Domande. Sheridan sicuramente sa scrivere anche scambi tra protagonisti di un certo spessore, ma qui si sforza davvero troppo, in un film che altrove fa del suo lavorare sotto traccia e abbassando i toni la sua forza.

Certo non aiutano le scelte di casting tra l’inconsueto e il paradossale, che rendono ancor più bizzarra la coppia d’investigatori protagonisti. Jeremy Renner in versione ranger naturalizzato tra gli indiani il suo dovere lo fa, ma davvero è sprovvisto delle levatura recitativa e del carisma necessari per uscire indenni dai dialoghi e dai monologhi sin troppo intensi di cui si diceva prima.

Considerando che il ruolo chiave del personaggio disilluso e dolorosamente consapevole di come vada il Mondo nei precedenti lungometraggi scritti da Sheridan è stato interpretato da Jeff Bridges e Benicio del Toro, è evidente come la scelta di Wind River sia fallimentare, forse dettata da un’eccessiva prudenza, sicuramente a corto d’ispirazione. Sembra quasi che Sheridan sia piombato sul set di un film Marvel, portando via i primi due attori di seconda fascia che gli sono capitati per le mani, fregandosene dei rapporti da istituti.

Così allo spettatore rimane un semplice poliziesco di media fattura – che come genere continua a rivelarsi il rifugio e punto di partenza ideale per chi è al primo film – e il rimpianto di come avrebbe potuto essere il film con un attore capace di prenderselo sulle spalle nella sua interezza, di mettere una pezza con il proprio carisma agli sproloqui della sceneggiatura, magari riuscendo persino a farli funzionare.