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Ogni uomo corre verso la propria distruzione e il passo tenuto dall’autore per antonomasia di aforismi e argute massime Oscar Wilde era più che spedito.
The Happy Prince è il film biografico sugli ultimi mesi di vita dello scrittore e commediografo che Rupert Everett ha realizzato davanti e dietro la cinepresa, regalandosi la sua prima pellicola da regista pur di ottenere un ruolo di quelli che impreziosiscono una carriera, se azzeccati.
Come il regista sa comunque il fatto suo l’attore inglese, ma come interprete porta a casa con consumata eleganza un ruolo che in realtà poi così facile non è, dovendo giostrarsi con un mito enorme ma il cui carattere spesso scivola nell’eccesso melodrammatico e macchiettistico. Un’ottima interpretazione non basta però a costruire un grande film.

Circondato dal solito codazzo di valenti attori inglesi che un anglosassone chiama attorno a sé in occasioni del genere (Colin Firth, Emily Watson ma anche un Colin Morgan molto cresciuto dai tempi di Merlin), Rupert Everett riesce a restituire un ritratto paradigmatico e schietto degli ultimi, amarissimi mesi della vita del poeta e commediografo. Dopo la detenzione e i lavori forzati (evocati come spettri, più che mostrati chiaramente) Wilde si trasforma in un esule di lusso, dividendosi tra i decadenti boulevard francesi e la perdizione dei vicoli e delle ville del golfo di Napoli.

Siamo oltre il ritratto dell’omosessuale bistrattato che dal de profundis carcerario riemerge penitente e credente. La scintilla divina c’è, la stella che guida il poeta è sempre quella del piacere e desiderio. L‘esperienza della gogna non lo ha reso capace di resistere a una tentazione, bensì solo più consapevole di quanto nel cedervi abbia perso e quanto continuerà a perdere, anche adesso che non ha più nulla e a fargli compagnia sono pochi amici fidati, i rimpianti da esule e i debiti montanti.

L’elemento che più colpisce The Happy Prince – una produzione per larga parte italiana, in cui il nostro coinvolgimento va ben oltre le location e gli autori campani – è la fotografia. John Conroy riesce infatti a restituire al raffinato esteta un film che nel catturare gli squarci di luce napoletana, gli sbuffi di vapore nelle stazioni e i localini fumosi francesi in cui si serve assenzio sembra essere esso stesso un paradigma di bellezza elegante e compiaciuta di esserlo.

Dopo aver catturato le penombre mostruose di Penny Dreadful e dopo il grande aiuto apportato alla regia e resa tecnica di The Happy Prince, fa davvero piacere saperlo al timone dell’imminente serie TV coprodotta da Rai de Il Nome della Rosa.

Né le raffinate performance attoriali né un comparto tecnico sorprendente date le premesse possono però elevare il biopic The Happy Prince dal territorio didascalico di pregio in cui si va a ficcare consapevolmente.
Il problema non è nemmeno quello di prendere la vicenda eccezionale di un mito vivente finito alla gogna per rappresentare i tantissimi omosessuali finiti in carcere per i loro crimini e riabilitati dalle accuse infamanti cancellate solo nel 2017 dalla Corona.

No, il passo falso che impoverisce il film è quello di negare la stessa complessità contraddittoria di cui gode il protagonista al suo codazzo di famigliari, amici e amanti, sommariamente e rigidamente divisi tra buoni e cattivi, destinati alla gloria iperitura o al dimenticatoio. Così facendo The Happy Prince finisce per sbilanciarsi, somigliando un po’ troppo a quei ritratti biografici esaltati che nel celebrare il genio si dimenticano l’uomo o – come nel caso specifico – la dignità degli altri essere umani che lo circondano.