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allegria euforia e sesso sesso sesso, è così francese!, Cannes 2017, François Ozon, ho un desiderio di maternità, Ho visto la gente nuda, Jacqueline Bisset, Jérémie Renier, Marine Vacth, Psicologia e Psicosi, sexy sexy hot hot
Dopo l’eleganza formale del bianco e nero e la sorprendente sottigliezza della dimensione erotica del bellissimo Frantz, è comprensibile che un cineasta ardito ed esplicito di François Ozon – uno per cui la dimensione carnale presto o tardi è sempre protagonista della scena – abbia sentito il bisogno di un rilanciare con un film platealmente esplicito, diretto, che mai allude e sempre dichiara.
Un gioco registico ancor prima che sensuale, che decide di reinterpretare un filone tra i continui al territorio dei B movie: il thriller ad alto tasso erotico di tardi anni ’80 inizio ’90, nobilitato da gente come Paul Verhoeven e Brian De Palma, che ne hanno tratto grandi successi con gli studios.
Ancora una volta però Ozon dimostra una sua debolezza davvero paradossale: proprio lui che è un maestro dell’ambiguità provocatrice tra generi e pratiche sessuali, quando si ritrova a confrontarsi con una dimensione eterosessuale convenzionale è capace del peggior conformismo e della più trita retorica.
Ex modella afflitta da un dolori psicosomatici al ventre, da un pessimo rapporto con la madre e da un’apatia velata di depressione, Chloé trova improvviso sollievo nelle sedute con un psicoanalista silenzioso ma acuto di nome Paul. Il loro rapporto presto scivola nell’intimità vera e propria e in una dimensione casalinga di reciproco rispetto, tenerezza e strani segreti del passato di lui. Dopo essersi messa a nudo con le proprie confessioni sul lettino e dopo essere divenuta la sua compagna, Chloé realizza che di quell’uomo non sa nulla, tanto da scoprire dell’esistenza di un fratello gemello da lui allontanato. Anche lui psicoanalista, Loius vive con disprezzo il rifiuto di Paul e con dispotismo l’attrazione di Chloé verso di lui, che soddisfa con il doppio del compagno le fantasie erotiche più estreme e violente che nemmeno sapeva di cullare. Permane però un mistero sempre più fitto sul rapporto tra i due e una crescente sensazione di pericolo per la donna, incapace di decidere di quale dei due abbia più bisogno.
Ispirato da un racconto di Joyce Carol Oates, L’amant double è una tragedia annunciata: quella che si consuma ogni qual volta che François Ozon tenta di scioccare il proprio pubblico con la dimensione convenzionalmente intesa di erotismo. Lui che si rigira tra le dita le aspettative dello spettatore nutrendolo delle ambiguità di un maschile che si tuffa nel femminile e viceversa, è destinato a coprirsi di ridicolo ogni volta che approccia una scena “forte” di Doppio amore, a partire dalla chiacchierata soggettiva iniziale della vagina della protagonista, che sfuma nell’occhio verde e malinconico della protagonista.
È in questo simbolismo freudiano calcatissimo e nei bizzarri parallelismi che si instaurano con Napoli Velata di Ozon (i film si aprono con la medesima scena della protagonista che sale una scala che introduce al medesimo gioco di specchi tutto riflessi di specchi e gemelli nascosti) che s’intuisce chiaramente da subito come lo stile elegante e rifinito di Ozon sia del tutto inadatto per girare scene che solo un polso fermo e uno approccio ben più sanguigno può tenere al di fuori dal territorio dell’imbarazzante. Le evanescenze fugaci alla De Palma e la spregiudicatezza femminile di Verhoeven sono associate ai loro nomi proprio perché sono esempi quasi unici di registi capaci di far funzionare passaggi e registri che in mano ad altri scadrebbero nel ridicolo e nel pornografico.
Ozon ci tiene moltissimo ad essere scabroso e a tenere lo spettatore sulle spine, ma di tensione e scandalo in Doppio amore se ne vedono davvero pochi. Il vero limite del film – la sua colpa più grave e che davvero non fa onore a Ozon – è di rifarsi a un concetto così trito di sessualità e desiderio femminile che persino Paul Verhoeven lo ha superato e annichilito. Doppio amore forse non risalterebbe in tutta la sua pochezza piccolo borghese e da cinema pruriginoso tutto nudi frontali, posizioni da kamasutra e lievi soffocamenti se non pesasse pesantissimo il paragone con il recente Elle, firma Paul Verhoeven, che manda in tilt ogni pretesa di Ozon.
Dopo il deludente Giovane e bella, la presenza di Marine Vatch si conferma essere un pericoloso campanello d’allarme sulla riuscita del film di un regista che negli ultimi anni ha dimostrato una maturazione costante, con le uniche parentesi delle sue prove.
Lui che ha scoperto e esaltato tanti “bellissimi e bravissimi” del cinema francese, lui che si accaparrò un attore del calibro di Michael Fassbender quando era ancora un signor nessuno, lui cosa ci troverà di tanto intrigante in una lei il cui unico valore su schermo è la bellezza innegabile (eppure così convenzionale e priva di qualsivoglia ambiguità) da fotomodella? Persa anche quell’aura ingenuità e freschezza che al cinema può essere un filtro potentissimo che sopperisce alla mancanza del talento, Marine Vatch sfila da una scena all’altra, con o senza vestiti, indossando la solita espressione che nulla esprime, con l’indifferenza di una sfinge che non si sa cosa pensi o provi, sempre che provi qualcosa. Faccio un’affermazione forte: nella sfida tra bellissimi prestati al cinema e che andrebbero restituiti al mondo della moda senza rimpianti, Marine Vatch è così terribile che l’Alessandro Borghi di Napoli Velata allora ha motivo di essere ed esistere, recitativamente parlando.
A confronto il coprotagonista Jérémie Renier – un altro attore che a Ozon deve moltissimo – fa la figura del titano. Renier è bravo di suo, certo, ma di fronte all’inettitudine di una Marina Vatch del tutto incapace di trasmetterci il desiderio e le angosce della protagonista, finiamo per rimanere affascinati anche quando non dovremmo dal suo duplice personaggio, speculare e diametralmente opposto. Il suo talento è confermato dalla capacità di dare verve a questa geometria banalissima su cui è fondato il doppio amante che interpreta.