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C’è stato un tempo in cui il cinema di Wes Anderson era davvero una chicca appannaggio quasi esclusivo dei cinefili che facevano dei loro gusti anticonformisti e ricercati motivo di vanto e punto d’onore. Poi è arrivato l’Internet delle masse e dell’alta velocità, l’hipsteria si è diffusa e insieme a barbe imperanti, polaroid e magliette a righe Wes Anderson è diventato l’equivalente della Marvel in campo fumettistico.
Incurante del suo ruolo contraddittorio di riferimento estetico di massa e icona di nicchia hipster (e della disperazione dei fan dell’epoca, costretti a scegliere se essere conformisti e sprezzanti rispetto al loro idolo), Wes Anderson è andato per la sua strada, continuando ad essere cinematograficamente fedele a sé stesso. Ormai non c’è davvero più bisogno di spiegare cosa e quanto ci sia del suo estro e del suo gusto in un film come L’isola dei cani, quindi concentriamoci piuttosto su un nome che non dovrebbe eppure ha ancora bisogno di presentazioni; quello di Kunichi Nomura.

A un certo punto della sua lavorazione, quando era ancora solo una sceneggiatura in fase di prima stesura, L’isola dei cani era un film con un ragazzino e una bizzarra combriccola di cani randagi, a cui mancava la componente più distintiva: quella dell’ambientazione in terra pseudonipponica. Più che il Giappone vero e proprio, il film di Wes Anderson è infatti ambientato in una dimensione che un po’ fa il verso all’Arcipelago e alla sua coolness, un po’ ne ricalca la misura estetica ed esotica. Eppure chi ha avuto la fortuna di visitare Tokyo e dintorni riconoscerà nella città cinofoba di Megasaki un po’ dell’atmosfera autentica del Sol Levante delle delle feste estive dell’Obon.


Anzi, non c’è neppure bisogno di averci messo piede in Giappone, basta averci fatto una puntata nella sua controparte di celluloide dei decenni passati. In L’isola dei cani c’è una certa bidimensionalità e il solito fascino materico e vintage proprio di Anderson che richiamano alla memoria una serie di film dalle produzioni più o meno artigianali, con cui il Giappone dal dopoguerra in poi è diventato un’icona della produzione cinematografica così di genere da essere di nicchia, per la capacità artigianale di costruire scene ambiziose con trovate geniali.

Sin dalla splendida scena di apertura a ritmo di taiko, la partitura musicale e narrativa dell’Isola dei cani è giapponese e non prende mai stecche o cantonate. Il merito è di Kunichi Nomura, presente anche nel cast di assoluto pregio dei doppiatori [inserire qui la simpatica storia di Wes Anderson che va nelle villone dei suoi amici famosoni hollywoodiani a tampinarli fino a quando, sfiniti, hanno accettato di doppiare questo o quel personaggio]. Attore e tuttofare di pregio ogni qual volta che a Hollywood hanno bisogno di un retrogusto giapponese autentico, Nomura è il nome speso da chi vuole fare la figura del sapientone, pur essendo dietro la successo del film forse più iconico quando si parla di Hollywood e Tokyo: Lost in Traslation di Sofia Coppola. Anche in quel caso le scelte estetiche, le location e un certo mood malinconico da megalopoli diventato poi famosissimo derivavano in misura rilevante dal suo intervento durante la lavorazione della pellicola come consulente.

Quando si loda una componente brillante de L’isola dei cani, si rischia quindi di attribuire a Anderson un merito di Nomura, che non si è limitato a presiedere alla correttezza linguistica e culturale dell’operazione (particolare passato inosservato a quanti hanno attaccato il film come, tenetevi forte, razzista). Sua è per esempio la scelta brillante e decisiva per le sorti del film di creare una barriera linguistica tra umani e cani, a favore di questi ultimi, ribaltando qui equilibri “intellettivi” tra animale e padrone.*

Sul resto del film non rimane molto da dire, perché è prevedibilmente un puro distillato di Anderson e andersoniano, quasi un esercizio di bravura senza qualcosa di sostanziale da dire. Qui il regista si muove su sentieri già esplorati, quasi riprocedendo su un esercizio già eseguito, per provare che la sua forza non sta solo nell’innovazione, ma nella capacità di esprimersi a grande livello anche nella sua routine registica più abitudinaria e consolidata.

L’isola dei cani è insomma un gran bel film, ma ha il discreto limite di non aggiungere davvero nulla a livello creativo alla filmografia del regista, quasi fosse un filler. Certo, direte voi, averne di film “aggiuntivi e accessori” così. Verissimo. Tuttavia è un po’ mancato quell’approccio sorprendente e incisivo dei tempi di Fantastic Mr Fox, anche perché L’isola dei cani nel tono e negli intenti si dimostra meno sottile e adulto, quasi fosse una pseudo fiaba urbana andersoniana.

A contribuire alla minore incisività dei messaggi di Anderson rispetto al passato c’è una scena politica statunitense così desolante e di basso livello da appiattire verso il semplicismo più spicciolo ogni cineasta che la critica dentro e fuor di metafora. Gli Stati Uniti di Trump si muovono su un livello così culturalmente e politicamente basso che si ritorce contro anche a chi tenta di denunciarlo, perché sembra davvero impossibile farci su un discorso articolato e complesso.

*anche nei cinema italiani gli umani parleranno in giapponese: Nomura tra le altre cose si è occupato di assicurarsi che i vari doppiaggi in giro per il mondo mantengano questa specificità.