Tag
Abu Bakr Shawky, Ali Abbasi, Alice Rohrwacher, Asghar Farhadi, Camille Vidal-Naquet, Cannes, Cannes 2018, Ciro Guerra, Debra Granik, Eva Husson, gardy commenta, Gaya Jiji, Guillaume Nicloux, Hirokazu Kore-eda, Jafar Panahi, Jaime Rosales, Jean-Luc Godard, Jia Zhangke, Joe Penna, Julio Hernández Cordón, Kirill Serebrennikov, Lars von Trier, Lukas Dhont, Pawel Pawlikowki, Ryūsuke Hamaguchi, Sergey Loznitsa, Spike Lee, Stéphane Brizé, Stefano Savona, Wanuri Kahiu
Ahhh, il sole, il mare, la Croisette. E io, ancora una volta ancorata alla ridente pianura Padana, lontana fisicamente ma vicina psicologicamente e “socialmente” a quanti il Festival quest’anno punisce con proiezioni stampa sostanzialmente azzerate. Che per quanto gli accreditati sappiano essere fingardi e spoileratori, non se lo e ce lo meritiamo, questo vedere i film e leggere i commento nel cuore della notte, dopo la prima mondiale post red carpet di Cannes 71.
Insomma, un altro anno di Cannes all’insegna del mai-una-gioia, stavolta pure per chi è in Croisette, in un’annata che tra polemiche in-fi-ni-te, programmi con poco fattore wooow e continue voci di declassamento di quello che (per ora) è il primo festival cinematografico mondiale per importanza.
In un mondo migliore e più giusto, io vi potrei proprio recensire i film dal Palais. In un mondo più semplice, questo recappone di impressioni, voci e umori dalla Croisette sarebbe aggiornato giornalmente: si fa quel che si può, voi quando passate di qui, dateci un’occhiata: sopra e sotto, perché il post è in evidenza ma continueranno ad arrivare aggiornamenti sul resto. Ovviamente espressioni di affetto e di spam da qui al 19 maggio alimenteranno la mia voglia di essere costante e completista.
[AGGIORNATO AL 15 MAGGIO]
CONCORSO
Todos Lo Saben (Tutti lo sanno) di Asghar Farhadi
Lucia lascia l’Argentina con il marito e la figlia adolescente per una visita al paese natio spagnolo. Quando la figlia verrà rapita, si rivolgerà alla sua vecchia fiamma per tentare di raccogliere i soldi del riscatto e salvare la figlia, facendo emergere i racori e i segreti nascosti del suo passato e presente affettivo.
Lo so che pensate che io stia letteralmente gongolando per l’alzata di spalle con cui è stato accolto il film d’apertura del regista iraniano a capo della lobby del suddetto cinema e forse è un pochino vero. Non è un mio arcinemico, ma di certo sono tra quanti trovano francamente inspiegabile e inspiegato lo strapparsi di capelli (per non dire l’Oscar) per Il Cliente, una replica fatta e finita del suo primo grandissimo (e forse unico) film, Una Separazione. Pare che qui, pur rimanendo nei temi a lui cari di intrighi di segreti e verità non dette, il nostro si faccia meno sottile e più soap spagnola, facendo arricciare il naso a molti. Quello che mi spiace è di leggere come la spettacolare location spagnola e il talento di due attoroni come Javier Bardem e il grande Ricardo Darìn (la stella assoluta del cinema argentino, adombrata sul tappeto rosso dalla presenza della coppia d’oro del cinema ispanico) giacciano inutilizzate per una pellicola che secondo molti sbaglia anche il posizionamento. Pare infatti che il film – coprodotto da Andrea Occhipinti e Lucky Red – non sia il thriller che voglia propinarci la promozione, bensì un melò, che è un taglio decisamente più da Farhadi.
Yomeddine di Abu Bakr Shawky
Un lebbroso di fede copta e un ragazzino orfano vivono in una colonia dove sono confinati i malati, ai margini della società egiziana. S’imbarcheranno in un viaggio alla road movie oltre il confinamento, finalmente liberi, decisi a tentare di rintracciare quel che resta della loro famiglia e delle loro radici.
Avrei detto il film PESO di giornata, invece a quanto pare è quel mistone un po’ politico un po’ esistenziale, ma con tanto volemose bbbene per cui impazziscono in zona Sundance. Insomma, fatto con due spicci (e pure maluccio), nascondendosi dietro la bandiera del feels good movie – Col cuore! di dursiana memoria, che se possibile è una cosa che mi attira ancor meno della colonia di lebbrosi. La critica è orripilata, quindi non mi sento nemmeno in colpa per il raccapriccio con cui la chiudo qui senza indagare troppo oltre. Niente di personale contro un film che ha lottato 10 anni per venir concluso, ma il parere unanime è che non dovrebbe stare in concorso.
Leto (Summer) di Kirill Serebrennikov
Viktor Tsoi è stata una delle figure chiave del rock russo: Leto (Summer) non è propriamente un film biografico su di lui, quando sul fiorire della scena rock underground russa nella Leningrado del 1981, in piena guerra fredda. La pellicola ruota attorno al triangolo amoroso formato dal musicista, dal suo mentore e dalla di lui moglie Natasha.
Fa sempre male vedere una sedia vuota in conferenza stampa, specie quando sai che Serebrennikov è trattenuto agli arresti domiciliari per faccende quantomeno un po’ sospette a casa, in Russia, con tanto di due di picche di Putin alla richiesta del Festival di concedergli di essere presente alla prima mondiale del suo elegante, malinconico ricordo del rock russo, sorprendentemente diverso dal cugino americano, privo degli eccessi di alcol e droghe, musicalmente distante eppure altrettanto centrato. Purtroppo bisogna aspettarsi almeno un’altra defezione forzata nei prossimi giorni. Sul film si sono lette solo cose buone ma non esaltanti. Ci siamo, ma non è la pellicola in concorso che farà sognare critica e pubblico.
Plaire, aimer et courir vite (Sorry Angel) di Christophe Honoré
Jacques e Arthur per molti versi sono all’opposto dello spettro: uno è un professore quarantenne di Parigi cronicamente diffidente verso la vita, l’altro uno studente sempre sorridente e speranzoso di Rennes. Contro ogni previsione, i due si piacciono, e molto, anche se intorno a loro imperversa la drammatica epidemia di AIDS.
Bella l’idea di girare un film ambientato all’epoca dell’AIDS ma non incentrato sul dramma della stessa: solo che reggere un’intera pellicola su questo singolo presupposto è un po’ troppo poco. La critica parla di un film a cui Honoré non sa mettere fine e che si protrae rantolando davvero troppo a lungo, supplicandolo di mettere la parola fine. Insomma, parrebbe non essere proprio riuscitissimo.
Zimna Wojna (Cold War) di Pawel Pawlikowki
Una coppia di innamorati irrimediabilmente destinata all’infelicità cerca per 20 anni e 90 minuti un destino di felicità impossibile, in una Polonia altrettanto disintegrata e disillusa dalla Guerra Fredda.
Il primo vero film in concorso che ha scaldato un po’ i cuori con il suo bianco e nero elegantissimo e retro-piacione e la sua storia d’amore impossibile. Il regista è uno specialista dei monocromo emotivamente intenso, il polacco di Ida, che stavolta romanza la storia d’amore difficile e ostacolata tra i suoi stessi genitori. Con l’altro film in b/n visto nei giorni scorsi condivide anche la centralità della (si dice) bellissima colonna sonora.
Si preannuncia insomma un film romantico dal tono piangerone di quelli potenti, dato che in parecchi hanno sostenuto che a confronto il malinconico Ida fosse una botta di allegria. Dato lo zampino di Amazon nell’operazione, è lecito aspettarsi una qualità produttiva di molto superiore a Ida e tentativi nemmeno troppo occulti di farlo correre agli Oscar, se l’esito in Croisette sarà positivo. Sicuramente è già nella mia lista di film romantico-strazianti con cui voglio farmi del male prossimamente.
Le livre d’Image di Jean-Luc Godard
La sfida più complessa del post, perché già negli anni d’oro scrivere una trama di un film di Godard non era impresa semplicissima. Godard parla di cose arabe e fa Godard, I guess?
Funziona così: ogni Festival ha un mostro sacro trasformatosi un po’ in cariatide che è presente per il puro gusto della polemica. Godard è la quintessenza di questo assunto in terra francese (ma anche noi abbiamo di questi momenti eh). Il punto è che un film di Godard lo vai a vedere già sapendo cosa ne penserai: lo vanno a vedere i partigiani dell’avanguardismo che non importa che sciocchezza sconclusionata vedranno, grideranno “arteeee!” e lo andranno a vedere quelli animati da odio purissimo verso ciò che Godard rappresenta che odieranno ogni minuto di permanenza in sala e ci andranno esattamente per quel motivo. I restanti saranno ad altre proiezioni, per cui è sempre difficile trovare una recensione vera e propria del film e si rimane sempre un po’ col dubbio eterno: genialità o cazzatona?
Jiang Hu Er Nv (Les Etèrnels – Ash is the purest white) di Jia Zhangke
Una ballerina esplode un colpo di arma da fuoco per proteggere l’amante, un tipo losco che opera nei bassifondi cinesi. Le conseguenze del gesto la porteranno per 5 anni in prigione. Scarcerata, si metterà alla ricerca dell’amato.
Attenzione al silenzioso assenso consenso che ha raccolto un cineasta amato come Jia Zhangke, uno che non sbaglia davvero mai. Con un film descritto come un nuovo capitolo della sua lunga riflessione sulla Cina che cambia a grande velocità e con violenza lasciando del passato solo un lieve ologramma, Zhangke mette a segno un thriller imprevedibile ambientato nei bassifondi della mala, che mi pare di capire abbia più di un semplice rimando tematico al precedente Still Life. E gli alieni, non chiedetemi come sia possibile ma mi par di capire che ci azzecchino pure alieni e dischi volanti.
Les filles du soleil (Girls of the sun) di Eva Husson
Un battaglione formato da sole donne curde costrette a imbracciare il kalashnikov cerca disperatamente di espugnare la propria cittadina, tenuta sotto il crudele assedio dell’ISIS: le segue sul campo e racconta le loro storie un’inviata di guerra francese.
L’unica vera certezza sul film è che Eva Husson è già il secondo film che azzecca registicamente, quindi metteteci pure la mano sul fuoco che per i cinefili sarà the next big female thing in campo registico. Pare proprio che anche in questa pellicola di guerra spacchi. Su come sia nei fatti Les Filles du Soleil, difficile dirlo ora, perché da una parte ci sono quelli che siccome parla di donne che prendono in mano il loro destino allora è fighissimo (un po’ come Wonder Woman, ehm) e dall’altra c’è chi sostiene che è il classico film che partendo dai presupposti migliori, scivola nella peggior retorica pressapochista. Quel che è sicuro è che è il film che centra meglio il tema implicito e politico di quest’anno in Croisette e attenzione che non conquisti qualcosa facendo forza sulla micidiale combo politicamente corretta di film sulle donne diretto da una donna.
Se Rokh (Three Faces) di Jafar Panahi
Jafar Panahi accompagna una conoscente attrice in un villaggio remoto dell’Iran, per scoprire se un’aspirante interprete che aveva minacciato via video di togliersi la vita abbia davvero compiuto il folle gesto.
Sapete cosa penso dei film che non cacciano fuori una locandina per tempo, sapete quanto mi ispirino risentimento perché mi fottono la regolarità grafica del Listone. Solo che Three Faces non ha potuto manco cacciar fuori il regista sulla Croisette, dato che Jafar Panahi (l’unico regista iraniano che non fa parte della fantomatica lobby del suddetto cinema) è più o meno ancora agli arresti e vige ancora il più o meno divieto per lui di girare film, che ovvia con queste versioni mockumentaristiche di quello che vorrebbe girare davvero, infarcite di messaggi politici per cui prima o poi si farà ammazzare. Se il rischio corso con il bellissimo Taxi Teheran valeva la candela, pare che qui non così tanto. Date le condizioni e le restrizioni in cui si muove da regista e da persona, va già benissimo così.
Lazzaro Felice (Harry as Lazzaro) di Alice Rohrwacher
Nell’Italia rurale d’inizio anni ’80 la mezzadria giunge bruscamente al capolinea, stravolgendo il mondo dei contadini, costretti ad emigrare in una città lontana e straniante. Tra di loro c’è Lazzaro, un ragazzo così innocente da essere vittima dei raggiri altrui: Lazzaro felice è la storia della sua amicizia con il giovane sognatore Tancredi.
Che la pattuglia italiana di quest’anno fosse da tenere d’occhio si era capito da tempo, ma l’accoglienza più che calorosa riservata a Lazzaro Felice fa davvero ben sperare, così come le comparazioni più che lunsinghiere con Olmi, i Taviani e Bertolucci. Il film di fondo sappiamo già come sia, perché lo strappo con il mondo rurale è stato al centro di un certo cinema autoriale italiano per alcuni decenni del Novecento. Sappiamo anche dello sguardo magico eppure disincantato con cui Alice Rohrwacher sa ritrarre i suoi protagonisti e dell’immensa bravura della sorella Alba, amatissima in Croisette più che in patria. Per cui non fatico a credere alle meraviglie (pun intended) sentite dalla critica e incrocio le dita.
Manbiki Kazoku (Shoplifters) di Hirokazu Kore-eda
La vita quotidiana di una scapestrata famiglia giapponese dedita a furtarelli e piccoli crimini.
È scattato l’allarme Palma d’Oro, perché pare che il film del giapponese Kore-eda sia una spanna sopra a tutto il resto visto finora.
Che lui sia il regista giusto per un film intenso sui peggiori elementi della società, ritratti da un’occhio e una regia che mai li giudica e ne tira fuori l’umanità migliore nei momenti peggiori, chiunque abbia visto un solo film del regista non faticherà a crederlo.
Davvero nessuno però pensava che un “innocente” slice of life si sarebbe trasformato nel titolo da battere. Pare sia semplicemente pazzesco. Contando che io ho amato moltissimo anche Sandome no Satsujin, liquidato davvero troppo in fretta all’ultima Venezia, sono già qui che fremo. Una Palma giapponese non si vede da parecchio e se c’è un regista che non sbaglia nulla da tempo e se la merita ampiamente, è quello creditato come il successore naturale di Ozu.
Netemo Sametemo (Asako I & II) di Ryūsuke Hamaguchi
Asako si ritrova sola dopo che il suo amato scompare misteriosamente nel nulla. A qualche anno di distanza, d’imbatterà nella sua copia perfetta dell’amato, uno sconosciuto che sembra essere il suo gemello.
All’annuncio del cartellone in molti si dissero sollevati dal ricambio di registi a Cannes, con un nome relativamente nuovo ad affiancare l’inossidabile Kore-eda. Il problema però è che se è sempre a Cannes e in altri Festival un motivo c’è: è un gigante del cinema odierno, prolifico ma senza intaccare la qualità delle sue pellicole. Lo stesso non si può dire di Ryūsuke Hamaguchi, la cui delicata storia d’amore si è guadagnata lo scherno di parecchi in Croisette. Troppo lunga, troppo melensa, pare. Ad altri però è piaciuta: potrebbe essere solo un problema di livello di romanticheria. Passasse da noi, le darei di certo un’occhiata.
BlacKkKlansman di Spike Lee
La storia vera di un poliziotto afroamericano che, con l’aiuto di un collega bianco, scalò da “infiltrato telefonico” le gerarchie del Ku Klux Klan negli anni ’70, sventandone i piani più violenti.
Nessuno ci avrebbe messo una lira su Lee, che ultimamente era più perso che mai, specie nelle sue uscite più festivaliere. Invece BlacKkKlansman ha davvero convinto la critica in Croisette, non tanto per Adam Driver (che c’entra il film con cui presentarsi a Cannes ancor prima di Don Chisciotte) ma proprio per la regia di Spike Lee, per il suo ritrovato ardore cinefilo e politico. Non si capisce bene se il bersaglio principale dei suoi attacchi sia Trump o Tarantino e la sua fissazione per il blaxpotation, ma se ha ritrovato la forma va davvero benissimo così.
En guerre (At war) by Stéphane Brizé
Dopo aver ottenuto rassicurazioni sul futuro della loro azienda, un gruppo di operai scopre che il manager ha cambiato idea e chiuderà lo stabilimento. Laurent si metterà alla testa dei colleghi per lottare e salvare il proprio posto di lavoro.
Una spera sempre che quando Ken Loach non c’è si possa godersi un anno di Croisette senza film zona CGIL, ma niente, in sua assenza ci si mette Brizé. L’accoppiata del regista con quel titano di Vincent Lindon però raramente fallisce e anche qui ne ho sentito già parlare abbastanza bene, così come buona parte degli ultimi passaggi di Brizé, il regista francese che fa bene e aspetta di esplodere definitivamente da una vita, poi fa male e torna nel dimenticatoio.
La cosa più divertente è la reazione sconvolta dei recensori americani di fronte al tifo da stadio dei colleghi francesi mentre gli operai la fanno pagare cara ai padroniiiii…chissà che shock culturale, scoprire un posto in cui il capitalismo è osteggiato per davvero. La partigianeria che hanno poi estratto i recensori di casa è quasi tenera.
FUORI CONCORSO & SPECIALI
Dead Souls di Wang Bing
Nel deserto del Gobi giacciono i resti dei prigionieri cinesi arrestati durante le purge del 1957. Etichettati come attivisti dell’ultra-destra, i prigionieri vennero lasciati a morire di fame in un complesso carcerario noto eufemisticamente come “centro rieducativo”. I sopravvissuti raccontano la storia di questa tragica vicenda e quella di quanti perirono nei campi.
I pochi coraggiosissimi che hanno affrontato l’impresa del film più lungo mai proiettato in settant’anni di Festival di Cannes ne parlano solo in termini d’impresa e come dargli torto (c’è anche il vago sospetto che qualcuno commenti la lunghezza perché l’impresa l’ha sentita raccontare più che vederla). Proiezione quasi deserta, si dice: in effetti è difficile trovare le testimonianze dei sopravvissuti alla micidiale combo 4 ore di film – 1 di pausa – altre 4 ore di film, considerando che poi il Festival nelle altre sezioni di certo non si ferma. A me erano bastate due ore di Mrs Fang per archiviare la questione film di Bing fino a data da destinarsi. Complimenti a Mariarosa Mancuso de Il Foglio che già al secondo giorno si dimostra più frizzante del solito nel suo collaudato disfattismo annoiato, centrando la definizione migliore di sempre per il cinema del regista Pardo d’Oro a Locarno (perché?, mi chiedo ancora attonita) nel 2017: pura esibizione di necrofilia.
Arctic di Joe Penna
Dopo aver visto sfumare tragicamente il tentativo di salvataggio ultimo, un uomo bloccato tra i ghiacci dell’Artico deve decidere se rimanere nel suo rifugio, sperando nell’arrivo di un’ulteriore spedizione di soccorso, o se intraprendere un cammino potenzialmente normale per andare incontro ai soccorritori.
Non ce ne voglia il caro Joe, ma questo è chiaramente il film scusa ufficiale per avere Mads Mikkelsen che gira tutto fascinoso per i party di Cannes. Non guasta poi sapere che è un thriller che mette un uomo e la sua disperazione contro la natura ostile che cerca di congelarlo vivo, di buona fattura e ovviamente elevato alla massima potenza dalla solita, impeccabile performance di Mads. Le Grand Bain di Gilles Lellouche
Bertrand è un 40enne caduto preda della depressione e senza prospettive per il futuro. A rinvigorirlo e salvarlo dal male di vivere ci penserà la squadra di nuovo sincronizzato maschile a cui finirà per prendere parte.
Qui non c’è davvero nulla da dire: piccola commediola francese ad uso e consumato di una serata si spera piacevole al cinema, che passa in Croisette probabilmente come contentino al cinema di casa.
I voti che ha finora raccolto spingerebbero a esprimere un cauto ottimismo sulla resa dinale di una pellicola a cui manca soprattutto qualcosa d’incisivo da dire per essere in Croisette, almeno a detta di quelli che sono laggiù a sottoporsi a tutto, marchette incluse.
Pope Francis di Wim Wenders
L’ennesimo film sulla figura di Papa Francesco, che è ancora vivo e vegeto ma sta già subendo il trattamento del biopic celebrativo che di solito arriva al decimo anniversario dalla morte.
Per quanto possa essere brillante e inconsueto lo sguardo di Wenders sul Papa venuto da lontano, 90 minuti e spicci di propaganda bergogliana con tanto di quanto è bello, bravo e comunista Bergoglio in quel ben di Dio noto come “programma delle sezioni collaterali di Cannes” io proprio manco lo degnerei di uno sguardo, figuriamoci del tempo che potrei passare a vedere altri film. Massimo ci farei su delle battute a tema Il giovane Ratzinger mentre sono in fila per tipo il prossimo titolo, ma ahimé non sono in Croisette.
Gongjak (The Spy Gone North) di Yoon Jong-Bin
Nel mezzo dell’eterna Guerra fredda coreana e degli anni ’90, una spia del Sud architetta un piano per infiltrarsi al Nord e ottenere i piani degli arsenali nucleari oltre il parallelo maledetto.
Guardiamoci negli occhi: esiste una seppur remota possibilità che io non salivi per un film su una Guerra Fredda (non importa quale) che promette doppi e tripli giochi, verbosissimi piani fatti e disfatti in fatiscenti camere d’hotel e soprattutto si mormora persino con un crescendo bromantico finale? No.
Questo Listone è uno sbatti micidiale e io mi merito la carta di libera uscita per quella che sembra la versione coreana di La Talpa. Già son tutta un fremito, anche perché sembra proprio essere ritratto come il film magari un po’ sfuggito di mano, ma per l’essere troppo pazzesco. Non vedo l’ora.
The house that Jack built di Lars von Trier
Sulle tracce di un serial killer e della sua opera di “certosina bellezza” proseguita per oltre 12 anni, lontano dall’attenzione della gente.
Forse Lars non azzecca un film per davvero da qualche tempo, ma di certo sa come attirare l’attenzione sulle sue pellicole. Per violenza e disperazione, The house that Jack built non poteva che attirare le attenzioni della critica, che però ho sentito molto irritata dall’essere quasi costretta, di fatto, a sottoporsi alla dose vontrieriana per come lui sia così bravo a rendere indispensabile la visione dei suoi lavori per dire di esserci stati, al Festival.
Violento, disturbante e ricco dei temi cupi e depressivi cari al regista, farà la gioia dei suoi fan di vecchia data, ma forse davvero solo la loro. Non avrà però problemi a trovare un distributore, dati i nomi convolti.
UN CERTAIN REGARD
Donbass di Sergey Loznitsa
La vita infernale nel Donbass ai tempi della più o meno palese guerra tra Ucraina e Russia, tra propaganda nazionalista, incursioni e confini sempre più labili.
Da qualche anno a questa parte Cannes non può essere tale senza la calata di Loznitsa con il suo annuale reminder delle loscaggini perpetrate da Mosca e Putin. Stavolta ce la cava in meno di due ore, con una pellicola che tra sarcasmo e immagini potenti racconta la vita in una regione assediata da forze protettrici e invasori, frastornata dalla propaganda politica e flaggelata non solo dalla guerra, ma anche dalle fake news (riflessione meta che la critica pare aver gradito). Alcuni sono stati lapidari a riguardo – soprattutto la stampa francese – ma senza strafare la critica ha apprezzato la forza politica e visiva del film, che si prospetta comunque PESO, ma con una sua verve. O forse è ancora vivo il ricordo dello scorso A Gentle Creature, che da noi non si è ancora visto ma ricordo ancora venne descritto come una mattonata micidiale.
Rafiki di Wanuri Kahiu
Nella variopinta Nairobi due giovani donne lottano per mantenere la loro amicizia, ostacolata a più riprese dalla rivalità tra le loro famiglie. Quando però il loro legame diventerà un vero e proprio sentimento amoroso, Kiki e Kena dovranno decidere se scegliere la felicità individuale o il quieto vivere in società.
Preparati che quest’anno le occhiate di Kristen Stewart a Cate Blanchett non saranno l’unica cosa omo che vedremo, anzi, sta per arrivare a un fiume giornaliero di ricchionate autoriali più o meno pregevoli. Partiamo già benissimo con la lesbicata kenyana che in patria si sono già affrettati a bandire dai cinema locali. A parte qualche ingenuità o lungaggine registica, in generale il film è stato promosso e le due protagoniste particolarmente lodate. E per far partire l’hype a me sarebbe bastato molto meno.
Gräns (Border) di Ali Abbasi
Tina lavora in un remoto porto danese, al contrasto delle attività criminali legate alle importazioni delle merci. È abituata ad essere ostracizzata per il suo aspetto non piacente, non si aspetta nulla dagli altri. Border è il racconto della sua trasformazione inaspettata in un film che è quasi una favola oscura.
Il selling point di Border è che la sceneggiatura è co-scritta dall’autore di Lasciami entrare, ma così in pochi sono riusciti a vederlo per ora che non è semplice capire nei fatto come sia. Quel che è assodato è che sembrerebbe un racconto del brutto anatroccolo che si trasformata, ma poi prendere una piega così inaspettata e sessualmente esplicita da spiazzare lo spettatore in sala. L’ho visto definire come un thriller, un fantasy, una fiaba dark, un WTF. Sembra interessante.
À genoux les gars (Sextape) di Antoine Desrosières
Tipo dei liceali francesi che fanno girare un filmino porno di una compagna e quel che succede? Boh?
Ringrazio questo pregevole esempio di orrenda locandina senza idee ed eleganza, che comunica immediatamente quello che devo sapere: è l’equivalente francese del film italiano brutto come la morte e assolutamente non da Festival che bisogna ficcare a qualche parte come marchetta al paese ospitante. Il silenzio siderale che lo circonda è già il regalo più bello che potesse chiedere alla critica in Croisette. Visto così posso già percepire che da noi non mancherà da arrivare, perché i film francesi brutti come il peccato e retorici da noi hanno la corsia preferenziale. A giudicare dalle poche immagini, direi che anche la pochezza realizzativa non aiuta.
Girl di Lukas Dhont
Un giovane ragazzo 15enne transgender che studia danza classica lotta per diventare una ballerina professionista mentre con il suo corpo affronta la trasformazione fisica per diventare donna.
Attenzione che si sono sentite lodi sperticate per questo esordio proveniente dal nord Europa e – parrebbe – tecnicamente ineccepibile, dalla regia al montaggio.
Corona il tutto un’interpretazione pare potente del protagonista Victor Polster e un finale di quelli che spiazzano.
Insomma, pare proprio che il filmone di sezione sia per giunta un’esordio. Le sensazioni sono ottime, quasi che non si abbia già per le mani l’erede europeo di Una donna fantastica. Già tra i titoli da vedere dell’annata in Croisette.
Mon Tissu Préféré (My Favourite Fabric) di Gaya Jiji
Una giovane ragazza di Damasco fa resistenza verso il suo matrimonio combinato con un giovane espatriato in America, ma sogna la libertà che il legame le garantirebbe mentre in città scoppiano di disordini. Quando l’uomo sceglie la sorella minore più arrendevole, Myriam si perde nelle fantasie più sfrenate e comincia a frequentare la casa del vicino.
Esordio assoluto, femminile e recitato in lingua araba: sento una vibrazione da Mustang e se fosse bello solo la metà, sarebbe già fantastico. Difficile dire come sia in concreto perché non l’hanno visto in tantissimi, ma non sarei sorpresa se fosse più che buono. Spero si riesca a recuperarlo in qualche modo, perché pare sia a dispetto di ogni presupposto molto, molto sensuale, una sorta di “bella di giorno” siriano.
Gueule d’ange (Angel Face) di Vanessa Filho
Una madre single abbandona al suo destino la figlioletta di 8 anni dopo aver incontrato un uomo in un locale notturno.
Non giriamoci attorno: il principale motivo per cui questo film sta a Cannes è per la possibilità che dà al Festival di accogliere una delle beniamine di casa, Marion Cotillard. La pericolosa vicinanza a certi film italiani autoriali che poi passano a Venezia è tale che non lascia dubbi sull’esito scarso della pellicola, ma cosa non si fa per vedere Marion sul tappeto rosso e sul grande schermo conciata da strappona discotecara con ombretto glitter e chioma boccolosa? Si sopporta molto, anche vederla nel ruolo medio ingrato che tocca da noi a Micaela Ramazzotti. L’ironia della sorte vuole che la nostra sia messa a detta di molti in un angolo dal talento recitativo della piccola protagonista.
The Angel (El ángel) di Luis Ortega
La storia della giovinezza nerissima di Carlos Robledo Puch, ad oggi il prigioniero che più a lungo è rimasto in un carcere argentino della storia. Ci è finito per le efferate uccisioni compiute da giovane, quando si guadagnò il soprannome di Angelo della Morte per la sua bellezza mozzafiato e la sua letalità.
Era già un sì dalla locandina, a riprova che il cinema sudamericano (che quest’anno latita un po’ a Cannes, purtroppo) sa sempre darmi esattamente quello di cui ho bisogno. Dalla regia mi confermano pure che è sensuale, è omoerotico e – particolare non necessario ma non trascurabile – è pure un gran bel thriller. E grande il cinema argentino, io son già qui che attendo di un’attesa trepidante.
Euforia di Valeria Golino
Ettore e Vittorio sono due fratelli agli antipodi: uno è un uomo carismatico e di successo, l’altro un maestro delle medie che vive ancora nella periferia dove è nato e cresciuto. Un evento improvviso li costringerà ad abitare insieme per qualche tempo, immagino seguano sentimenti malinconici e intensi.
L’accoppiata Scamarcio/Mastrandea è davvero coraggiosa e pare funzioni alla grande in un film che giunta a questo punto della kermesse non ho più la forza necessaria per scavare e scavare oltre l’unanime consenso italiano per capire se è verità o partigianeria e quindi per una volta ci fidiamo del #ceancheunpodItalia e della passione eurovisiva e regististica della Golino: we’re going up up up up uuuuup!
Long Day’s Journey into Night di Bi Gan
Luo Hongwu torna nel paese natale da cui manca da anni, alla ricerca della donna perduta che ha amato.
Bi Gan vince di gran lunga in premio della critica “cineasta con cui mi avete frantumato ogni cosa possibile ancor prima che io abbia visto un solo minuto di suo girato”: la sua venuta a Cannes è stata salutata con giusto un filo meno di enfasi che la resurrezione di Gesù il terzo giorno.
Sulla carta è una cosa così da me che non ci si crede: l’estetica così affilata da diventare un’arma da taglio (possiamo parlare di questo poster clamoroso?), un’allure da Wong Kar-wai che sfiora il plagio (vedi immagine sotto) amori perduti e sentimentooooooo, torna a Surriento. Perciò sì, lo voglio vedere. Dalle prime reazioni però mi pare di capire che sia un po’ ‘na refnata: visitamente da capogiro ma poi se capisce, non se capisce e forse non ha granché contenuto. Ma soprattutto del film non si sa nulla perché tutti parlano solo del fottuto piano sequenza a metà film in 3D con il bacio a 360 gradi alla De Palma che ne ho sentito parlare così tanto, ma così tanto che mi sembra di averlo visto.
QUINZAINE DE REALISATEURS
Pajaros De Verano (Birds of Passage) di Cristina Gallego e Ciro Guerra
L’ascesa e la caduta di una famiglia di etnia Wakkyu convertitasi al traffico della droga (dal 1968 per circa un decennio) ambientata nel deserto a Nord della Colombia.
Finalmente ci immergiamo in un titolo di autorialità sospinta per cinefili duri e puri, girato con tanto di pellicola 35mm. Ciro Guerra è noto per l’impressionante lavoro tecnico di The Embrace of Serpent e per raccontare da sempre le contraddizioni della Colombia che si apre all’Occidente e al capitalismo, perdendo la sua anima tradizionale tribale. Pare che anche qui il risultato sia intenso e spettacolare, magari non come il bianco e nero suggestivo del film girato nella foresta amazzonica, ma comunque notevole. Pura Quinzaine e pare pure fatta bene.
Petra di Jaime Rosales
Dopo la morte della madre, Petra si palesa nella villa catalana di un noto pittore di una certa età, alla ricerca della verità su suo padre: nulla di buono verrà da questo intenso confronto tra figli di sangue e non riconosciuti riunitisi al capezzale del padre.
Jaime Rosales è un ospite ricorrente della Croisette, ma anche uno di quei nomi sostanzialmente sconosciuti al di fuori del circuito festivaliero: colpa del suo stile rigoroso e senza sconti, adorato dalla critica ma difficilissimo da vendere al pubblico col suo senso di alienazione e sconforto montante. Da qualche anno a questa parte però il regista spagnolo si è un po’ dato una regolata e Petra è già stato salutato come il suo film più accessibile, oltre che molto riuscito nella sua componente tecnica e qualitativa. Speriamo di intercettarlo in sala stavolta.
Les confins du monde (To the ends of the Worlds) di Guillaume Nicloux
Un brutto film sulla guerra in Indocina del 1945 in cui un soldato francese vede la propria famiglia massacratq dai malvagi giapponesi e vorrebbe imbarcarsi in una terribile vendetta (ma scusa, non è già soldato, non sarebbe proprio il punto copparli di lavoro, questi malvagi giapponesi?) ma poi conosce una prostituta indocinese e abbiate pietà di me con ‘sta trama stereotipata, vi prego.
Les confins du monde è un film di guerra salutato praticamente all’unanimità come bruttino e assolutamente trascurabile, che invece potete star certi che vedremo in sala a discapito di altri titoli interessanti qua in giro. È questo il potere di avere un cast con dei nomi spendibili quali Gérard Depardieu e Gaspard Ulliel.
La strada di Samouni di Stefano Savona
La storia dell’operazione Piombo fuso, organizzata dagli israeliani in territorio palestinese, raccontata attraverso un documentario altamente sperimentale, che alterna sequenze in presa diretta a spezzoni animati, Il filo narrante è quello di un matrimonio da celebrare nella famiglia Samouni, una ricorrenza tragicamente interrotta dagli eventi della Storia, che cambierà le vite dei protagonisti.
Al terzo film di guerra della giornata io sarei anche pronta a sbarellare, ma mi hanno fregato piazzandoci l’italiano altamente sperimentale che, in quanto tale e in quanto impegnato sul versante politico, non c’è verso di capire poi in effetti se sia una pellicola intrigante o solo un peso micidiale. Quantomeno l’idea c’è. Io subodoro anche un certo cinema dell’impegno con una nota stridente nell’utilizzo di questa parola (un po’ a tutti costi e un po’ a priori), ma ha abbastanza idee e una storia produttiva così lunga e travagliata che si merita almeno il beneficio del dubbio. Di certo meglio di quello immediatamente sopra. Certo che allegria in questa giornata di Quinzaine, mamma mia.
Mandy di Panos Cosmatos
Una setta guidata da un pazzo sadico scoinvolge le esistenze pacifiche e piene d’amore e di conifere di Red Miller e Mandy Bloom. Lui non la prende benissimo e parte alla ricerca di una truculentissima vendetta.
Nicholas Cage in Croisette è un po’ una di quelle visioni che dà il capogiro ed è sostanzialmente inutile tentare di capire come sia il film, che ha tutta la scala di voti possibili, come ogni cosa in cui sia coinvolto il caro Nic. Essendo io incline ad abbandonarmi al horror con molta reticenza e solo se autoriale/di qualità super collaudata e non avendo il feticismo un po’ hipster e un po’ trash dei film con Cage visti perché sì, facciamo che mi direte voi.
Teret (The Load) di Ognjen Glavonić
Vlada è un camionista incaricato di trasportare un misterioso carico nei territori bombardati della Serbia durante il conflitto del 1999.
Ho percepito solo che è noioso da morire, e questa è una delle più approfondite recensioni uscite nei riguardi di questo film che deve essere di una trasparenza incolore rara. Poco male, a questo punto della kermesse avrà permesso ai giornalisti esausti di farsi un pisolino.
Cómprame un revolver (Buy me a Gun) di Julio Hernández Cordón
Huck è una ragazzina che vive nel Messico dove le donne continuano a svanire nel nulla. Per questo tiene nascosta la sua identità, indossando una maschera, mentre aiuta il padre a mantenere un vecchio campo da baseball.
Ci è voluto davvero parecchio per scovare qualche recensione non in messicano di questo film piccolo ma rifinito come il miglior cinema autoriale, a partire dall’ottimo pacchetto promozionale d’immagini.
Sono riuscita giusto a capire che è forte, duro e parecchio violento, sia nel raccontare il Messico odierno sia nel ritrarre questo strano, profondo rapporto padre e figlia. Fissa mia per il Sud America a parte, potrebbe esserci davvero qualcosa di molto particolare nascosto in questo film visto da pochi.
Le monde est à toi (The World is Yours) di Romain Gavras
Un ex spacciatore pianifica di aprire un’attività in Tunisia con i proventi della sua vita criminale, che però sua madre si è giocata d’azzardo e ha perduto. Pianifica quindi un colpaccio finale per realizzare il suo piano.
Vincent Cassel, che Croisette sarebbe senza il fascino ruvido e criminale del nostro in qualche francesata?
Questa qui nello specifico è un film da colpo del secolo visivamente accattivante e rifinitissimo ma nei toni capace di non prendersi sul serio e irridere un po’ l’atteggiamento super serio e super cool dei classici del genere.
Sulla carta è molto francese, molto stiloso, molto divertente e tutto sommato abbastanza imperdibile.
Climax di Gaspar Noé
Sesso spinto.
Lo stesso discorso fatto più su per Godard, al cubo. Ho sentito più parlare dell’epica festa data la notte della prima con il cast che balla disinibito sul palco (tanto dopo aver girato con Noé, che senso ha avere inibizioni?) che del film stesso, polarizzato tra noia educatissima e sospiro di sollievo perché a quanto pare è almeno migliore del precedente Love, ma non è Enter The Void, ma nemmeno lontanamente. Il prossimo.
Joueurs (Treat Me Like Fire) di Marie Monge
Una donna s’innamora follemente di un giocatore d’azzardo nei guai, che la trascina in un vortice pericoloso. Lei è così rapita da lui che è decisa a non porsi alcun limite, a non fermarsi davanti a nulla pur di conquistarlo.
Ti distrai mezzo minuto e i francesi piazzano l’ennesimo debuttone di una regista che con due attori mediamente noti al suo servizio costruisce un thriller super sexy e avvincente, condotto seguendo le regole ma in maniera che non farebbe sospettare un esordio.
Non tutti sono d’accordissimo, ma io voglio crederci, perché c’è sempre un momento in cui bisogna innamorarsi del film e dell’uomo sbagliato e quindi va bene, ci credo e lo aspetto, magari anche un po’ irrazionalmente. Se c’è un popolo che sa rendere la sensualità distruttiva al cinema poi, è proprio quello francese, quindi ci sto.
Leave no Trace di Debra Granik
Un padre e la figlioletta tredicenne vivono una vita paradisiaca e lontana dai ritmi imposti dal capitalismo nei boschi dell’Oregon, almeno fino a quando un tragico errore compromette per sempre le loro vite.
Ci ho messo un po’ a capire com’è che questo film avesse tante riproposizioni e tanta attenzione, poi ho connesso il nome familiare: Granik è la regista del bellissimo e selvaggio Winter’s Bone, il film che ci ha fatto notare per la prima volta una giovane Jennifer Lawrence. Pare che pure questo sia una discreta bomba, tornano a parlare di quella scelta o di quell’imposizione dovuta dalle circostanze che porta qualcuno a vivere immerso senza scampo nella natura, a confrontarsi con la brutalità che tira fuori negli uomini.
SEMAINE DE LA CRITIQUE
Wildlife di Paul Dano
Ispirato a un romanzo di Richard Ford, Wildlife racconta attraverso gli occhi di un giovane figlio il doloroso processo di separazione dei suoi genitori.
Paul Dano è passato dietro la macchina da presa, dopo che il suo aspetto non conforme allo standard hollywoodiano l’ha fatto notare (eccome) giusto tra gli amanti degli attori caratteristi. A quanto apre il suo esordio dietro la cinepresa – pur con qualche impasse – è più che positivo e riflette le sue qualità attoriali. Il tono del film e le performance degli attori (tra cui è molto apprezzata Carey Mulligan, eterna donna dolente del cinema statunitense) funziona più per sottrazione e minimalismo, con le piccole e grandi tragedie di una che si separa lette attraverso la sensibilità di un ragazzino, intense ma mai urlate. Probabilmente lo vedremo anche noi e tra nemmeno troppo tempo.
Egy Nap (One Day) di Zsófia Szilágyi
Ventiquattro ore nella vita di una moglie e madre intrappolata da una routine quotidiana e incessante di impegni, incombenze, stress, alla ricerca di un’intimità con sé e di coppia di difficile ottenimento.
Suona proprio come l’incipit perfetto di un film bulgaro? ucraino? romeno? ungherese?, ecco, ungherese, di quelli da circuito festivaliero.
Non fraintendetemi, in quel blocco europeo da questo genere di storie sono in grado di tirar fuori grandi cose, vedi la new wave del cinema rumeno. Non ho ben capito poi cosa ne pensi in concreto la critica, ma non pare sia tremendo. Forse è solo estenuante per lo spettatore almeno quanto lo è la routine quotidiana che racconta. Si vedrà.
Sauvage di Camille Vidal-Naquet
Un viaggio brutale e senza sconti nel mondo della prostituzione maschile, con protagonista un uomo che cerca disperatamente l’amore.
Ho dovuto penare due giorni interi ma finalmente ho trovato il primo film che non sto nella pelle e non vedo l’ora di vedere, grazie di esistere Semaine.
Innanzitutto perché pur essendo stato divisivo, tutti riconoscono a Camille Vidal-Naquet – docente di cinematografia – che è sin troppo bravo per essere un esordiente.
Secondo perché quando definisci un film pasoliniano a partire da questa trama e con queste foto, io sono già lì. Terzo perché pare che la performance di Félix Maritaud (quello che mi pare di aver già adocchiato in 120 BPM) sia fenomenale. Yesssssa.
Fuga (Fugue) di Agnieszka Smoczynska
Cosa accadrebbe se il male si formerebbe dentro cosa accadrebbe per fosse possibile per una madre dimenticare completamente l’esperienza del parto?
E qui ci dividiamo in cinefili e irriducibili cinefili, quelli che alla vista del nome di Agnieszka Smoczynska hanno pensato “la tipa di The Lure” noto anche come “il film folle polacco con le sirene. La locandina e la sinossi non lasciano dubbi sul fatto che sia proprio lei.
Purtroppo pare proprio che se l’altra volta la pellicola fosse sfuggita un po’ di mano in un delirio delirante a livello visivo e cinematografico, stavolta la tecnica sia abbastanza ineccepibile ma manchi un po’ la storia. Talenti di questo tipo sono difficili da calibrare, quindi toccherà pazientare ancora un po’.
Kona fer í stríð (Woman at War) di Benedikt Erlingsson
La versione femminile di Don Chisciotte in cui una donna combatte la sua battaglia persa in partenza contro i tralicci dell’elettricità islandesi.
Niente, questo ve l’ho messo solo per capire che quando leggi le sinossi della roba che passa in Semaine ogni anno, poi diventa davvero difficile sorprenderti, perché hai letto davvero di tutto.
Se voi puntate ad essere un hipster di prima qualità, di quelli che vogliono veramente citare cose sconosciute ai più come missione di vita, allora il vostro Wes Anderson (palette cromatica inclusa) dovrebbe essere Benedikt Erlingsson, non Wes Anderson (che è troppo inflazionato, ma potete comunque andare a vedere i suoi film di nascosto insieme alle masse). Oppure fatevi un giro con me a Locarno, che lì di film che poi non vedrà nessuno ce ne sono a bizzeffe.