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Il 21 giugno 2018 si è tenuto al Teatro Franco Parenti di Milano un incontro pubblico con ospiti Luca Guadagnino e André Aciman. L’autore e il regista di Chiamami col tuo nome si sono confrontati sulla creazione e l’adattamento della storia di Elio e Oliver, raccontando aneddoti, segreti di lavorazione, dietro le quinte e sviluppi del progetto diventato poi un successo globale. Ha moderato l’incontro la giornalista di Vanity Fair Paola Jacobbi. Questa è la trascrizione integrale dell’evento. Come sempre prendete e godetene tutti condividendo con agio testi e foto; basta linkare questo pezzo come fonte, segnalandolo nei commenti. 

Qualche anno un amico mi disse che aveva appena letto un libro ed era rimasto spaesato. Il libro era Chiamami col tuo nome, che era appena uscito per Guanda in Italia. Mi aveva molto colpito l’utilizzo di questo termine, spaesato, che esiste solo nella lingua italiana. Trovo che sia una scelta lessicale interessante, perché una delle qualità del libro è di riportarti in un paese, quello dell’adolescenza, che da adulti non si visita più. L’incontro tra questa visione e l’occhio di Luca ha creato la tempesta (ormonale) perfetta.

La prima domanda è per André Aciman: come è nata l’idea di questo adattamento cinematografico e come si è svolto questo processo per tempistiche e modalità?

AA Di tanto in tanto ricevevo notizie di cosa stesse succedendo, dei progetti di adattamento abortiti in corso d’opera. Ero scettico, non ci credevo si sarebbe mai arrivati in sala. Quando mi hanno detto che avevano scelto una persona così viscontiana come Luca come regista mi sono detto “non posso essere così fortunato, non succederà mai”. La mia agente poi ha rincarato “Senti, finché non cominciano a girare, il film non esiste”.
Poi è arrivato quel mese di maggio e ho saputo che si era cominciato a girare in Italia. Ho pensato a quel punto che il film si sarebbe fatto, ma mai mi sarei aspettato un successo del genere.

Cosa poi ti è piaciuto del film? Cosa ti piace del suo cinema?

AA Sapevo già cosa mi sarebbe piaciuto, avendo visto Io sono l’Amore. Apro una parentesi, sono andato a vedere con mia moglie a visitare Villa Necchi Campiglio, dove è stato girato quel film: Luca, non è così bella come l’hai resa tu!
Amo molto la sua allure viscontiana, da La caduta degli dei. Sapevo che era la persona perfetta per tirar fuori l’atmosfera del romanzo, infatti poi è riuscito anche a trovare la casa ideale dove girarlo.

A un certo punto B è diventata C, la Bordighera del libro si è trasformata in Crema.

LG Leggendo il romanzo ho capito subito che B era Bordighera. A un certo punto nei lunghi anni di preproduzione del film, quando ancora il progetto doveva essere girato da un altro e io lavoravo solo come produttore,  abbiamo visitato Bordighera e anche la villa che aveva ispirato André.
Poi però sono diventato anche regista e nel frattempo io avevo girato diversi progetti, due dei quali in Liguria. Io sono l’Amore ha delle sezioni ambientate tra Sanremo e le valli sovrastanti, Cuoco Contadino lambisce Bordighera, in A Bigger Splash racconto persone che oziano di fronte al mare. Non me la sentivo di tornare a parlare degli stessi ambienti e argomenti.

Vista di Bordighera – Claude Monet

Perché proprio Crema?

LG Non inventerò una spiegazione poetica. Stavo preparando Suspiria ed è già un’operazione molto faticosa. Mi sono detto: “almeno uno dei due lo faccio andando a dormire ogni sera nel mio letto”. Certo poi possiamo dire che per me la Pianura padana è uno shock culturale generato dal cinema di Bertolucci, poi Antonioni e poi ancora Bertolucci. Il mio cinema è figlio di una rielaborazione di ciò che vedo nella realtà, perciò per me era qualcosa di molto forte era tornare nelle terre piatte di Bernardo.

LG Un altro elemento forte è stata la casa. Secondo me il romanzo racconta in maniera molto precisa di un certo tipo di contesto socioculturale, che viene ulteriormente espanso nella sezione romana in cui i due protagonisti frequentano gli intellettuali dell’epoca. Tra l’altro io la classe intellettuale romana dell’epoca l’ho conosciuta da poco più grande di Elio, quando a 22 anni (nel 1992) mi infilavo in situazioni di quel tipo.

Cucinavi a casa di Laura Betti.

LG Esatto. Per raccontare quel tipo di classe intellettuale e sociale era necessario che loro fossero naturalmente espressione di un luogo che ne rispecchiasse il modello di pensiero. Al cinema è difficile mettere in scena le diatribe intellettuali della letteratura.
La casa – che avevo visitato in un momento di megalomania in cui volevo fare il signorotto di campagna – mi era rimasta in mente per il film, anche quando non ne ero ancora diventato il regista. Alla fine però a crederci sembravo essere solo io. Quando il film poi si è fatto veramente siamo riusciti ad ottenerla ed è diventata il quinto, sesto personaggio del film.

La casa è fondamentale.

AA C’è gente che la va a visitare.

LG Ci tengo perché nel film abbiamo deciso di non fare quello che si fa di solito, un establishing shot, una sequenza che spiega dove è svolta la storia. Noi non vediamo mai la villa nella sua interezza, fino all’ultimo momento, quando ormai è troppo tardi, quando è arrivato l’inverno. Non doveva essere un background estetico quanto piuttosto un luogo etico per i personaggi.

Ho letto che hai pensato più volte a Pasolini e Teorema come ispirazione mentre scrivevi il libro.

AA Ho visto Teorema quando avevo 17 anni, con mio padre. È la storia di questi personaggi che si innamorano tutti di un giovane. Ultimamente però mi hanno chiesto di scrivere una prefazione per Il giardino dei Finzi Contini di Bassani e quindi l’ho riletto dopo 40 anni. Quando sono arrivato a quel bel dialogo tra il padre e il figlio mi sono detto “no, non mi dire che l’ho copiato inconsciamente!”. Mi è veramente venuto uno spavento, per fortuna poi in quel romanzo il dialogo si conclude con il padre consiglia al ragazzo di andare al bordello.

André ci ha parlato dei suoi gusti cinematografici, Luca, parlaci dei tuoi gusti letterari. Cosa ti ha ricordato questo libro?

LG A me ricorda gli stream of consciousness di Proust, così com’è tutto avvolto attorno all’io narrante di Elio, alla sua lingua. È un’esperienza unica in questo senso.

André, i tuoi personaggi te li immaginavi come gli attori che poi li hanno interpretati?

AA Non me li immaginavo così per niente,  tra l’altro non conoscevo nessuno dei due interpreti. Dopo aver visto il film, non riesco più a ricordarmi le mie versioni. Io da autore dovrei ricordarmi chi erano prima: invece sono spariti completamente!

Luca, raccontaci qualche retroscena di come li hai scelti.

LG Timothée Chalamet è stato sottoposto a me e ai miei produttori dal suo agente, che è sposato con uno degli stessi. Aveva appena compiuto 17 anni e aveva solo fatto una serie TV intitolata Homeland. Andammo a pranzo insieme e istantamente mi fu chiaro che lui era Elio. Lui è newyorkese, quindi ha un senso di contemporaneità molto forte, inoltre è molto giovane quindi è esperto della vita metropolitana ma anche ingenuo e naif… almeno lo era. In questo senso erano della caratteristiche molto forti su cui costruire Elio, che non volevamo trasformare in un topo di biblioteca.
L’immaginario del giovane intellettuale un po’ rigido con l’occhialino è quanto di più lontano dalla realtà.
Quando stavamo girando Io sono l’Amore una sera è venuto a trovarci un amico che ha portato un conoscente. Era Daniel Harding, il grande direttore d’orchestra. All’epoca avrà avuto 33 anni, era già riconosciuto come un maestro della direzione d’orchestra, ma non aveva nulla dell’aura del maestro alla Muti. Parlava di calcio, di cose molto concrete.
Io cercavo anche quel tipo di personalità che Timothée aveva in più, essendo per metà francese e madrelingua. Dato che Elio è metà americano e metà europeo, abbiamo sfruttato la realtà di Timothée per il film. Abbiamo pensato che quindi la madre francese potesse vivere da tempo in Italia e quindi avere un figlio trilingue.

LG Io sono stato innamorato di Armie Hammer per lungo tempo, dal momento in cui lo vidi in The Social Network. Lo dico, non ho problemi: ne ero innamorato. Mi ha colpito da subito. C’è qualcosa in lui fuori dal tempo, di magico. È un grandissimo attore, davvero straordinario, è capace di scandagliare sé stesso in maniera molto sottile, è molto preparato. Ha fatto parecchi film, alcuni sono andati male come Lone Ranger, The Man from U.N.C.L.E..
Tra l’altro Lone Ranger è un film molto bello, di cui lui è la star, una grossa produzione da 200 milioni di dollari che lui tiene sulle spalle perfettamente. Era anche in J. Edgar di Clint Eastwood, in cui interpretava l’amante di Di Caprio… è davvero un grandissimo attore. Quando ho preso io la regia del film ho detto: “voglio Armie Hammer”.
Mi ricordo che presi appuntamento telefonico con lui per parlare della sceneggiatura e la prima cosa che mi disse fu che aveva molta paura di questo ruolo che mostra molto l’intimità di sé. Mi disse che non sapeva di essere in grado. Alla fine di quella telefonata durata un’ora lui mi disse che ci saremmo visti in Italia per girare qualche mese dopo. Tempo dopo ho scoperto che lui, che è sempre molto gentleman, mi aveva chiamato per dirmi che non voleva fare il film.

Per te l’Italia è una specie di musa?

AA Non lo so, di certo è un paese che mi piace moltissimo, ogni anno ci torno almeno due volte. Mi fa piacere anche parlare l’italiano, anche se lo faccio male. Quando devo scrivere di mare, d’estate, della pelle della gente, non posso pensare altro che all’Italia. Se devo scrivere una storia in cui tutti i sensi siano coinvolti, non posso farlo ambientandola in Francia o in Inghilterra. Volevo scrivere un libro su una casa che mi piaceva, da questo impulso è nato il romanzo. Tra poco dovrebbe uscire un mio libro con una scena ambientata su un autobus: anche quella nella realtà è successa in Italia.

Luca, come hai trasformato le parole del libro nelle espressioni degli attori?

LG È un processo contemporaneamente più e meno misterioso di come appaia. La regola più importante è lavorare sempre con bravi attori. Non ha nulla a che vedere con la tecnica, anzi, quelli che la conoscono sono i peggiori attori, potrei nominarne anche di famosi. Un bravo attore o una brava attrice sa farsi attraversare dalla macchina da presa, rimanendo senza difese, con grande intuitività.
Tutti i nostri attori erano molto bravi, si sono letti con grande intelligenza il romanzo, tanto la sceneggiatura è sempre un oggetto transeunte che c’è e non c’è, è morto nel momento in cui cominci a girare e viene riscritta con il montaggio. In questo caso quello che doveva rimanere era il romanzo. Il mio compito era quello di far sentire gli attori a loro agio, protetti. Torno sempre a Bertolucci, che dei suoi film dice che più che racconti dei personaggi che scrive sono documentari degli attori che li interpretano. Io credo moltissimo in questa affermazione di Bernardo e nel mio piccolo tento di fare la stessa cosa.

Per creare questo mondo colto in cui tutti leggono così tanto a cosa ti sei ispirato?

AA A un po’ di tutto, è sempre così. Non mi arrendo a me stesso, vado anche a cercare altrove, rubo dappertutto e faccio bricolage…tranne dai Finzi Contini. (ride)
Da giovane ho vissuto un periodo molto infelice a Roma, i soldi erano pochi e potevo comprarmi un solo libro a settimana. Ne acquistavo uno, lo leggevo da cima a fondo, la settimana successiva ne prendevo un altro. Leggevo sempre e solo classici, cosa che continuo a fare anche adesso. Anche io non nominerò i romanzieri ancora in vita che non leggo e non stimo, come Luca.
La lettura mi ha salvato. Mio padre, che anche lui aveva letto quasi tutto, mi spronava a uscire, a trovare una ragazza; questo l’ho trasferito nel romanzo, nel padre di Elio.
Anche io come scrittore non volevo un topo di libreria per protagonista, volevo un ragazzo che adora la vita e le ragazze e quando ama un uomo lo fa con completa disinvoltura, non lo nega a sé stesso. Però volevo che leggesse, che fosse influenzato dagli autori e dai poeti che leggeva, che li nominasse, tanto da far dire ad Oliver “come puoi conoscere questa cosa che io ho scoperto un mese fa?”

Tutto questo è possibile anche perché stiamo parlando degli anni ’80. Oggi sarebbe possibile?

AA Non volevo che il mio personaggio avesse degli schemi. Telefonini e PC hanno cambiato la dimensione della gioventù, il modo di essere giovani oggi. Gli anni ’80 erano un periodo privo di tutte queste distrazioni.

Come sono stati i tuoi anni ’80 Luca?

Non ripeto quello che ha detto André ma lo condivido completamente: è vero che cinema e lettura salvano la vita. I miei anni ’80 sono stati molto solitari e ricchi di letture.

Parlaci un po’ delle scelte musicali del film, così importanti per un film d’epoca: qui ci sono tanti tormentoni di quell’estate.

LG Questo è un lavoro che ho fatto insieme al montatore Walter Fasano, con cui ho avuto un approccio molto meticoloso alla questione. Siamo riusciti ad avere dei documenti molto dettagliati con le programmazioni radiofoniche di quella zona tra giugno e agosto del 1983. Abbiamo poi incrociato i dati con le top ten dell’epoca, senza porci alcun limite. Abbiamo usato praticamente tutto quello che volevamo, tranne Loving the Alien di David Bowie. Ci sembrava quasi un po’ didascalico usare quella canzone per questo film, nei riguardi di Oliver.

C’è anche il walkman, che un po’ un simbolo, quasi una polaroid dell’epoca.

LG Sì, Elio lo usa per studiare la sua musica classica.

AA Posso fare un inciso? Quando mi hai raccontato che stavi per usare la musica che avevi commissionato per il film, mi hai detto che avevi delle canzoni di Sufjan Stevens. io sul momento ti ho detto “Sì, bello”, ma subito dopo ho telefonato ai miei figli e gli ho chiesto “Ma chi è Sufjan Stevens?”

LG E loro?

AA Lo mi hanno risposto “ma come non lo sai? È famosissimo!” Mai sentito.

LG È stata una convergenza straordinaria. Io conoscevo bene la sua musica, la trovo magnifica. Mentre eravamo in preparazione al film è uscito un numero della rivista di musica italiana Rumore con lui in copertina. In quella copertina è stupendo, ha un’espressione imbronciata ma questi occhi liquidi, trasparenti, che erano adatti per la storia di Elio e Oliver. Insomma, volevo lui, lo volevo nel film. Volevo facesse il narratore, il cantastorie. Il film si sarebbe sarebbe fermato mentre gli altri giocavano a pallavolo, lui sarebbe arrivato in scena, avrebbe fatto il punto della storia, avrebbe cantato una ballata, poi sarebbe ripreso il film.
Me l’ero pensata a fondo questa versione e dopo una lunga trattativa col suo management sono riuscito a concordare un contatto. Io mi trovavo in Australia da mia sorella che vive lì, lui era dall’altra parte del continente australe per un concerto.
L’ho chiamato e gli ho fatto un lungo monologo spiegandogli cosa volevo e lui mi ha detto: te lo scordi non farò mai un’apparizione in un tuo film, ma proprio scordatelo. Se vuoi però ti scrivo una canzone.
Dopo tre mesi in cui abbiamo parlato dei personaggi e ci siamo sentiti, mi ha mandato tre pezzi: due inediti e un riadattamento di Futile Device.
Poi abbiamo provato di nuovo a chiedergli di partecipare alle riprese del videoclip…e ce lo siamo scordati. L’ultima l’ha fatta veramente: gli ho chiesto di venire agli Oscar e alla fine è venuto, anche se non voleva.

Neanche agli Oscar?

LG Lui è molto timido, è un grande artista. Io sono un clown, un cialtrone, un impostore; quello è un vero artista.

Ho letto che stato girato cronologicamente.

LG Sì, quasi del tutto. Le condizioni rendevano semplice farlo: avevamo sempre a disposizione la casa, gli attori c’erano tutto il tempo. Quando non puoi farlo è perché vuoi accorpare le location o perché un attore ti concede solo un numero dato di giorni a disposizione per le riprese. Qui era tutto lineare, molto analogico.

Adesso possiamo parlare della pesca.

LG Ne parla lui.

AA Non so da dove sia uscita, è una cosa che francamente io non ho mai fatto.

LG Io sì.

AA Io pensavo all’albicocca, ma è troppo piccola. Si parlava di albicocche nella scena dell’etimo, un passaggio che mi diverte molto, poi lui prendere una pesca e va in camera…non so che mi sia preso. Ho seguito quell’impulso. Il romanzo è scritto tutto così, scopro all’improvviso che farà il personaggio e lo seguo.
Sul momento mi sono detto d’accordo “vediamo che farà, non andremo fino in fondo”, invece sì, siamo andati fino in fondo. La scena mi è venuta fuori proprio così, scrivendo in un linguaggio ovidiano, è una metamorfosi di una persona ridotta in una pesca per chissà quale peccato.
La differenza tra libro e film è che nel libro Oliver si mangia la pesca, nel film non lo fa. Poi c’è la musica, quel brano di Battiato, poi ci spiegherai perché lo hai scelto.

LG Io lottavo con quella scena, non ci credevo a livello cinematografico. Il ridicolo involontario è una cosa pericolosissima al cinema. Poi mi chiedevo se ci fosse qualche errore a livello anatomico, perciò ho dovuto provare per capire. Poi lo dico sempre, chi mi ha visto fare queste scenette già lo sa: ho provato, sono andato da Timothée (a cui avevo detto che non avremmo girato la scena) e gli ho detto Wno, la scena si fa perché ci ho provato e si può fare concretamente”. Lui mi ha risposto che lo sapeva benissimo, perché ci aveva già provato pure lui.

AA Voglio sapere di Radio Varsavia.

LG È una canzone stupenda.

AA Eh, lo so.

LG Proprio come quando aggiungi o togli un ingrediente da un piatto. Abbiamo provato diversi pezzi del periodo, canzoni importanti per me e Walter. Quando è partito il pezzo grazie all’artificio del cinema, è stato perfetto. In quel frangente è stato molto bravo anche Timmy, che essendo statunitense non aveva idea di cosa fosse Radio Varsavia. Lui non l’ha neanche sentita, ha fatto capire che un brano della sua vita.

LG Sul fatto che Oliver non mangi la pesca, devo essere sincero: abbiamo girato diversi ciak di quella sequenza e ognuno era bellissimo ma uno eliminava l’altro. Quello che abbiamo usato ci sembrava il più compiuto ed è proprio quello in cui Elio gli fa buttar via la pesca, ma in altri la mangiava interamente. Un giorno magari ci facciamo un cortometraggio.

AA Quella scena mi è piaciuta moltissimo, l’enfasi viene messa sull’abbraccio e sulle lacrime di Elio. È meglio che nel romanzo.

Sufjan non ha voluto girare una scena del film, ma André ha interpretato un ruolo. Ci raccontate come è andata?

LG André e sua moglie Susan sono venuti a trovarci sul set mentre giravamo la scena della confessione vicino al monumento dei Caduti. Pochi giorni dopo avremmo dovuto girare quella scena e osservando lui e il nostro produttore Peter Spears ci siamo detti “forse sono loro gli ospiti che vengono a cena”. La nostra costumista ha cercato subito questi abiti estivi da dandy, a righe, con le misure giuste.

AA Abiti ridicoli! Quando mi hanno detto che dovevo interpretare una parte mi sono detto va bene, farò il cuoco. Non volevo imparare delle battute.

LG Sei bravissimo. Ti sei rivisto molte volte?

AA Poche. Ho fatto questa parte e mi sono detto va bene, vengo punito per questi due personaggi ridicoli, che avevo creato per fare da contrasto ai due protagonisti che si preparano a trascorre la prima notte assieme. Ho acconsentito a patto di non dover imparare nulla e Luca mi ha detto “Dì pure quel che ti pare”. L’abbiamo fatto 3,4 volte ed era fatta.

Ho letto una tua intervista in cui parlavi del tuo periodo in Egitto in un periodo fortemente antisemita, che ha influenzato il fatto che Elio e Oliver siano ebrei, in netta minoranza nel luogo in cui si trovano.

AA Sono ebreo ma non sono mai stato praticante, non mi piacciono le religioni. Sono superstizioso, non religioso. Volevo che fra loro ci fosse già un legame, un elemento in comune, anche se loro non condividevano nient’altro. Poteva essere il fatto che fossero ebrei, il fatto che avessero un cane che amavano molto, sarebbe stata la stessa cosa. Un rapporto esisteva già, bisognava indagarlo di più.

AA Quando andavo a scuola in Egitto c’erano pochi cristiani, la maggioranza era musulmana e loro mi consideravano come un nemico dello Stato. A 13 anni poi sono stato trasferito alla scuola americana dove la gente mi accettava credendo che fossi protestante e io mi son ben guardato dal negarlo. Nella scuola egiziana ero l’unico ebreo e non ero felice, non mi sentivo mai a mio agio quando mi rapportavo con gli studenti musulmani. Mi sentivo sempre unico, solo, desideravo moltissimo un’amicizia unica, intima. Ho trasferito quel desiderio, rendendolo sessuale, nel romanzo.

Per te era importante questo tema dell’ebraismo?

LG Sì. Era assolutamente fondamentale. Uno dei potenziali registi del film voleva farli diventare protestanti, ma io lo trovato assurdo, quello è il loro legame, il loro riconoscersi e odorarsi. Mi sembrava molto commovente e molto bello.

Parliamo del discorso del padre, che tutti hanno interpretato in maniera differente.

LG La scena l’abbiamo presa fedelmente dal romanzo, essendo una scena straordinaria in partenza. Anche la messa in scena è pacata, ha solo un paio di tagli. Avendo girato cronologicamente, c’era già un sentimento di malinconia molto forte perché le riprese erano agli sgoccioli, gli americani e i francesi si preparavano a rincasare.
Michael Stuhlbarg, che è un attore incredibilmente generoso, aveva molto lavorato al servizio di questi personaggi e ogni giorno che passava si avvicinava il momento in cui il punto di vista sarebbe passato a lui e quindi era molto concentrato. Si è sentito un senso di rispetto molto profondo tra attori, come succede a teatro, con l’attore più anziano e quello più giovane che si guardano con rispetto e con quel senso di passaggio della conoscenza.

LG  Michael Stuhlbarg è un attore che ho scoperto nel film dei Coen A simple man, dove interpretava questo stupendo personaggio ebreo. Lui è in ogni film, quest’anno era in sette film, era ovunque. Andavamo in un dibattito insieme e poi io tornavo indietro e me lo trovavo a un altro dibattito col pubblico, per un altro film. È un attore che ho sempre desideravo incontrare e con cui volevo lavorare.
Lui rifiuta quello che sto per dire ma secondo me è vero: è talmente immerso nel personaggio che racconta mentre lo sta facendo che Michael scompare. Infatti quando l’ho rivisto dopo mesi a New York, mi è sembrato strano, diverso. Non era più Sam Pearlman, era un altro personaggio che stava girando, o forse sé stesso. Comunque è magnifico, si lavorerà tante altre volte insieme.

LG Amira Casar è una mia amica, l’ho conosciuta a un festival anni fa e abbiamo sempre voluto lavorare insieme. Lei è un’attrice fantastica, ha lavorato con alcuni dei miei registi preferiti come Catherine Breillat.
Lei è un’attrice coraggiosissima, poliglotta, una grande interprete teatrale. Quando abbiamo pensato ad Annella e ci siamo presi la libertà di renderla francese, per me è stato automatico pensare a lei.

AA Per me ci sono due scene davvero importanti per me: quella della confessione e quella del monologo del padre. Per me quella è stata la scena più difficile da scrivere, l’ho fatto e non l’ho mai cambiata. Quello è mio padre, che mi parlava senza tabù e senza freni.
Nel film cambia l’inflessione che gli dà Michael. C’è un momento in cui Elio chiede “ma mamma lo sa?” e nel romanzo intendevo se la madre sapesse del rapporto con Oliver. Dopo il film le persone mi chiedono se intendessi che anche il padre avrebbe voluto avere un rapporto omosessuale. È una reazione del pubblico e io ci sono rimasto quasi male, perché davvero non me l’aspettavo.

È vero, anche a me è capitato che mi facessero questa domanda.

LG Quel monologo però è ambiguo, è davvero aperto ad ogni interpretazione.

AA Io però non sono un attore, non devo accettare la tua interpretazione. L’interpretazione mia è quella vera, quella degli altri è sbagliata.

Il film è stato molto amato e in tanti hanno scritto all’autore. Cosa ti scrivono?

AA Non ho mai ricevuto una critica nelle mail che ricevo ogni giorno. Le più belle vengono da due tipi di lettori. I primi hanno una certa età e si lamentano di non aver mai potuto parlare apertamente della propria sessualità come Elio fa con il padre, ne ho sempre ricevuto. Da quando è uscito il film ricevo tante missive da ragazzi tra i tredici e i sedici anni. Mi scrivono che loro ancora non conoscono l’amore, ma se ne avessero uno lo vorrebbero di questa qualità, intensità, intimità.
È molto bello ricevere queste missive perché io sono il tipo di scrittore che pensa sempre di aver sbagliato tutto e mi fa pensare che forse non l’ho fatto.
Una lettera che ho ricevuto 10 anni fa l’ho anche pubblicato: questa persona aveva comprato il libro in aeroporto e l’ho letto per tutto il volo, ma ho dovuto lasciarlo in aeroporto. Anche io come Oliver mi sono sposato, ho avuto figli. Mi faceva il nome del suo amante, poi morto di AIDS, ma non mi diceva il suo, perché non importava. Era una lettera anonima a cui non ho potuto mai rispondere, ma era la più bella che ho mai ricevuto. Era così ben scritta, ben pensata.

 

Domande del pubblico

 

Si farà un sequel?

LG Il romanzo ha una cinquantina di pagine che continuano la narrazione dalla fine dell’estate raccontata nel film ai successivi venti anni della vita dei protagonisti, arrivando alla costa orientale degli Stati Uniti. Quindi dato che siamo cinefili ci piace pensare che Oliver e Elio possano essere i nostri Antoine Doinel, che vive più vite nel ciclo cinematografico di Truffault.

La mosca nella scena finale sulle note di Visions of Gideon  che ronza attorno a Elio era voluta?

LG A Crema le mosche d’inverno ci sono, soprattutto negli interni, perché cercano di sopravvivere al freddo. Sarebbe facile per me dire che abbiamo addestrato una mosca, ma non è così. Dario Argento dice di averlo farlo per la scena della mosca sulla mano di Jennifer Connelly in Phenomena. Lui sostiene di averla legata a un filo invisibile per muoverla a piacimento.
Quando abbiamo girato c’era la mosca nell’inquadratura. Avremmo potuto cancellarla con il digitale in post produzione, sarebbe stato facile. Però, cito Bernardo ancora una volta dato che ripete spesso questa frase di Jean Renoir, il cinema deve lasciare la porta aperta alla realtà. Nel nostro caso la realtà era la mosca. Mi piaceva poi l’idea che fosse lì a ronzare intorno a Elio, come lui tentando di sopravvivere a quell’estate che non c’era più.

L’isolamento estivo nella natura che vivono i Pearlman richiama quello del Decameron di Boccaccio.

AA Laddove nel Decameron era la Peste, qui nel romanzo c’è AIDS.

LG D’altronde l’estate è il momento della sospensione. Per me era importante questa atmosfera sospesa, anche se comunque i giornali ci sono, raccontano di Licio Gelli che è scomparso, forse scappato.

Perché ha scelto di far narrare la storia a Elio e non a Oliver?

AA Oliver è un personaggio che trovo attraente perché non riesco a capirlo, non ho mai avuto quel tipo di energia. Il romanzo però è costituto dalla voce di Elio. Se raccontasse Oliver la stessa storia, la sua voce sarebbe hemingwayana, ovvero superficiale, inadatta ad esprimere il sentimento in maniera profonda quanto fa Elio.

Come ti sei adattato al saltare da Suspiria a Chiamami col tuo nome e poi viceversa?

LG Ho lasciato il cappotto e indossato pantaloncini corti e tshirt. Inoltre non hai visto Suspiria, perciò non puoi sapere che atmosfera si respiri in quel film.
Spero davvero di non dover rimanere inchiodato a un solo tipo di film o un solo ambiente nel mio percorso di regista.

Come mai Vimini non compare nel film?

LG Manca perché per rispettare un romanzo bisogna tradirlo, non avrebbe pagato testamento alla sua bellezza trasponendolo letteralmente.

Una fan russa spiega di essere venuta nel Nord Italia per vedere le location del film e chiede come mai siano così distanti tra loro.

LG Devo confessare che capisco l’affezione che ha suscitato il film, ma questo amore feticista che arriva a voler possederne i luoghi della mia città natale speravo non ci fosse. Noi creiamo un’illusione come degli artisti circensi e vorrei che questa rimanesse tale.
Il fatto che Oliver e Elio vadano da una parte all’altra dei dintorni pedalando qualche chilometro per andare in banca o alle Gaverine è perfettamente giustificabile dalla geografia dei luoghi: quando fanno il percorso più lungo è perché vogliono trascorrere più tempo assieme.

Che rapporto ha con i personaggi maschili del romanzo?

AA Io capisco e amo tutti gli uomini del romanzo, sono tutti parte di me, tranne Oliver. Lui rimane un oggetto misterioso, è quasi un estraneo per me.

Perché le Valli Orobie hanno sostituito Roma?

LG È stata una scelta diametralmente opposta, perché un posto è pieno di gente e l’altro è vuoto. Mi interessa molto la relazione tra personaggi e spazio naturale, nel mio cinema la natura ha un ruolo molto importante.

Ci racconti qualcosa del sound editing del film.

LG Abbiamo lavorato in maniera analitica, con un grande tecnico che si chiama Jean-Pierre Laforce. Siamo alla seconda collaborazione insieme, ma lui negli ultimi 20 anni  ha lavorato a tutti i film di Haneke, è un grande professionista.

Questo video raccoglie in diversi spezzoni gran parte dell’incontro. 

Altre letture: 

  • La trascrizione dell’incontro di Guadagnino col pubblico al Cinemino di Milano QUI
  • La recensione del film QUI
  • La recensione del libro QUI