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Pensavo già di dover scavare nelle solite nebbiose cronologie cinematografiche per tirar fuori un po’ di cinema queer e orgoglioso di esserlo con cui celebrare anche qui sul blog il Mese dell’Orgoglio ed ecco che invece tra le uscite recenti si son fatti avanti ben tre film (di cui uno italiano!) titoli a trarmi d’impiccio.
A riprova che sì, l’estate è il tempo dei ripescaggi e sì, la distribuzione di queste pellicole rimane una faccenda ardua, ma la produzione dell’ultima annata è stata così ricca, ma così ricca che qualcosa continua ad arrivare anche da noi…anche se non sempre ne vale la pena. Suspense!

THELMA di Joaquim Trier
Thelma è una giovane matricola appena sbarcata a Oslo per frequentare l’università, dopo un’infanzia caratterizzata da una rigida educazione religiosa, trascorsa in una casa isolata tra le nevi norvegesi sola con i genitori, che la tengono sotto rigido controllo telefonico. Conoscerà un repentino e travolge risveglio dei sensi dopo aver incontrato l’affascinante Anya e il mondo laico e trasgressivo della città. Colta da misteriose crisi epilettiche, Thelma comincerà a fare luce sui suoi veri desideri e su un passato familiare che i genitori le hanno taciuto.
Non prolungo oltre le vostre ansie: il film queer che più mi ha deluso nell’ultima annata è quello che si presentava in pompa magna come la versione autoriale e raffinata di un cult horror anni ’70 come Carrie di Brian De Palma. Dalla premiata coppia del cinema norvegese Vogt&Trier era lecito attendersi di più, soprattutto perché il punto di partenza è davvero ambizioso. Sia a livello narrativo sia a livello registico invece Thelma è gradevole ma estremamente superficiale, salvato dalla vacuità del suo sguardo dall’intensità dei volti e delle interpretazioni delle giovani protagoniste.

C’è davvero tanto potenziale che il film accenna e poi mette da parte, quasi non gli importasse veramente di vedere dove si andrà a parare dalle premesse che pone. Esempio: è interessante che per narrare una certa recrudescenza religiosa e ortodossa nella laicissima Norvegia il film scelga la contrapposizione tra spazio plasmato dall’uomo e sconfinato orizzonte naturale, trasformando i genitori religiosissimi deviati sadici ma in un miscuglio ambiguo di sincera devozione e intrasigenza religiosa, ammantata persino di una certa ragionevolezza. È un bello stacco dalla madre pazza furiosa, violentissima e abusiva di Carrie, sì, peccato che al momento di risolvere il suo rapporto con i genitori Thelma ora si accanisca ora si dimostri clemente, in maniera irrazionale e mal spiegata rispetto al comportamento tenuto dalla madre e dal padre. Se il padre rimane interessante per il conflitto tra amore per Dio e controllo sulle donne di casa che si agita in lui, la madre è un’occasione davvero sprecata. Come personaggio è piuttosto lineare e tradizionale, ma è lo spunto che si porta dietro ad essere potenzialmente enorme.

Spunto passato in sordina di fronte a questo inneggiare all’omoerotismo affettuoso ritratto da Trier. Vero, stavolta non c’è quello sguardo maschile e un po’ morboso a seguire i tentennamenti amorosi delle ragazze, però che mancanza di erotismo sconfortante, in cui tutto più che tenero diventa educato. Il problema del film sta tutto lì: è così pulito nelle immagini (tanto da chiedersi: valeva davvero la pena di scomodare un formato Cinemascope che passa quasi inosservato?), fa i suoi bravi compitini con le allegorie religiose, i simboli sessuali e il fottuto cervo metaforico (forse la scena migliore dell’intera pellicola), assume un tono molto minimal e molto hipster, ma di fondo non ha niente di davvero incisivo da dire. Tanto che lascia allo spettatore il compito di trovare il brivido sinistro su cui si fonda la storia: quello tra Anya e Thelma è vero amore o – come suggerito da alcune svolte narrative – la realizzazione dell’impossibile smania adolescenziale di veder realizzati i propri desideri, di veder scomparire i propri genitori? Se l’intento era quello si spiegherebbe l’assoluta trasparenza del personaggio di Anya, che sembra mancare di volontà propria (appunto). Quindi viene da chiedersi: la madre di Thelma prova veramente quell’astio crescente verso la figlia o è solo la convinzione della ragazza? Ecco, unite i puntini da voi per trovare il grandioso film che non parla d’amore, bensì del desiderio erotico, di quello di possesso, della fantasia e del libero arbitrio.

Film che Thelma è forse in potenza, tanto che appunto, viene lodato come tenera storia d’amore. Sia chiaro: l’idea di tramutare un incipit molto film pazzo con le lesbicate e le scene splatter in qualcosa di delicato e raffinato non è male, ma anche questo cambio richiede audacia e convinzione. Thelma è sciapo, smorto come la sua palette cromatica.
Immaginate se il risveglio di Thelma ve lo avesse raccontato qualcuno dalla visione più maschilista e tradizionale, ma che la sensualità sa dove stia di casa: un Oliver Assayas (per rimanere in zona lesbochic), un Paul Verhoeven (per rimanere in zona brivido lungo la schiena), un François Ozon (che dell’omoerotismo sensuale è un campione) e capirete come Thelma sia un’occasione sprecata sull’altare dell’essere educati, del tentare di essere arditi chiedendo permesso e per piacere.

LA TERRA DI DIO di Francis Lee
Johnny Saxby è un giovane allevatore con un padre zoppicante e una madre burberissima che di giorno di occupa delle sue vacche con scorbutica ostinazione, di notte si devasta di alcool al pub locale. L’epitome del ragazzo scorbutico e introverso delle zone rurali dello Yorkshire, la terra di Dio. Con l’aumentare del lavoro nell’azienda di famiglia assumerà per alcune settimane un aiutante romeno di nome Gheorghe, che lo aiuti nella stagione dei parti delle pecore in cambio di una paga e un alloggio in una sgangherata roulotte. Due giovani uomini soli a badare ad animali di allevamento in una terra che sa essere tanto bella quanto inclemente…il resto è la solita storia, o forse no.
L’altro Chiamami col tuo nome, quello che sancisce impietosamente cosa significhi avere dietro una major come Sony Classics e cosa implichi non averla. In Italia vuol dire essere distribuito in due copie sull’intero territorio, concentrate nell’area milanese. I punti in comune tra le due pellicole sono tanti e tali che si può stilare quasi un decalogo dei passaggi obbligati per un film omoerotico autoriale prodotto in Europa nel 2017: il feticismo per un capo d’abbigliamento dell’amato, l’abluzione nelle fredde acque di una fonte, la campagna senza tempo come orizzonte unico della passione, il partner emotivamente più maturo che deve pazientemente tollerare gli estremi emotivi di un compagno adolescente per età o per immaturità (santo Gheorghe subito).

La distanza a livello formale è però notevole, così come l’esposizione del lato queer e sessualmente esplicito della storia. E ad essere maliziosetti (e quando mai io mi esimo dal farlo), potrebbe dipendere dalla presenza di una major e da contratti che vincolano al millimetro l’esposizione di corpi e membra. Non è un problema per Francis Lee, fortunatamente in grado di esplorare la specificità del rapporto tra i due rudi e intensi protagonisti, senza necessità di glissare e passare un’intero tour promozionale a depotenziarne la carica LGBT proclamando che l’amore non ha sesso, il brivido è lo stesso, o forse un po’ di più (cit.). Insomma, La terra di Dio è più esplicitamente queer per tocco e problematiche, ma non certo perché l’assolata campagna padana ponesse meno insidie all’omoerotismo della spoglia e inclemente distesa d’erba dello Yorkshire. Semplicemente qui c’è un approccio più concreto (più onesto?) meno mediato da tante esigenze e da una certa trasfigurazione di un’esperienza specifica nell’universale del primo innamoramento.

Quello di Francis Lee è un film che sorprende soprattutto per dove decide di andare a parare, dato che le premesse ricordano molti film cult degli anni ’90/ inizio 2000. Il suo maggiore merito – oltre che ad azzeccare due interpreti dall’alchimia perfetta e dall’intensità emotiva giusta – è quello di prendere delle premesse quasi stereotipate per un gay drama anni ’90 e portarlo altrove, segnando nei fatti il cambio di passo, l’evoluzione sociale che fortunatamente da qualche parte e in una certa misura c’è stata. Gli anziani, burberissimi genitori del protagonista e il loro rapporto non sono poi meno toccanti.
Certo si sente lo scarto di esperienza e tocco autoriale tra Lee e Guadagnino (e per contesto agreste, scomoderei anche il solito, bellissimo Tom at the Farm) in favore del secondo, ma rimaniamo comunque su altissimi livelli. Il mio consiglio? Se vi è piaciuto God’s Own Land, date un’occhiata a Quando hai diciassette anni.


FAVOLA di Sebastiano Mauri
Mrs Fairytale se ne sta tutto il giorno nella sua linda casetta della provincia statunitense ad attendere il ritorno a casa di suo marito Stan insieme alla sua barboncina Lady. Sarebbe la perfetta casalinga anni ’50, tutta gonne a ruota e attenzioni dagli aitanti gemelli Stuard, non fosse che c’è qualcosa di surreale nella sua condizione: la sua barboncina è impagliata e lei ha chiaramente sembianze maschili, anche se nessuno sembra notarlo. La sua vita è una favola, che poggia però su una menzogna.
È così rinfrescante vedere un film che sfugge ai diktat queer di Ivan Cotroneo e Ferzan Özpetek, gli unici che paiono autorizzati in Italia a realizzare pellicole queer e solo a patto che lo facciano con toni e temi sempre uguali a sé stessi. Se c’è un elemento di cui Favola non difetta è il coraggio di osare sempre, l’ardire di produrre in Italia un film che ingaggia ad ogni scena un confronto con il surreale e il grottesco, territori davvero pericolosi se non gestiti con agilità e professionalità.

Qui il pericolo di cadere nel ridicolo è quasi sempre sventato da Filippo Timi, che il soggetto l’ha scritto e coltivato quando era ancora una produzione teatrale del Franco Parenti di Milano. È la sua interpretazione istrionica e volutamente sopra le righe a dare il ritmo a una pellicola fatta davvero di nulla, ma con grande furbizia produttiva. L’intera vicenda si svolge nella sgargiante casa di Fairytale, bardata come l’amica Emerald in splendidi costumi, esageratissimi anch’essi. Tanto splendore e cromatismo puro si trasforma in un’eleganza chic che rimedia in parte a un film che più economo di così non si può. C’è una sola scena in esterna (l’unica caduta nella melassa di un film che sa essere anche genuinamente cattivo e cupo) che rivela i mezzi poco più di sussistenza con cui Rai Cinema e Palomar hanno trasformato quello spettacolo teatrale in un film unico sul panorama italiano.

Certo la derivazione teatrale si sente eccome, anzi, non potendo evitarla il film ci gioca persino. Sebastiano Mauri cade insomma nel limite che aveva incontrato persino Polanski con Carnage ma ne esce con agio, con tagli improvvisi e strani fuorisincro che accentuano il senso di irrealtà della quotidianità di Fairytale, finendo quasi per suggerire allo spettatore cosa stia davvero succedendo. Penso di fargli un gran complimento dicendo che mi ha ricordato una certa ironia di Ozon, con uno stile però davvero tutto suo.

Certo, sullo scenario internazionale non è una pellicola imperdibile e la storia non è nemmeno così sorprendente per chi segue con costanza le uscite queer festivaliere e non, ma per cura produttiva (nei costumi c’è persino lo zampino di Prada: da soli meriterebbero un approfondimento) e per come spariglia l’orizzonte piatto del cinema italiano – atonale e monocromo – merita davvero grande considerazione. Qualche intoppo c’è, ma tanta spregiudicatezza in un film italiano è rara e merita plauso e sostegno.

Favola verrà distribuito nelle sale italiane da Nexo Digital il 25, 26 e 27 giugno 2018.