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Kornél Mundruczó è tornato e chi ha già avuto modo di entrare in contatto con il suo cinema sa che non è certo il tipo da girare un film che lascia indifferenti. D’altronde stiamo parlando di un cineasta così matto e così geniale da presentare qualche anno fa a Cannes White God, ovvero un film che racconta l’apocalisse canina generata dalla malvagità umana. Ovvero un film in cui Kornél Mundruczó ha girato decine di scene lavorando con quasi un centinaio di cani contemporaneamente.
Il sospetto è che è guidare il suo percorso creativo non sia tanto una narrazione, quanto la voglia di porsi una sfida tecnica per altri semplicemente inimmaginabile, all’intero dello scenario non certo florido di risorse economiche e tecniche del cinema ungherese. Con Una luna chiamata Europa il regista (insieme al suo malcapitato attore protagonista Zsombor Jéger) affronta una serie di stunt al limite dell’incredibile.

Il problema è proprio quello, il medesimo che affossava un’idea sulla carta geniale come quella di White God: se l’aspetto tecnico e la dimensione visiva sono tanto stupefacenti non finiranno per fagocitare l’attenzione del pubblico? Ancora una volta è esattamente quello che succede, confermando che il talento di regista di Kornél Mundruczó è sia il suo dono sia la sua maledizione.

Stavolta, se possibile, la premessa del film è ancora più esile e semplicistica della precedente. Dopo averci ricordato che tra le tante lune di Giove solo una – Europa – sembra adatta ad ospitare la vita, Kornél Mundruczó ci catapulta sulle rive di un fiume ungherese che un gruppo di migranti siriani sta tentando di guadare. La situazione si è fatta così disperata che all’arrivo della polizia i migranti si gettano volontariamente in acqua, finendo per morire annegati, oppure corrono a perdifiato per la foresta, nonostante gli agenti non si facciano troppi scrupoli a sparare loro. Lo stesso succede al giovane Aryan, che però non muore, nonostante le ferite gravissime riportate. Anzi, comincia man mano a levitare, fino a superare la cima degli alberi e librarsi libero nell’aria.

Il ragazzo ha perso di vista il padre e non ha con sé i propri documenti, per cui finisce in un centro di detenzione. Qui i suoi poteri verranno scoperti dal dottore più moralmente ambiguo del Centro. Anzi, il dottor Stern è talmente ubriacone, corrotto e menefreghista che anche il suo agire esteriore cela appena i suoi loschi traffici. Di fronte a questo “miracolo”, il medico penserà subito a come mettere a frutto il dono del ragazzo per fare soldi e saldare i propri debiti, senza curarsi troppo da ateo impenitente e cinico disilluso di cosa o chi diavolo sia il ragazzo provenuto da Homs che mangia solo patatine fritte, non beve alcol ed è figlio di un falegname.

Il consiglio è di assumere lo stesso atteggiamento spregiudicato del dottor Stern (Merab Ninidze), perché se ci si lascia distrarre da solo una delle domande che il film pone lungo la sua strada, si viene travolti dal vortice di incoerenze e vicoli ciechi su cui è costruito. Subito sotto la retorica superficiale e buonista con cui il cineasta ungherese affronta una tematica complessa ed epocale come quella della migrazione e della deriva dittatoriale e corrotta della sua nazione, s’intuisce quanto al film manchi una risposta o una presa di posizione chiara capace di ancorarlo e dargli un po’ di coerenza.

Perché scomodare l’Europa pianeta e l’Europa che respinge in migranti quando poi si prova la tentazione di buttarla su un facile spiritualismo tipo “la gente ha paura dei miracoli”? Il divino c’è davvero o Kornél Mundruczó lo utilizza in chiave allegorica e in maniera mercenaria per dire tutt’altro? Le risposte non arrivano e forse non ci sono nemmeno nella sua testa, tutto preso com’è dal giochino al rilancio di riprese oggettivamente mozzafiato, ma che a furia di ripetersi senza una storia a inframezzarle perdono la loro magia.

Se non avesse l’orgoglio del grande cineasta che non solo è bravo a girare ma anche a scrivere di Cinema e vita (come no, Kornél), ci sarebbe davvero da combinare per lui un incontro con un capoccia statunitense di qualche studios che gli metta alle calcagna uno sceneggiatore di razza. Libero dall’assillo di esprimere una profondità che non possiede come scrittore e coadiuvato da mezzi che non ha (anche se il risultato finale non tradisce le sue finanze contenute) Kornél Mundruczó sarebbe un’inarrestabile regista, con una produzione all’altezza della sua ambizione.