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Adam McKay, biopic, Christian Bale, cinecomics, cinema d'animazione, cineriassuntone settimanale, DC, Deve far male!, Disney, James Wan, jason mamoa, Julian Schnabel, Luca Guadagnino, nessuno mi capisce, Phil Johnston, Rich Moore, Venezia 75, Willem Dafoe
Anno nuovo, nuova rubrica: il cineriassuntone settimanale, in cui vi racconto in breve i film in uscita nella settimana, vi consiglio cosa andare a vedere e cosa evitare come la peste e vi rimando ad opinioni della sottoscritta più dettagliate nel caso vogliate indagare ulteriormente*. Come vi vizio.
AQUAMAN di James Wan
Un manzo pazzesco coperto di tatuaggi e dal fascino vagamente gipsy figlio di Sirenetta Nicole Kidman e di un tizio maori (credo) si ritrova coinvolto nella guerra tra regni sottomarini per diventare Ocean Maaaaasteeeeer…ok, e io che pensavo che questa versione condensata sarebbe stata più semplice da gestire. Ok, sostanzialmente Jason Mamoa è un tamarro micidiale con la super forza, muscoli d’acciaio e delle beghe sottomarine da risolvere.
Re dei sette mari del trash e fierissimo di esserlo, Aquaman è l’operazione astuta e miserevole con cui DC/Warner Bros, consapevole di essere in difficoltà e di avere pure per le mani un supereroe che già negli spillatini cavalca l’onda del ridicolo, decide di pigiare l’acceleratore proprio nella direzione del pacchiano, sopra le righe e volutamente grossolano.
D’altronde se una buona dose di ridicolo ha funzionato per Marvel – vedi l’incapacità di fare un film che sia epico e pregno di pathos dopo I Guardiani della Galassia senza buttarla prima o poi in vacca o senza uccidere letteralmente metà del parterre di supereroi per giustificare il dramma- perché non dovrebbe andar bene anche in DC? Il box office dice che l’operazione è andata in porto (tra un po’ la smetto con le metafore marine, giuro), anche grazie a Jason Mamoa, capace con il suo fascino ma soprattutto con la naturale simpatia e – me la passate? – dolcezza che trasmette di accattivarsi il pubblico. Non è lui che interpreta Aquaman, è Aquaman che viene ridisegnato sul di lui notevole fisico e piacevole carattere ruvido ma con un cuore grande così.
Tutto bene quel che finisce bene? No, non di fronte a un film che, proprio in virtù della sua inconsistenza caciara, dovrebbe semmai farla breve e invece dura 146 minuti.
A mio modo di vedere uno degli aspetti più personali delle visioni al cinema è dove tracciamo da spettatori la linea in cui il divertente e leggero diventa oltraggiosamente stupido: Aquaman mi è sembrato sottostimasse sin troppo la mia intelligenza, per pensare di accontentarmi con così poco e così mal fatto. Mi sono sentita abbastanza presa in giro e instupidita dal tutto. La risata involontaria di fronte a un risvolto imbarazzante può capitare, ma quando passi tutta la proiezione a ridere del film, non è che di fondo qualcuno sta ridendo della tuo stesso sbeffeggiare la scarsa qualità che ti viene propinata? Stavolta il dubbio mi è venuto. O forse è solo sta fissazione mammona degli supereroi DC. Non è che la salvezza del mondo può sempre dipendere dall’abbraccio di mammà.
RALPH SPACCAINTERNET di Rich Moore e Phil Johnston
Il tran tran quotidiano della sala giochi dove vivono e lavorano Vanellope e Ralph viene stravolto dalla rottura del volante di Sugar Rush e dall’arrivo della connessione ad Internet. La Rete potrebbe essere l’unico modo di salvare dal pensionamento l’arcade della giovane pilota, così i due amici si avventurano nel mondo del WWW, alla ricerca di una soluzione.
Sulla carta dovrebbe essere una sorta di viaggio spirituale e analitico alla Inside Out alle radici cognitive della Rete, interpretata a immagine e somiglianza delle insicurezza maschili di cui è preda. Tutto bellissimo, tutto così meta che forse siamo di fronte al punto più alto di postmodernismo citazionista autoriferito e vagamente hipster che possa raggiungere il cinema. Il che però ci pone di fronte due problemi. Il primo: quando un film mette a segno il trollaggio definitivo (mi raccomando, rimanete in sala fino alla fine dei titoli di coda, fino a che non si spegne lo schermo), diventa qualcosa di profondamente adulto e contemporaneo, cioè quanto di più possibile antitetico allo spirito del canone Disney. Forse sono io nostalgica, ma mi sento un po’ a disagio di fronte a un film che ammicca ai bambini, ammicca al merchandise, ammicca poi agli adulti parlando di cerette di supereroi a 8 bit e puntando persino su un po’ di sadismo di fronte a creaturine kawaii che mangiano pancakes.
Il secondo problema è che, a differenza di Inside Out, la forza di Ralph Spaccainternet non sta nel (pochissimo) materiale inedito che propone, ma nel riciclo creativo. Per esempio l’amichetta dura di Vanellope è un personaggio che sotto la scorza di buona e tosta nasconde un nulla cosmico frutto del peggior politicamente corretto. È ganza, è tosta, appartiene ad una minoranza ed è inclusiva verso i suoi amici che spuntano tutte le voci della rappresentazione minoritaria, eppure è dura ricordarsi della sua esistenza all’uscita della sala, priva di conflitto o di qualsivoglia punto d’interesse com’è. Quando si ride lo si fa grazie soprattutto grazie al materiale esistente, manipolato e distorto fino ad essere deriso; il tutto in chiave molto adulta e che di disneyano ha pochissimo, pur essendo raramente dissacrante (quella sì che sarebbe stata una rivoluzione).
C’è qualcosa di terribile nel vedere le Principesse Disney ridotte a una schiera di lavoratrici frustrate e un po’ esauste, iperconsapevoli del loro brand. Sto diventando troppo compagna io? Faccio partire l’Internazionale? Non riesco a impressionarmi di fronte a un film così altalenante negli esiti e così incapace di esprimere qualcosa di fresco e nuovo dal dover procedere spuntando tutte le versioni meta dei brand del proprio studios, una pellicola in cui la schiera di legali coinvolti nel garantirsi l’utilizzo di questo o quel marchio rischia di superare in lunghezza quella dei creativi nei titoli di coda. O forse è questa crisi di mezza età scatenata dal capire tutti gli occhiolini presenti nel breve spezzone dedicato al paleolitico della Rete. [RECE]
SUSPIRIA di Luca Guadagnino
Una giovane ballerina statunitense approda nella Berlino del 1977 per unirsi a una compagnia di danza al femminile guidata dalla carismatica Madame Blanc. La scuola è però gestita da un gruppo di donne decise ad usare l’energia delle allieve per i loro sinistri scopi, lontano dagli sguardi indiscreti della polizia.
C’è tanto, tantissimo, forse anche troppo nella versione guadagniniana di Suspiria, che parte dall’originale per poi andare a parare in un territorio completamente differente. Tanto la sceneggiatura di Argento era un canovaccio, quasi una scusante per lo straordinario tripudio visivo e sonoro del film quanto qui il racconto è stratificato, intellettuale, iperscritto, concettuale, politico, femminista, autoriale, smorzato nei toni, nelle musiche e nei colori.
Una pellicola divisiva se mai se ne é vista una nel 2018, ma tutto sommato va bene così. Insomma, tanto per certi versi Chiamami col tuo nome è mediato ai limiti del paraculo quanto qui l’operazione è personale e per certi versi radicale, quindi è del tutto legittimo amarlo o odiarlo, o entrambe le cose in egual misura.
Ben venga il Guada che cede all’istinto e si fa un po’ prendere la mano nella smania di omaggiare un suo mito e misurarsi con ambizione e consapevolezza col genere horror classico (inteso come discorso intrinsecamente politico). Forse dicendo per la prima volta qualcosa di davvero suo e non derivativo. In pochi potrebbero realizzare un film calcato sul potere distruttivo e salvifico della Morte e del Rimorso, trasformandolo in un’enorme storia d’amore: Guadagnino è davvero un romantico se mai se ne è visto uno dietro la macchina da presa. Mi piacerebbe tornarci su per riflettere su almeno un paio di aspetti, se la vita non fosse così avara di tempo ed energie.
[RECE][CONFERENZA STAMPA]
VAN GOGH – SULLA SOGLIA DELL’ETERNITÀ di Julian Schnabel
Un pittore povero in canna e con qualche disturbo psicologico via via più serio viene ospitato presso una locanda dove trascorre un periodo piuttosto intenso della sua vita, diviso tra una natura che ora gli parla ora lo confonde e l’amicizia burrascosa con un collega. La sua instabilità e il suo tormento interiore lo condurranno presto in una struttura d’igiene mentale e, poco dopo, alla morte.
Probabilmente adorerete questo film, la sua capacità di narrare visivamente lo sguardo distorto e artistico del tormentato pittore che racconta. Vi capisco, lo concepisco ma mi fermo qui, perché ho detestato cordialmente pochi film a Venezia 75 quanto questa compiaciutissima opera assolutoria di Julian Schnabel. E guardate che per condurre me a criticare un film in cui Oscar Isaac fa un Gaugain shippabilissimo con Van Gogh e Mads Mikkelsen fa il prete glaciale, beh, ce ne vuole.
Cosa ci vuole poi di preciso? Questa summa di sentimenti e riletture alla Tumblr, in cui l’introversione e l’estrema sensibilità di un individuo lo assolvono da qualsiasi sua colpa e squalificano automaticamente il resto del genere umano che in qualche modo (e non senza fatica) riesce a conciliarsi con sé stesso. Non è certo il primo film che vedo (e non sarà l’ultimo di una serie senza fine, ahimè) in cui un comportamento frutto di un palese disagio psicologico, antisociale e violento viene equiparato alla sensibilità artistica, al genio creativo attraverso cui le pochezze umane vanno rilette e assolte. Già è paradossale quando nel suo delirio martirizzante fa passare come assolutamente normale e dovuto il supporto degno di un santo laico del fratello di Vincent, ma di fronte a quella sorta di giustificazione di un mezzo stupro perché la sensibilità incompresa! ho faticato molto a non urlare di frustrazione nel pieno della proiezione stampa veneziana.
[RECE]
VICE di Adam McKay
Una misteriosa voce fuori campo racconta l’insospettabile ascesa all’ombra dei riflettori di un uomo politico potente eppure quasi sconosciuto al grande pubblico, senza alcun credo o talento politico. Pur non essendo né brillante né particolarmente intelligente, Dick Cheney saprà scalare gradino dopo gradino il sistema politico statunitense, fino a diventare il vicepresidente meno noto, ma forse più potente e sinistro, della storia degli Stati Uniti.
Questo invece è esattamente il genere di film che adoro e di cui leggo diligente tutte le stroncature più feroci, ci rifletto e poi proprio ammetto che scusa ma no, non sono proprio d’accordo. Concordo con quanti rilevano che rispetto al precedente La grande scommessa (The Big Short) McKay si lasci sin troppo prendere la mano, finendo nel novero di tutti quegli autori e artisti così smaniosi di denunciare un certo modo di fare della politica statunitense oggi – urlato ed eccessivo – da finire per assumere proprio questo medesimo tono nelle loro invettive. O dei danni che la presidenza Trump sta facendo anche al cinema.
Inoltre anche io sono stata molto infastidita da come, sbrigativamente e sul finale, la pellicola si dimostri estremamente superficiale nel liquidare il pubblico e l’elettorato come troppo stupido o troppo stanco per rendersi conto del problema, trincerandosi dietro una facile battutina su Michael Bay e i Transformers. Come nel caso di Aquaman, mi infastidisce l’assunto che in quanto spettatrice sia una povera fessa.
Già sono un pochetto più scettica di fronte a quanti accusano McKay di non “spiegare” il mistero di Cheney, ovvero come un uomo poco carismatico e intellettualmente tutt’altro che brillante sia divenuto un così abile accentratore di potere. Non è compito del film farlo, in quanto non è un documentario ed è palesemente un biopic molto rielaborato e molto tra virgolette. Vice è piuttosto una mirabolante ricostruzione farsesca di come lo stesso sistema governativo statunitense contenga da decenni i presupposti peggiori che, portati ad estrema conseguenza da gente assolutamente senza scrupoli e intossicata dal potere in quanto bene cumulabile, ci hanno portato nella situazione attuale. Di fatto la parabola del film suggerisce come, per portarci all’anticamera della presidenza Trump, non servisse un genio del male, quanto piuttosto un uomo abbastanza privo di scrupoli e di visione a lungo raggio da far sembrare tutto sommato savi i grandi manipolatori precedenti. In questo senso la scena di Colin Powell è assolutamente straziante, umanamente e politicamente, perché fa capire quanto la lealtà sia un valore pericolosissimo.
Difficile poi non essere abitudinari come McKay in fatto di cast quando ripetersi significa avere al tuo fianco Steve Carell (che con questo, Marwen e Beautiful Boy ha messo a segno l’ennesima stagione incredibile), Christian Bale versione sovrappeso e come new entry Amy Adams in versione Lady Macbeth repubblicana. Solo la sequenza del cuore, l’identità della voce narrante e i “primi” titoli di coda fanno sbiadire certe critiche di metodo o di contenuto mosse così spesso a McKay, reo più che altro di fare in maniera sfacciata e urlata mosse strategiche un po’ piacione che certi beniamini del cinefilo oggi fanno in punta di piedi o in modalità ben più paracule, venendo poi puntualmente osannati.
[RECE]
*Per il momento butta così, perché mi piange il cuore a vedere il blog poco aggiornato ma d’altra parte a furia di recensire e rirecensire gli stessi film tre o quattro volte nel giro di poche ore stavo davvero cominciando ad avere le allucinazioni. Fatemi sapere che ne pensate di questo nuovo formato, che con tanta buona volontà e un pizzico di tempo libero dovrebbe arrivare ogni settimana intorno a mercoledì/giovedì, ben prima delle vostre sortite in sala. Il che ovviamente non significa che non ci sarà tempo e modo di fare qualche recensione singola.
Il formato “antologico” di questo articolo può funzionare. Se ti riesce comodo gestirlo, usalo pure con la mia benedizione, per quello che vale 😉
Vale molto, dato che i lettori qui in giro tendo ad essere molto timidi. Ci vuole comunque quel paio d’orette a sistemarlo, ma voglio essere propositiva e dire: si può fare, ce la faremo, sarà il nostro appuntamento del 2019!
Siiii puooooò faaaaareeee! Dai che va bene, bentornata!
Eustachio approved!
Super approvato!