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Eccoci al quarto, popolatissimo appuntamento con il cineriassuntone settimanale, in cui vi racconto in breve i film in uscita il 24 gennaio 2019, vi consiglio cosa andare a vedere e cosa evitare come la peste e vi rimando ad opinioni della sottoscritta più dettagliate nel caso vogliate indagare ulteriormente. Prima o poi si stabilirà il giorno fisso in cui arriverà questa rubrica, promesso. Come vi vizio.
LA FAVORITA di Yorgos Lanthimos
Prostrata da una serie infinita di aborti spontanei e figli morti in età precocissima, la regina Anna (Olivia Colman) regna sull’Inghilterra del XVII secolo in guerra con la Francia. Dimentica dei suoi doveri di regina, affetta da gotta e poco attraente, insicura, goffa e in cerca di costanti rassicurazioni sentimentali, la regina è consigliata con il pugno di ferro da Sarah Churchill (antica antenata di Winston interpretata da Rachel Weisz). Di fatto è lei che stabilisce la linea politica del regno, tenendo in pugno la sovrana con un mix di gentilezza e cattiveria. Il suo ruolo di favorita verrà però messo in pericolo dall’arrivo della di lei sprovveduta cugina, Abigail (Emma Stone). Caduta in disgrazia e venduta dal padre a un ricco tedesco dopo una partita a carte, Sarah si farà strada alle cucine sino al fianco della regina: per mera sopravvivenza, per sete di potere, infine perché può.
Il mio film preferito di Venezia 75, come avreste scoperto da quel Listone onnicomprensivo abortito a metà ma in cui in fondo un pochino ancora spero. Gli ho appioppato 4 stellette e mezza su quattro, io che in fatto di stellette sono tirchissima; la precisazione doverosa è che quel mezzo finale è scaturito da Yorgos Lanthimos il quale mette in fila un tale numero di elementi cinematografici, tematici e narrativi che mi mandano in estasi, adorazione, deliquio. Oggettivamente però è un film in cui va tutto alla perfezione e che prova che talvolta (molto raramente) ad alcuni autori indipendenti fa bene entrare nel mondo di Hollywood, fare esperienza delle sue strette limitazioni e logiche commerciali. È il film più “commerciale” del regista greco, per quanto lo si possa dire della pellicola che riesce a spogliare la findanzatina d’America Emma Stone e che ha una serie infinita di bizzarre, accattivanti riprese a occhio di pesce. Grazie a una sceneggiatura al bacio, scritta da terzi, Lanthimos si libera dal suo bisogno intrinseco di mortificare la pazienza dello spettatore o provarci di essere il nuovo Kubrick (vedi alla voce Il sacrificio del cervo sacro). Eppure sembra farina del suo sacco, perché al centro del triangolo di potere e amore (col punto di domanda) c’è anche una riflessione tagliente sulla natura umana e sulla sua crudeltà.
Solo che stavolta siamo a corte, con i costumi di Sandy Powell e tre attrici hollywoodiane – dalle performance strepitose – e allora Lanthimos che fa? Coglie l’occasione per fare a brandelli il costume drama, o almeno cancellare una certa patinatura benevola che gli si era posata sopra; quella lente di benevolenza con cui si raccontano oggi gli aristocratici come persone straordinarie nella loro natura e nella loro sensibilità, ancor prima che per il loro invidiabile ruolo. Uno dei molteplici aspetti stuzzicanti e memorabili di questo film è come racconti la corte inglese come un luogo giusto un briciolo meno brutale, violento, volgare e animale delle caverne primitive. I nobili e la Corona sono un branco di egoisti, lussuriosi e misogini assolutamente dimentichi del resto della nazione, che agiscono per proprio tornaconto o per sfoggio di potere. In certi passaggi è quasi raggelante vedere come una scopata a lungo desiderata o una mezza parolina pronunciata per errore determino decisioni che portano migliaia di uomini a morire sul fronte francese. Ne ho scritto fino alla nausea eppure non ne ho esaurito gli argomenti. Nota finale: Olivia Colman dà forse la performance migliore, avendo per le mani un personaggio ridicolo, patetico ma che si rivela stre-pi-to-so nelle fasi finali…puri rimanendo tale. Stelletta al valore e sigillo di qualità Gardy.
Ci shippo qualcuno? Nel bel mezzo di una Venezia eterodiretta arriva Lanthimos a salvarmi. Non sto nemmeno a dirvi perché è giusto che scopriate voi chi, cosa, dove e quando. Alla fine piangevo arcobaleni.
[RECE][SPECIALE COLMAN][SPECIALE DONNE E POTERE] [CONFRONTO CON MARIA REGINA DI SCOZIA]
IL MIO CAPOLAVORO di Gastón Duprat
Mentre guida la sua supersportiva sulle strade Buenos Aires, Arturo (Guillermo Francella) confessa allo spettatore un segreto: è un gallerista d’arte e un assassino. Nel suo racconto ripercorre l’inasprirsi del suo rapporto di amicizia e di collaborazione lavorativa con Renzo (Luis Brandoni), pittore d’enorme successo negli anni ’80 ormai ridotto all’irrilevanza. Fedele al suo stile e alle sue idee, Renzo è un duro e puro che non perde mai occasione di umiliare il suo amico e gallerista, che di fatto lo mantiene economicamente. Da una parte Renzo è fedele al suo credo artistico in un mondo dell’arte che appare vuoto, snob e senza bussola morale, dall’altro si comporta come un anziano inacidito e cinico, che ha allontanato i propri cari e che tratta con disprezzo e in maniera truffaldina la giovane amante, l’allievo e l’amico di sempre.
Mi Obra Maestra è un film davvero bizzarro, che vive e muore della sua cronica incapacità di decidere che tipo di film vuole essere. La sceneggiatura della pellicola tentenna perennemente tra una sferzante critica del mondo della cultura e della creatività (il tema centrale dell’intera filmografia di Duprat) e la commedia che scalda il cuore con al centro l’amicizia bizzarra tra due uomini maturi, strambi ma sinceramente affezionati l’uno all’altro. Non ha che a sprazzi il mordente che rese il precedente El ciudadano ilustre un caso, ma ha l’indubbio pregio di non essere menosissimo rispetto a un, chessò, The Square nel raccontare l’involuzione radical chic dell’arte contemporanea. Il personaggio dell’allievo così positivo e buono da diventare odioso è inaspettatamente il cardine di un film che un po’ imbroglia rispetto alla sua premessa iniziale, ma che sa essere inaspettato e sorprendente. Nel bene e nel male. Non ha insomma l’allure nera di Il cittadino illustre (che dovreste assolutamente vedere se avete apprezzato The Wife – Vivere nell’ombra), però quantomeno questo è girato con un minimo di produzione, una fotografia esistente e presente e via dicendo. Il trauma non rimarginato della poracceria di El Ciudadano *rabbridivide*. Gerontofili all’ascolto, c’è Guillermo Francella con i suoi azzurrissimi occhi e non credo di dover dire altro…che forse se siete un po’ maliziosi (e lo siete, in quanto lettori di questo blog) anche qui potreste vederci cose. Cose artistiche, s’intende.
[RECE]
SE LA STRADA POTESSE PARLARE di Barry Jenkins
Tish (Kiki Layne) accompagna il suo amato Fonny (Stephane James) in una passeggiata romantica: sono giovani, bellissimi e profondamentamente innamorati l’uno dell’altro. Una voce fuori campo, quella di Tish, ci augura di non dover mai parlare con la persona amata attraverso un vetro. Fonny sta infatti per andare in prigione, dove rischia di trascorrere molti anni della sua vita se non verrà fatta chiarezza sul suo caso. Una donna portoricana lo accusa di averla stuprata, eppure la dinamica di fatti e alcuni testimoni rendono di fatto implausibile la ricostruzione della polizia e la deposizione di un poliziotto bianco che lo ha arrestato. Tish e la sua famiglia faranno di tutto per tirarlo fuori di galera, mentre a poco a poco il lettore scoprirà la storia dei due ragazzi, amici da sempre, entrati in intimità a poco a poco, desiderosi di dare una vita normale alla loro relazione e al bimbo in arrivo.
Non sarò diplomatica con l’infornata di film sulla questione afroamericana che a questo giro tocca sorbirsi agli Oscar. Ora che una breccia nel silenzio bianco è aperta è importante e sacrosanto che registi e attori neri portino la loro voce al pubblico, però la strada di presentare la versione afroamericana della sacra famiglia (tutti bellissimi, buonissimi, semplici, sensibili e profondi) a fronte di un contraltare bianco che pare arruolato al grido di “faccia di merda” di borisiana memoria e che per bene che vada come minimo sei un bianco schifoso che si struscia addosso alle commesse nere incinte ai grandi magazzini forse non è la migliore. Per la tua denuncia sociale, perché far ruotare tutto il film attorno all’assunto che tutti i bianchi sono merde e tutti i poliziotti assassini (per quanto corroborato da dati lapidari a riguardo) tende a far irrigidire ancora di più chi è già su posizioni poco favorevoli verso gli afroamericani, favorendo un clima di muro contro muro, nero contro bianco. Di questo riparleremo a breve, quando arriverà la versione “bianca” dei film sui neri del 2018, aka Green Book.
Sul lato cinematografico paga se possibile ancor meno. Non solo perché ci hanno provato altri prima, meglio e con una riflessione decisamente più articolata (lo stesso Steve McQueen fa meglio con un film per lui minore come Widows) ma perché se il tuo stile è fatto tutto di primissimi piani, palette cromatiche studiatissime e mai naturalistiche, più continue sottolineature della regia rispetto alla storia, ogni pellicola è sempre un tiro di dadi, un azzardo. In Moonlight tutto funzionava armonicamente, qui il senso di estraniamento verso la storia dura per buona metà del film. Tutto appare così impostato, recitato, calcolato, vuoi anche perché i due protagonisti, di una fotogenia purissima, non sono bravi e credibili abbastanza per reggere quella sequela di primi piani di grande intensità. Per fortuna c’è un parterre di comprimari capacissimi che tiene il film a galla e una serie di cammei “bianchi” di gente piuttosto famosa a Hollywood che allenta un po’ la morsa della denuncia di Barry Jenkins. Non è che Il Beale Street could talk sia un film brutto; se la cava. Si tratta però di un film romantico costantemente messo in pausa per farti vedere le foto in bianco e nero di afroamericani pestati dalla polizia, dimostrando di tenerci anche lui fino a un certo punto ai protagonisti. Se anche Spike Lee – uno di certo non timido sulla questione – quest’anno è riuscito a tirar fuori un ottimo film, molto equilibrato pur essendo sferzante, esplodendo nella sua denuncia solo sul gran finale – forse una pensata in merito è il caso di farsela. È la stessa questione delle registe snobbate agli Oscar: non è che incensando esageratamente ogni film che rappresenta una minoranza senza voce, si faccia un favore alla stessa e ai suoi portavoce artistici. Jenkins è al suo secondo film: ci sta che sia in tono minore rispetto al suo esordio.
[RECE]
L’UOMO DAL CUORE DI FERRO di Cédric Jimenez
Riehard (Jason Clarke) viene espulso dalla Marina tedesca dopo aver sedotto una donna senza l’intenzione di sposarla. La donna che desidera sposare Lina (Rosamund Pike), figlia di una famiglia abbiente messa in ginocchio dalla crisi del 1928, rimane al suo fianco e lo spinge a iscriversi al partito nazista, facendogli conoscere Himmler. Da uomo indifferente alla politica il militare si trasformerà in un ardente sostenitore del nazismo e nel principale ideatore della Soluzione finale, che programmerà nei minimi dettagli poco prima di venire ucciso dalla resistenza cecocloslovacca dei Tre Re, a Praga, nel 1942.
Manco mai a un appuntamento con i film sui nazisti cattivissimi, pronta testimone dell’evoluzione e talvolta deriva della cinematografia dell’Olocausto? Giammai, quindi eccoci qui con l’ennesimo film che conferma il trend del nazismo raccontato dalle stanze interne, dove gli antagonisti diventano protagonisti.
È difficile parlare di L’uomo dal cuore di ferro come di un film singolo, quando sembra la congiunzione di due mediometraggi: per tutta la prima parte seguiamo l’ascesa di Heydrich, il suo indottrinamento (giocato sul parallelismo un po’ banale di allontanamento dall’influenza della moglie/avvicinamento a un’amoralità glaciale) e la sua scalata delle SS, salvo poi spostarsi bruscamente al fianco di Jozef Gabcik e Jan Kubis, i due ragazzi che lo assassineranno, senza mai (o quasi) tornare indietro, con un repentino e straniante cambiamento di tono e atmosfera.
Difficile anche darne un giudizio, a ben vedere. Io l’ho visto perché ho un po’ manie di completismo quando si parla di Mia Wasikowska. Ho dovuto ricominciare più volte la visione. La prima volta l’avevo trovato di un tedio mortale, invece successivamente e soprattutto nella seconda parte si è rivelato godibile, ben ricostruito e recitato, anche se forse un po’ convenzionale. Alla fine è una visione meritevole in sé, ma che tende ad essere poco memorabile, indistinguibile nella scia di pellicole con presupposti simili.
Nota finale che mi pareva palese ma poi i commenti di Letterboxd mi hanno instillato il dubbio: non è che se parlo di nazisti cattivizzimi e mi lamento della quantità di pellicole sull’Olocausto significa che voglia silenziare questo filone o vedere film in cui i seguaci di Hitler siano ritratti in chiave positiva. Trovo un po’ preoccupante, alle volte, questa marea di film mediocri e tutti uguali a sé stessi che trattano con superficialità tematiche delicatissime e che tendono a dare un senso di banalità e stanchezza, ecco. Dato che si parla di una questione cruciale, da cui pare sempre più che non abbiamo imparato quasi niente, è necessario lavorare bene e meglio che altrove.
La Favorita è un capolavoro, formalmente di una bellezza abbacinante e con tanta sostanza. Cita Barry Lindon a mani basse ma a me ha ricordato anche Il leone d’inverno per un certo modo di demistificare la regalità. Forse è una stupidaggine, ma ho pensato che non c’è questa gran differenza tra l’andare a letto con un re o una regina, qualunque sia il corpo quello è prima di tutto il corpo del Potere. Mi sono piaciuti anche i coniglietti spezzacuore.