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Ormai è chiaro: la primavera è la stagione in cui non solo noi persone comuni e recensori fatichiamo a concentrarci e commettiamo qualche errore, con la voglia di fare che latita (aggiornare il blog? Chi? Io?) e la curva della sonnolenza che conosce un’impennata in vista di aprile. Anche in casa Disney la primavera è la stagione della défaillance live action, del film in cui non credevano nemmeno loro e quindi eccolo buttato lì prima di Pasqua nella speranza che non faccia neanche troppi danni. Se all’epoca non riuscii a riscuotermi abbastanza dalla noia generata da Nelle pieghe del tempo per scrivervene un parere, eccomi qui a certificarvi che sì, l’uomo che doveva salvare questo remake non richiesto di Dumbo è la sua definitiva condanna a morte: Tim Burton.
Che poi bisognerebbe prima individuarlo il caro e vecchio Tim per addossargli le colpe del caso. Il regista anticamente Freak di Edward – Mani di forbice e quello modernamente passabile di Dark Shadows è non pervenuto, zero, Chi l’ha visto è già stato allertato. Non c’è una sequenza o un movimento di macchina non dico brillante ma quantomeno caratteristico, anzi. Il film è girato dall’inizio alla fine secondo lo standard più basico di questi prodotti, così come l’avrebbe ideato e realizzato uno dei tanti registi di fila che si occupano della massa dei film medi/mediocri, essendo a loro volta tali. Non che ci sia nulla di male, anzi, spesso se sanno il fatto loro sono proprio questi semi sconosciuti a portare il bilancio finale di un’annata cinematografica in territorio positivo…mica tutti possono essere Maestri o geni!

Qualcuno però era considerato tale e ha anche avuto i suoi bei momenti un ventennio fa, potremmo persino arrischiarci a scomodare la parola che inizia con la c (quella che finisce per apolavoro) per un paio di sue pellicole. Di quel Tim Burton, quello che sulla carta avrebbe dovuto sfruttare al massimo l’aspetto circense della storia e quello di irrisione del diverso, non c’è la minima traccia.
Non che sia totalmente colpa sua, perché a guardar bene la pellicola, analizzandola sotto il suo versante tecnico, è chiaro che anche Disney abbia preferito investire i suoi denari con parsimonia. D’altronde la pellicola si apre con una panoramica sul circo itinerante dei Fratelli e del treno che lo trasporta da una parte all’altra degli Stati Uniti quasi del tutto realizzata  in computer graphic, di quella chiaramente visibile perché malamente realizzata.

L’altro problema fondamentale del film è che stiracchia su oltre due ore una storia che originariamente superava appena i 60 minuti, senza peraltro apportare nulla in più di rilevante. Anzi, se Dumbo ha traumatizzato intere generazioni lo si deve non solo alla sua storia straziante, ma anche a un paio di passaggi quasi dark e dai sottotesti adulti, su tutti la  scena dell’elefantino che finisce per ubriacarsi e avere visioni di terrificanti elefantini rosa (che sembrano piuttosto figlie dell’LSD). Fa abbastanza impressione pensare che ciò che era considerato presentabile al pubblico delle famiglie nel 1941 oggi sia così controverso da venire cancellato…in favore di più contenuti familisti! Yay! No?

L’ora abbondante in più viene infatti riempita con le storie degli umani che popolano la pellicola e in particolare di una famiglia circense. Il padre (Colin Farrell) è un reduce appena tornato dalla guerra senza un braccio e senza più la moglie, deceduta mentre era al fronte. Questo rende di fatto orfani – come da più classico topos Disney – i due figlioletti, attraverso il cui punto di vista ci avviciniamo a Dumbo. Ora: non vedevo bimbi così mal predisposti alla recitazione in un film Disney da Il libro della giungla e il suo giovanissimo, pessimo protagonista.

Qui i bimbi sono in realtà ragazzini e con qualche annetto in più era lecito aspettarsi di meglio. In particolare Nico Parker, che interpreta la figlia del protagonista, è una summa di espressioni, frasi e atteggiamenti odiosi, dove persino il doppiaggio non aiuta. Oltre gli splendidi lineamenti (talvolta pesantemente truccati) della ragazzina c’è una totale incapacità di reggere un controcampo… che in un film in cui il protagonista è creato digitalmente, è abbastanza grave.
D’altronde non è che Farrell, Danny DeVito nei panni del proprietario dello Zoo e Michael Keaton in quello del cattivo se la cavino meglio, costretti in personaggi a un passo dal caricaturale.

Chi ha il compito di salvare il tutto (con un ruolo anche lì non lontanissimo dallo stereotipo) è ancora una volta Eva Green, qui trapezista di origini francesi costretta a calvacare Dumbo per creare un numero d’impatto. Se l’amore di Tim Burton è comprensibile, dato che bisognerebbe essere dei pazzi per rimanere insensibili al fascino e alla bravura dell’attrice, fa comunque impressione vedere come diventi lei l’interlocutrice dell’elefantino. Dumbo qui si limita a subire il film così come i soprusi raccontati dal copione, rimanendo in balia degli eventi, passivamente. Quando nell’ultimo spezzone comincia ad essere un personaggio attivo e protagonista del suo film, ecco che il ritmo cambia e il film salva il salvabile. D’altronde se il volo dell’elefantino era il punto cardine del film originale, il picco emotivo lungamente atteso, qui Dumbo vola di continuo, smorzando volta dopo volta la portata di questo immagine di grande forza.

L’ultima pecca a cui voglio dedicare qualche riga è una deriva disneyana che noto da qualche film e che comincio a trovare fastidiosa. Come in Ralph SpaccaInternet (e come si annuncia sarà Toy Story 4) anche qui si pone grande attenzione alla figura femminile, dandole rilevanza. La piccola protagonista non si vuole esibire al circo, ma sogna un futuro da scienziata. Le buone intenzioni ci sono, ma questo lavoro di empowering femminile è condotto così meccanicamente, senza una scala di sfumature o ambiguità, da risultare in un danno. Qui reso ancora peggiore dall’interprete, che più che una ragazzina indipendentein grado di essere un punto di riferimento per le piccole spettatrici risulta fastidiosa e cocciuta. Giusto per andare sul sicuro in un padiglione dedicato alle meraviglie della scienza si vedono un manichino maschile vestito da donna che fa il casalingo, con al fianco la moglie manager…in un film ambientato dopo la (prima o seconda, la contestualizzazione storica è così labile, sì) Guerra mondiale? Anche un po’ meno Disney, magari pensato, scritto e realizzato un po’ meglio.