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Eccoci al primo appuntamento mensile del cineriassuntone sett…mensile, un po’ perché di certi film voglio continuare a parlarvi in post dedicati, un po’ perché so che da qualche parte qui c’è un format perfetto ma c’è ancora da sperimentare. Quindi ecco a seguire tutti i film usciti a marzo 2019 che ho visto ma non ho avuto tempo, voglia o sbatta di recensirvi.
IL COLPEVOLE – THE GUILTY di Gustav Möller
Un agente della polizia danese giunto al suo ultimo giorno di “esilio” alla centrale operativa riceve la telefona di una donna che asserisce di essere stata rapita. In un crescendo di tensione, l’agente infrangerà i confini del lecito pur di salvare la sconosciuta, rivelando poco a poco chi si nasconda davvero dietro la divisa.
Si può perire di aspettative sproporzionate indotte dal buzz cinefilo? Se sì l’esempio perfetto è questo esordio danese di cui si era parlato come di un autentico caso. In un certo senso lo è per come riesce a fare di necessità virtù. Confinato com’è in una solo ambiente chiuso, con un attore protagonista e un coro di voci fuori campo e al telefono come contraltare, Il colpevole – The Guilty bagna il naso per ritmo e dinamismo a film con più possibilità e risorse.
Questo thriller danese nella stanza chiusa non solo è ben realizzato, attento a non ripetersi nelle soluzioni stilistiche, ma è apertamente impegnato nella costruzione di una propria estetica. Sul fronte della scrittura però qualche limite ancora c’è, nel senso che il crescendo funziona fino a un certo punto e poi s’intuisce dove si stia andando a parare. Dati i presupposti e il tema “forze dell’ordine” in agenda, considerando il mistero del perché l’agente protagonista non sia per le strade ma a rispondere al telefono in centrale, la scrittura nulla può fare se non ritardare la logica dello spettatore dal giungere a naturale conclusione. Se non fosse stato oggetto di così tanta anticipazione, forse mi avrebbe colpito di più, ma merita una visione, anche solo per l’ottima performance di Jakob Cedergren. Il colpevole è limitato anche dal paragone con un film precedente dalle stesse premesse ma che al contrario non sbaglia nulla: Locke con Tom Hardy.
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BOY ERASED di Joel Edgerton
Figlio di un pastore battista e di un’amorevole casalinga, Joel è costretto da pressioni esterne a rilevare ai genitori la propria omosessualità a 19 anni, in una piccola cittadina americana ultrareligiosa in cui l’orientamento sessuale diverso equivale a una condanna sociale e grave peccato. Desideroso di guadagnarsi di nuovo la stima dei genitori, il giovane comincia a frequentare un centro per “curare” i giovani affetti da devianze mentali.
Nonostante questa storia vera tratta da un memoir che racconta pressioni e orrori di un “centro di rieducazione per giovani omosessuali” ricada palesemente nel mio territorio di attenzionamento cinematografico, Boy Erased l’ho dovuto recuperare in differita. Sono fallibile.
A posteriori devo ammettere che l’aspetto che mi intriga di più è il fatto che a dirigerlo sia Joel Edgerton, un attore eterosessuale che dopo aver letto il libro ne è rimasto così impressionato da decidere di volerlo portare su grande schermo, ma fortunatamente consapevole della controversia che la sua decisione avrebbe potuto generare. A mio modo di vedere il risultato, ancorché un po’ formato compitino, è più che soddisfacente e dà un ritratto di questa specifica problematica queer in maniera incisiva e rispettosa.
Altro aspetto interessante: una star dietro la cinepresa attira personaggi glamour davanti alla stessa. In questo caso, una nidiata di giovani attori (perdonatemi l’ardire) che emanano un livello di aura omosex almeno da otto e mezzo in una scala da zero a Troye Sivan (che fa parte del cast, giusto per fugare ogni dubbio). La vera sorpresa è che però a funzionare più di tutti sono i genitori del protagonista. Da una parte una Nicole Kidman più serena e divertita del passato che incarna alla perfezione una certa estetica e attitudine della moglie moderna del pastore, dall’altra un Russell Crowe davvero incisivo, come non lo era da anni, nel ruolo del padre convinto della sua rettitudine morale e costretto man mano a fare i conti con la sua fallacità. Un cinque altissimo a Lucas Hedges, buon interprete principe degli adolescenti problematici. Nel 2018 ha fatto il giovane omosessuale tormentato qui, il giovane drogato protagonista in Ben is back.
A UN METRO DA TE di Justin Baldoni
Stella è una giovane ricoverata in ospedale a causa della sua grave patologia, la fibrosi cistica. La sua vita è fortemente limitata dalla sua diagnosi, ma la ragazza è propositiva, decisa a fare del suo meglio per sopravvivere. Più disordinato nella propria cura e nella propria esistenza è Will, un nuovo arrivato infettato da un ceppo diverso del morbo, sottoposto a una cura sperimentale. Al nascere del sentimento tra i due, una nuova straziante realtà si presenta loro: non potranno mai neppure toccarsi, perché il rischio di contagio è altissimo e probabilmente mortale per entrambi.
Cari lettori di questo blog, sapete che io ho una tolleranza altissima verso film sentimentali, melodrammi e gli dei sanno solo quale altra ciofeca sentimentale etichettabile come cinemozioni5. Anzi, da completista quale sono, mi assicuro di vederne il più possibile, per tenermi aggiornata. Ecco, questo qui ha messo alla prova anche una scafata nel sentimentalismo come me. Non per la componente lacrimevole dello stesso, che si può far ben scudo del suo intento lodevole di aumentare la consapevolezza nei riguardi della patologia in oggetto. Tuttavia dal punto di vista cinematografico è intollerabile la stupidità acuta esibita dai due protagonisti, così incurati delle loro condizioni di salute e contradditori nelle precauzioni prese da generare confusione circa l’effettiva gravità del rischio contagio. Buttarsi in una piscina già di per sé per una persona col sistema immunitario sputtanato non mi pare questa grande idea, ma farlo con uno dal ceppo opposto e killer! Ma altro che un metro / five feet di distanza, fai prima a buttarti giù dal tetto dell’ospedale! Ah no scusate, quello è il drammatico incontro iniziale. Viva la vita, viva l’amore. Mi segnalano inoltre che l’interprete del giovane malato emo Cole Sprouse ha riattivato gli ormoni di più di uno spettatore. Sarà la primavera.
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LA CONSEGUENZA di James Kent
La moglie di un colonnello inglese a capo dell’occupazione inglese della Germania all’indomani della Seconda guerra mondiale affronta la crisi del suo matrimonio nella grande villa di un architetto tedesco espropriato dei propri beni ma rimasto a vivere con la giovane figlia al piano superiore della casa, relazionandosi quotidianamente con “il nemico”.
Vedi sopra, poi La conseguenza è pure un melodramma in costume con quota di nazisti cattivizzimi, filo inesauribile a cui raramente mi sottraggo. Questo invece mi è piaciuto molto, nel suo essere un film minuzioso e assai rigoroso, che sarebbe potuto essere stato realizzato benissimo 40 anni fa, senza colpo ferire. Un classico che mai diventa fuori moda, impreziosito da un reparto costumi strepitoso e dalla regia elegantissima, molto precisa e molto british di James Kent, che non a caso viene dalla scuola BBC. Mi ha molto stupito per come si gestisce le scene di amplesso amoroso, in maniera elegante ma decisamente non castigata. In un certo senso anche il finale “reazionario” è il più logico.
Insomma, posto che è uno sguardo sempre rivolto al passato, mi ha convinto nella sua interezza, eccettuata forse Keira Knightley; come sempre afflitta dal look perfetto per i film in costume/period drama ma affossata dal non essere allo stesso livello recitativo delle controparti maschili. Dopo The Little Drummer Girl e questo invece Alexander Skarsgård lo trovo notevolissimo e non solo perché mi scalda il cuore con la zazzera bionda e i maglioncioni invernali nel suo chalet di legno di montagna da lui disegnato (già mi batte il cuore). Pare che sia piaciuto solo a me ed è comprensibile: nasce (volutamente) datato e parla di matrimonio tradizionale, un filone in cui forse si è già detto tutto il possibile. Se vi annoiasse, io lo capirei. Però a me piacque, non vogliatemene.
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MY HERO ACADEMIA: DUE EROI di Kenji Nagasaki
All Might e Midoriya si recano su un’isola artificiale completamente dedicata alla ricerca scientifica per il supporto dell’attività dei supereroi per fare visita a un vecchio amico del protettore della Pace. Quando l’isola verrà attaccata da un misterioso gruppo di terroristi, Midoriya e i compagni di Academia presenti uniranno le loro forze per salvare tutti.
Nella più classica tradizione delle pellicole d’animazione legate ad anime e manga di successo, questo film è una sorta di fillerone di lusso, con animazioni curate e una storia autoconclusiva ricca di passaggi pensati per il pubblico degli appassionati? Sì. Però My Hero Academia: Due Eroi ha l’enorme pregio di essere fruibile con agio e divertimento anche da chi di su All Might e Midoriya non sa assolutamente nulla, ovvero la sottoscritta, entrata in sala con l’unica consapevolezza di riconoscere il titolo di uno shounen di successo. Caccia le spiegazioni del caso in maniera agevole e dinamica, poi prosegue per la sua strada senza problemi, aiutato anche dal fatto che il vasto parterre di personaggi ricalca le caratteristiche di base dei protagonisti degli shounenoni di combattimento, quindi ci vuole un attimo e questo è lo scorbutico, quello è quello che ce l’ha a morte col protagonista, questa e quell’altra sono palesemente le coppie per cui le shippatrici danno di matto e via andare. Insomma, una visione piacevole che mi ha lasciato l’impressione di un anime abbastanza basico ma divertente da vedere, in cui probabilmente si shippa ogni cosa che respira con il suo uguale e opposto. Sarei molto interessata a indagare questo trend di chara design dall’ispirazione…statunitense retrò? Non è il primo anime in cui lo vedo ed è…bizzarro, ma rinfrescante.
CAPTIVE STATE di Rupert Wyatt
L’invasione aliena della terra è già avvenuta e portata a termine. Gli umani hanno perso e i Legislatori hanno dettato le loro condizioni: il centro città delle grandi metropoli è interdetto agli umani e dedicato ai loro scopi, in un sistematico piano di estrazione delle risorse che dà lavoro a tutta la popolazione e riduce di molto il tasso della criminalità. Delle cellule terroristiche umane però permangono e sono convinte che un’azione in grande stile possa far rialzare la testa al genere umano, spronandolo a ribellarsi.
Non è che sia terribilmente brutto, però per certi versi è ancora peggiore di un film che osa spararla grossa e toppa alla grande. Captive State è il coacervo di ogni pensata fantascientifica e thrillerone col ribaltone finale degli ultimi 10 anni, con un debito enorme verso District 9, un titolo che sì ha cambiato il genere ma che sarebbe anche ora di superare, per la miseria! A livello visivo e registico il film di Wyatt si appoggia mollemente al successo di Blomkamp senza tirare fuori un’idea che sia una (alieni che si vedono di rado e poco chiaramente? Check. Centro città interdetto come zona aliena? Check. Metaforone sull’invasione aliena che parla di segregazione umana e classista? Check, paro paro proprio). L’idea sarebbe quella di sorprendere lo spettatore con un finale d’effetto, peccato abbiano telefonato Grisham e Le Carré ricordando che è roba loro ed era vecchia già un paio di decenni fa (oltre al fatto che spiegata come viene spiegata, è anche abbastanza irrealistica). Povero John Goodman, per quanto bravo a recitare non può salvare questo film da sé stesso.
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THE PRODIGY – IL FIGLIO DEL MALE di Nicholas McCarthy
Miles è un giovane bambino dalla mente prodigiosa, inserito dalla madre Sarah in una scuola per menti dotate per stimolarne le capacità. Nella mente del ragazzino però si nasconde un’altra entità maligna, altrettanto prodigiosa e perversamente diabolica.
Non so come mi sia venuta di andare a vedere un horror spaventone senza un blasone cinematografico che giustificasse il mio interesse e gli spaventi che mi sarei presa. Al netto degli jump scare (originati dalla tradizionale stupidità di gente che si avvia in sottoscala bui e non prende a tranvate bimbi dai palesi intenti omicidi) ho trovato questo horraccio comunque tremendo ma almeno non senza appigli verso la redenzione (oltre al tentativo di farci su un franchise). Nella parte finale ci mette un quid e prende un tono cupo e crudo abbastanza interessante. Peccato che tutto quanto venuto prima sia Taylor Schilling che guarda il suo tatone, ignorando sistematicamente o quasi che dia chiavate inglesi in testa ai compagnetti d’asilo o che parli un antico ceppo di una europea a caso nel sonno. Poi le dicono che una cosa sovrannaturale sta succedendo e lei ma no, ma che diteee!, che insomma, il suo finale se lo guadagna ampiamente. Se poi lo consideriamo una sorta di prequel alternativo di Orange is the new Black potrebbe essere quasi interessante.
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UNA GIUSTA CAUSA di Mimi Leder
La vera storia di Ruth Bader Ginsburg, brillante avvocatessa che, esiliata dagli studi legali e dal foro per il suo sesso, farà coppia col marito Marty per ottenere la prima, importante vittoria giuridica contro la discriminazione tra sessi insita nelle leggi statunitensi.
Il motore di questo film è palesemente la vera, avvincente storia di una personalità carismatica e incredibile come quella di Ruth Bader Ginsburg, la sui odissea professionale e personale tiene in vita il film anche nei passaggi più blandi e convenzionali. Un po’ come Hidden Figures e Green Book, Una giusta causa si appoggia all’interesse che suscita la sua storia e ai volti dei suoi attori capaci e affascinanti per ovviare all’assoluta convenzionalità del suo svolgimento biografico, che è praticamente un compitino, per quanto ben eseguito.
Detto questo, è un legal drama in cui la gente attacca cicli di botta e risposta in legalese stretto, c’è un mock trial e si finisce davanti al Grand Jury con le proprie arringhe e risposte ispiranti da dare alle domande scomode dei tre componenti dello stesso. C’è il fottuto Jack McCoy / Sam Waterston, autentico sigillo di qualità per chi inspira legalese ed espira felicità. Sam, non lasciarci mai, mai! In più, dati gli anni in cui è ambientato, ci sono un diluvio di gonne a ruota, abitini, uomini vestiti in completi eleganti e (arma finale) Armie Hammer nel ruolo di Armie Hammer in veste di marito splendido e totalmente innamorato e dalla parte della sua mogliettina, femminista e compresivo e solido e rassicurante come il Gran Sasso. Guilty pleasure di lusso insomma.
Ho visto solo Una giusta causa. Mi è piaciuto ma Hammer poteva anche rimboccarsi un pò le maniche, non metaforicamente, sul serio, che se hai degli avambracci così sensibili ed espressivi li devi lasciar lavorare. Vorrei andare a vedere La conseguenza ma la Knightley è sempre un pochino legnosa e mi sembra di capire che qui non è meglio del solito. Mi ammazza la sospensione dell’incredulità.