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Secondo appuntamento mensile del cineriassuntone sett…mensile, un po’ perché di certi film voglio continuare a parlarvi in post dedicati, un po’ perché so che da qualche parte qui c’è un format perfetto ma c’è ancora da sperimentare. Quindi ecco a seguire tutti* i film usciti a aprile 2019 che ho visto ma non ho avuto tempo, voglia o sbatta di recensirvi.

ATTACCO A MUMBAI di Anthony Maras
Facile facile: 26 novembre 2008. Non vi dice niente? Eppure è la data dell’inizio dell’incubo terroristico indiano per eccellenza, quando un gruppo di terroristi pachistani mise a segno una serie di attacchi coordinati per Mumbai, seminando il terrore in città sino ad asserragliarsi nel hotel simbolo del turismo internazionale, il Taj Mahal. Il gruppo diede inizio alla sistematica uccisione degli ospiti internazionali e dello staff che tentava di proteggerli e farli fuggire. Un incubo costato la vita a un numero impressionante di persone e durato giorni, per il ritardo con cui le forze speciali da Nuova Delhi riuscirono ad arrivare in città. Il film ripercorre le storie dei sopravvissuti e dei caduti romanzandole e mischiandole tra loro, con un inaspettato piglio…action.
Armie Hammer nel ruolo dell’uomo da sposare Armie Hammer, Dev Patel nel ruolo dell’unico attore indiano di cui abbiano il numero di telefono a Hollywood. Aggiungere terroristi al preparato e avrete un bizzarro risultato. Perché sì, da una parte Hotel Mumbai è un film che rivela l’esordio brillante di Anthony Maras, un regista che non vedo l’ora di vedere in azione su un progetto tutto suo. Due ore che di fatto raccontano una carneficina senza mai distogliere lo sguardo e restituendo in maniera vibrante la terrorizzante situazione di chi muore e chi vive, senza alcun discrimine a parte il caso, due ore che scorrono via veloci e piene di ritmo e tensione.
Anche troppo però, perché il dilemma etico rimane: una strage del genere merita un taglio tanto simile a quello dei film d’azione? Un attacco europeo o statunitense trasformato in un film di tensione e con un certo grado di spettacolarizzazione non ci avrebbe offeso a morte?
C’è da dire che la sceneggiatura si dà parecchio da fare per mettere sullo stesso piano le vite dei turisti occidentali con quelle del personale di servizio, risultando ancor più angosciante perché sottolinea impietosamente quando abbiano lo stesso peso, siano in balia della stessa violenza, eppure le seconde siano state praticamente indottrinate dalla politica del Hotel a venerare il cliente in maniera assoluta, tanto che le vittime tra il personale saranno la netta maggioranza, per il tentativo di difendere ad ogni costo i clienti. Quando il film persino osa tirare una linea tra poveri diavoli che lavorano al Hotel e tentano in ogni modo di salvare i clienti condizionati da un lavoro da tenersi stretto per scampare l’indigenza e giovanissimi terroristi che chiamano casa tra un’uccisione e l’altra per assicurarsi che i reclutatori abbiano dato qualche soldo promesso alla loro famiglia, lì il film mette a segno un colpo non indifferente. Permettere ai terroristi di uccidere a sangue freddo e poco dopo meravigliarsi come bambini di fronte alla macchina “per far sparire la merda” che mai hanno visto nei loro villaggi è una mossa ardita e che paga. Eppure. Eppure non riesco a togliermi di testa il pensiero che, per quanto riuscito e disturbante sia, la nota action ci sia e sia solo l’ultima spia di come purtroppo nel nostro sistema di informazione (e di valori?) attacchi di questo tipo siano di “seconda classe”, nei tg e poi anche al cinema. Rimane un film sorprendente e che vale la pena di vedere, se avete il fegato di affrontare una pellicola dall’argomento così atroce.
[RECE]

STANLIO E OLLIO di Jon S. Baird
Giunto ormai a fine carriera, il famoso duo di comici si ritrova costretto dalle difficili contigenze economiche ad affrontare un tour tutt’altro che trionfale nei teatri inglesi. Costretti ad affrontare l’invecchiamento personale e del proprio pubblico, i due interpreti si troveranno alla fine a fronteggiare gli errori imprenditoriali e umani che hanno causato la crisi di un successo cinematografico formidabile e senza fine, fino a confrontarsi apertamente su un tradimento vero o presunto che li ha divisi irrimediabilmente.
Quanta ammirazione per gli inglesi che ti lasciano senza parole, nel senso che cosa vuoi dire su questo film? Le premesse sono di una banalità sconcertante: storia vera di gente famosa che insegue un riscatto in tarda età, un canto del cigno e ultimo momento di rivalsa, ma solo dopo aver ripercorso le scelte sbagliate, gli errori e le avventatezze di gioventù. Eppure vedi il logo BBC Films all’inizio e sai già che tutto andrà come dovrebbe andare, ovvero nel miglior modo possibile. Ve lo sto a dire? I due intepreti Steve Coogan e John C. Reilly sono a tanto così dallo staordinario, la regia di Jon S. Baird ha quella sobria, lucida eleganza che uno associa a un lavoro made in BBC, la sceneggiatura tira fuori tutta l’emozione e la forza possibile da un modello stra-usato e ti fa capire perché: perché se fatto per bene, funziona e di brutto.
Detto questo, Stanlio e Ollio è l’ulteriore riprova che esistono solo due popoli al mondo in grado di arrivarti alle spalle e ficcarti all’improvviso e a tradimento un contenuto così involontariamente ma potentemente omosessuale che si scatena un autentico momento da il disperato urlo della fangirl in incognito, e sono gli inglesi uber alles e i giapponesi che si difendono bene. Qui gli interpreti hanno mogli al seguito eppure nulla gli impedisce di urlarsi in faccia quanto si sono sentiti traditi, quanto abbiano bisogno che l’altro sia affezionato a loro come persona e amico e non solo sodalizio professionale, sparando lì una serie di “but I love him!” sussurrati in lacrime che non so come io le mie coronarie ne siamo uscite sostanzialmente indenni, ancorché devastate emotivamente.
Ship SheepShip SheepShip Sheep

UN’ALTRA VITA di Małgorzata Szumowska
In un remoto paesino rurale della Polonia meridionale vive Jacek, un giovane ragazzone metallaro che collabora al piano ambiziosissimo dell’amministrazione locale di costruire la statua di Gesù più alta del mondo. Con la sua fidanzata – ribelle e poco religiosa come lui – Jacek sfida le convenzioni bigotte del suo paesino, tenendo i capelli lunghi, vestendosi e dimostrandosi impermeabile al perbenismo locale. 
Una drammatica svolta però lo porta a sottoporsi come cavia a un intervento chirurgico mai tentato prima. Il risultato lo porterà a scoprire dolorosamente quanto sia chi segue pedissequamente i dettami della religione e del buon senso, sai chi apparentemente li sfida amasse la sua esteriorità accettabile e non il suo vero io, che ora più che mai anela una libertà impossibile nell’asfissiante campagna bigotta polacca. 
Ahhh, che vita tristemente felice sarebbe la mia senza i prototipici film della Berlinale che dapprima sembrano solo autoriali ed europei nel midollo e poi quatti quatti ti arrivano alle spalle e e ti tramortiscono con badilate di tristezza? Il fatto che due edizioni fa (con comodi distributori italiani) Małgorzata Szumowska sia riuscita a portarsi a casa l’Orso d’Argento con questo film racconta un’edizione non propriamente popolata da capolavori ma devo dirvi che mi è sinceramente piaciuto. Starò mica diventando troppo buona? Al netto dell’inspiegabile mania di sfocare i lati esterni dell’immagine (mah) e di qualche ingenuità narrativa, Małgorzata Szumowska fa quello che le riesce meglio, ovvero irridere ora causticamente ora con tenera rassegnazione l’anima bigotta e provinciale della Polonia post industriale e post comunista. Il film si basa su due eventi tanto paradossali quanto reali (la costruzione della statua e l’intervento a cui viene sottoposto il protagonista) e, grazie ai due bravi protagonisti Mateusz Kościukiewicz e Agnieszka Podsiadlik, riesce a raccontare cuori puri e meschinità burocratiche in maniera spesso soddisfacente.
Rimango in attesa del mio Jacek, che venga a prendermi a cavallo fin sotto la finestra di casa e mi porti cavalcando fino alla sala parrocchiale del paese trasformata in discoteca natalizia alla buona, passando nel mezzo dei boschi polacchi mentre l’immortale L’amour Toujours di Gigi D’Ag pompa alla stragrande in sottofondo. Sul finale, quando viene proposta una versione a violino, stavo per mettermi a piangere. Non sono ironica, no. Mai, quando si parla di Gigi D’Ag come fil rouge musicale di una potente storia d’amore.

CAFARNAO di Nadine Labaki
Un bimbo libanese finito in carcere con l’accusa di tentato omicidio cita in giudizio i suoi genitori con l’accusa di averlo messo al mondo per farlo soffrire.
Ma cosa c’hanno i libanesi ultimamente da presentarsi ad ogni festival con un legal drama strappalacrime (cfr. L’Insulto)? Devo ammettere che sin da quando ne ho sentito parlare dalla Croisette nel 2018, Cafarnao l’ho temuto terribilmente. Essendo approdato prima a Cannes e poi come nominato nella categoria Miglior film straniero agli Oscar 2019, non avrei mai saltato la visione, solo per ragioni di mero completismo. Tra l’altro gli insulti che gli ho tirato perché, a causa di questa tardiva uscita, non ho potuto fare il mio tradizionale post dedicato alla mia categoria dell’Academy favorita. Insomma, non si partiva bene. Inotre se c’è un genere di film che odio, odio visceralmente è quello che per denunciare una condizione di povertà e indigenza assoluta trasforma la stessa in pura pornografia del dolore. Sono rimasta sorpresa  – date le premesse e le recensioni – da quanto Cafarnao ci vada vicino senza proprio finirci dentro.
Se il film però è così riuscito bisogna dire che il merito va in larga parte al suo giovanissimo interprete Zain Al Rafeea (che a quanto pare simili condizioni le conosce purtroppo di prima mano) che tira fuori una delle performance “bambine” al cinema migliori di sempre. Di sempre. D’altro canto però ci pensa la regista e sceneggiatrice Nadine Labaki a mandare tutto a quel paese, combinando un pasticcio terribile nella seconda parte del film. Il film sceglie fin da subito la sua bussola morale, ovvero Zain, un bimbo piccolissimo ma che già porta su di sé il peso di una serie di abbandoni, di persone a lui care che non è riuscito a proteggere. L’assunto sembra chiaro: nonostante sia ridotto a morire di fame, Zain non tradisce mai chi gli sta vicino, anche a costo di terribili delusioni. Gli adulti del film lo abbandonano, chi contro la sua volontà e chi per mero interesse, perché – il film inizialmente postula – anche nella miseria a fare la differenza è la bussola morale di ciascuno e in particolare di Zain che, pur immerso in una realtà di genitori e adulti orrendi, in qualche modo ha sviluppato un suo rigido codice di condotta. Salvo che no, sul finale Labaki attacca una piva micidiale sui poveri genitori di Zain che son poverelli e non proprio colpevoli ma vittime anch’essi. Eh!? Come prego? Il film stesso si contraddice, dato che è costruito (male, con un inutile incasinamento temporale che rende incomprensibile inizialmente il processo penale che fa da scheletro alla narrazione) in maniera tale da ricordarci che tra i poverissimi, i genitori di Zain sono comunque dei privilegiati per tutta una serie di motivi. La scena di chiusa poi mi ha proprio soddisfatto, nel senso che tira fuori tutto quello che di peggio mi aspettavo e così ho potuto cominciare a lanciare oggetti e prendermela con il film come pensavo di fare fin da subito. Insomma, Cafarnao invece di essere un’orrenda pornografia del dolore è un potenziale filmone buttato via dall’inesperienza della sua cineasta e dall’inutile e incomprensibile rinnegare delle sue stesse premesse.
[RECE]

CYRANO MON AMOUR di Alexis Michalik
Edmond Rostand è un poeta squattrinato e con una famiglia da sfamare nella Parigi del 1897. Si ritroverà in pochi giorni e stretto tra più fuochi a scrivere uno dei capolavori del teatro mondiale: Cyrano De Bergerac. Il film racconta la storia della nascita di un cult assoluto del teatro (e del cinema) francese e soprattutto il giovane marito, padre e artista dietro questo trionfo inaspettato e istantaneo.
O almeno così mi aspettavo, dato che il film in originale s’intitola Edmond. Invece no e devo dire che sono rimasta parecchio sorpresa dalla convenzionalità di questo film d’Oltralpe, perché era da parecchio che il cinema francese – anche nelle sue accezioni più commerciali – non mi lasciava così freddina. Non c’è niente sia fatto particolarmente male, ma questo Shakespeare in Love francese (perché il film è quello, l’intersecarsi tra finzione teatrale e vita reale è quello, in senso dell’operazione è quello) è tutto sommato poco incisivo e persino un po’ banale, a partire dalla convenzionalissima regia di Alexis Michalik. Fermi tutti, quindi niente, sono ancora una malvagia recensora, che sollievo!
Si salva giusto perché la storia di Cyrano è così perfetta nel suo romanticismo puro e un po’ guascone che persino un film che ne racconta la genesi ben più terrena e carnale senza niente di particolare da dire gode della sua buona influenza. Un film così sì, lo potevamo fare pure noi, che però siamo troppo presi dalla criminalità romana e napoletana e dalle commedie 01 Distribution per tentare mai qualcosa di storico fatto con un certo criterio senza lasciare per strada una certa piacevolezza commerciale. Rovere a parte che, dato il botteghino misero di Il primo re, palesemente non meritiamo. Tornando a Cyrano Mon Amur (ahhhh, titolisti italiani!) Olivier Gourmet da solo può salvare praticamente qualsiasi cosa e qui da una grande mano a portare a casa il tutto con una certa grazia. Il problema è che il film non riesce mai a rendere il protagonista Edmond un personaggio interessante pur essendo la sua primaria missione (da titolo), pur mostrandoci quanto fosse un uomo particolare: niente alcolici, solo té al verbena, morigeratissimo, innamoratissimo della moglie e sempre a casa presto la sera: insomma così poco francese. Eppure Cyrano sembra quasi capitargli per le mani, senza che lui faccia altro che scriverne le scene appena queste gli si presentino sotto casa, magari suonando pure il campanello.

LA LLORONA – LE LACRIME DEL MALE di Michael Chaves
Un’assistente sociale e madre vedova di due ragazzini nella Los Angeles del 1973 s’imbatte in quello che sembra un caso da manuale di violenza domestica nella comunità messicana locale. Solo più tardi scoprirà che nel liberare due bambini da uno sgabuzzino dove erano rinchiusi li ha condannati a morte, attirando su di sé e sui suoi figli l’attenzione della Llorona, lo spirito messicano piangente che reclama i figli altrui per colpare il vuoto nel proprio cuore, dopo aver ucciso i propri.
Da qualche tempo mi ritrovo più o meno contro la mia volontà a vedere in proiezione stampa horror che non corrispondono alla descrizione di film appartenenti al genere a cui mi sottopongo volontariamente. Essendo davvero paurosa, lo faccio solo quando la fama di una pellicola ne assicura una validità cinematografica ben al di fuori dei confini del genere.
Dopo qualche film horror di largo consumo devo dire che provo un’infinita pena per i fan del genere, vessati da una serie di filmacci più o meno vedibili ma il cui unico punto d’interesse è spillare il minimo sindacale allo spettatore per avviare un nuovo franchise, come in questo caso. Una persona più esperta di me lo ha definito una Jameswanata e a metà visione avevo già capito perfettamente a cosa alludesse il termine. Qui tutto è risibile e dimenticabile – anche se meno peggio dell’ecatombe inguardabile che mi aspettavo – tranne il Prete Spiegone che compare dal nulla stile Milord, approccia la protagonista con lo spiegone propedeutico all’avanzamento della trama o all’inserimento del film nella galassia horror di James Wan e poi puff! scompare di nuovo. Povera Linda Cardellini, che quando interrompe la sua ininterrotta serie di ruoli di madre o moglie di sullo sfondo fa da protagonista in un progetto risibile come questo. Povero anche il regista esordiente Michael Chaves, a cui hanno lasciato mano libera solo nei primi 5 minuti del film costringendolo poi a una lunga litania di jump scares. Eppure il ragazzo ci sa fare, lo testimoniano proprio quei 5 minuti che mi avevano fatto ben sperare.
[RECE]


*quasi tutti perché di almeno un paio voglio parlarvi nel dettaglio, non importa quanto in ritardo. Se c’è qualcosa di importante o interessante da dire, non mi piegherò alla tirannia del passaggio in sala. Giammai.