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Terzo appuntamento mensile del cineriassuntone sett…mensile, un po’ perché di certi film voglio continuare a parlarvi in post dedicati, un po’ perché so che da qualche parte qui c’è un format perfetto ma c’è ancora da sperimentare. Quindi ecco a seguire tutti i film usciti a maggio 2019 che ho visto ma non ho avuto tempo, voglia o sbatta di recensirvi.

ATTENTI A QUELLE 2 di Chris Addison
Una truffatrice di bassa lega statunitense, rozza e alla mano, incontra e si scontra con un’algida, altolocata “collega” del Vecchio Continente abituata alla bella vita in Costa Azzurra. Dopo alterchi e ripicche di vario tipo, le due decidono di stabilire chi sia la migliore con una competizione: la prima che riuscirà a imbrogliare un ingenuo ragazzo ospite di un noto alberto locale vincerà e potrà cacciare dalla propria zona di caccia la rivale.
Remake della già non quotatissima commedia del 1988 Quei due figli di… (titolisti italiani vintage in azione sul titolo originale Dirty Rotten Scoundrels), Attenti a quelle 2 è la prova provata che a voler fare remake al femminile di originali “al maschile” con questa dose di pigrizia e sessismo malcelato si fa solo danno.
Al netto di Rebel Wilson che fa stancamente Rebel Wilson (o forse lei è entusiasta di sé come sempre e mi sono stancata solo io), a voler essere generosi è quantomeno inoffensivo, ma proprio abbassando clamorosamente le proprie richieste cinefile a “una cosa che non mi scartavetri i globi oculari” senza però accennare all’effetto sui neuroni. La deliziosa Anne Hathaway stronza algida dall’imperscrutabile accento europeo è francamente materiale sprecato. Ammetto di aver riso in un paio di passaggi e ammetto di vergognarmene molto: a malapena ricevile come film da vedere sul divano in una serata da encefalogramma piatto. [RECE]

I FRATELLI SISTERS di Jacques Audiard
Oregon, 1851. Hermann Kermit Warm è un chimico che ha tra le mani un segreto prezioso come l’oro, ma è costretto a fuggire, perché il Commodoro lo vuole morto dopo essersi impossessato della preziosa informazione. Per raggiungere il suo scopo ha assoldato i fratelli Sisters, due sicari famigerati, pronti per denaro a ricorrere l’uomo in fuga e catturarlo.
Non poteva esserci salto più in alto, d’altronde qui stiamo parlando di Jacques “il regista de Il Profeta” Audiard, uno che gira per i festival di mezzo mondo con in tasca una Palma d’Oro e (almeno) un capolavoro. Questo lo vidi a Venezia 75 e mi piacque molto e partite al presupposto che io i western proprio non li posso soffrire no, nemmeno quando sono così piangeroni e shippabili come questo.
Ho un solo difetto da contestargli: Audiard non fa niente di nuovo, ma proprio niente che non sia visto e già stravisto. Ma in fondo è Audiard, non ne ha alcun bisogno. Uno che gira così lo guardo volentieri ripetere sé stesso o altri.Specie se poi cala su di me dopo giorni di Festival all’insegna dell’eterosessualità più inattaccabile, con un film pieno di cowboy che darebbero la vita l’uno per l’altro, si guardano negli occhi coi lucciconi TRUE EMOSCION, dormono uno a fianco all’altro sotto le stelle e beh, c’è Jake Gyllenhaal che fa il cowboy, che è sempre un ottimo segnale queer e un pessimo indizio per la tenuta emotiva nel corso del film.
[RECE]

Ship Sheep

 

 

CINQUE CENTIMETRI AL SECONDO di Makoto Shinkai
Takaki rimane segnato da un amore giovanile mai pienamente vissuto e concluso: quello con Akari, vicina di casa che ha dovuto traslocare con la famiglia lontano, troppo lontano perché i due possano continuare a sentirsi vicini, ma non abbastanza da poter dimenticare come si sentissero reciprocamente uniti. Incapace di voltare pagina e di prestare davvero attenzione a Kanae, una compagna di scuola palesemente innamorata di lui, Takaki approda a una vita adulta mal sviluppata, piena di grigiore, disordine interiore e rimorso.
Personalmente preferisco la versione emo Makoto che spadroneggia in questo mediometraggio diviso in tre episodi con tutto il suo carico di super depressione rispetto al Makoto romantico possibilista di successo in Your Name. Ma di gran lunga.
Forse anche tecnicamente parlando. Infatti questo Makoto Shinkai ridotto ai minimi termini economici rivela i suoi minimi termini narrativi sulle cui infinite varianti si basa la sua produzione: amori liceali, cieli pastello pieni di nuvole e galassie, oggetti e uccelli che volano nell’empireo, timeline volutamente incasinate e sconosciuti per strada che si voltano a guardarsi all’unisono.
Nonostante i suoi limiti tecnici e lo status di film meno mainstream rispetto ai successori, rimane comunque un prontuario strepitoso su come tirar fuori un film animato d’atmosfera con 3 doppiatori, 6 personaggi e 30 minuti sui 60 totali di fondali riempitivi perché c’erano i soldi solo per animare le scene cruciali.

TED BUNDY – FASCINO CRIMINALE di Joe Berlinger
Elizabeth Kloepfer è una giovane segretaria madre di una bimba che conosce un ragazzo d’oro: si chiama Ted Bundy, è spiritoso, bello, dolce e davvero innamorato di lei. Tutto crolla quando la polizia comincia a indagare su di lui, ritenendolo il responsabile di una serie di efferati omicidi ai danni di giovani donne barbaramente rapite, violentate e uccise. Tra processi, fughe rocambolesche e profferte d’amore, Elizabeth dovrà decidere a quale verità credere sul suo amato.
Da qui in poi lasciate ogni speranza voi che leggete, perché non rimangono che film brutti, bruttissimi o orrendi. Questa ricostruzione della drammatica esperienza dell’ignara fidanzata di uno dei più efferati killer statunitensi ricade tra la seconda e la terza categoria. Cinematograficamente è davvero poca cosa, spaventosamente vicino a un film TV, ma rischia di essere così storicamente inaccurato da diventare umanamente orrendo e indifendibile.
Dire che è problematico nella sua ricostruzione delle vicende di Elizabeth e Ted è fargli un favore, perché prendere l’efferata vicenda di un serial killer e variarla profondamente per esigenze narrative tue non è proprio il massimo. Inoltre la protagonista putativa dovrebbe essere Lily Collins, ma il film subisce sin troppo la fascinazione del ragazzo d’oro dall’animo segretamente cattivo, mettendola presto da parte. Fascinazione che non porta a nulla di buono, dato che a fare l’omicida c’è Zac Efron che sembra sempre dire “Dai, ora faccio l’espressione sottilmente malvagia. Tre, due, uno…”. Tranquilli però: lunedì daremo il via al mese del Pride con la versione queer e riuscitissima di questo pastrocchio qui.
[RECE][SPECIALE]
RED JOAN di Trevor Nunn
I servizi speciali bussano alla porta di una pensionata tranquilla della periferia di Londra con un’accusa incredibile: che l’anziana Joan sia stata negli anni della Seconda guerra mondiale e della Guerra fredda un agente del KGB, quello che ha fatto trapelare segreti cruciali per la realizzazione della bomba atomica da Londra a Mosca.
Dopo anni di romanzi magistrali di John Le Carré e di adattamenti filmici più o meno meritevoli, il “tratto da una storia vera” sembra più romanzato della versione romanzata che per anni ci ha raccontato la Guerra Fredda nel Regno Unito al cinema e in libreria. Che poi in realtà la vera storia di “Joan la Rossa”, anziana signora che ammise in una surreale conferenza stampa tenutasi nel giardinetto di casa di essere stata il più importante agente operativo russo a Londra, la talpa che permise a Mosca di mettersi alla pari con Washington, realizzare la bomba H e dare il via alla strategia della tensione, è un po’ diversa da quella romanzata nel libro da cui è stato tratto il film. Film TV nell’anima con un taglio tanto monotono quanto televisivo, Red Joan ha annoiato un po’ persino me che in questa tipologia di storie ci sguazzo con gioia.
I pochi meriti del film sono annegati in una regia anonima e nella sensazione d’esser stati adescati con la promessa di avere una Judi Dench protagonista per poi intravederla appena nelle scene di raccordo. Purtroppo la vera protagonista del film, ovvero Sophie Cookson, si rivela del tutto priva del carisma necessario per condurre il film e risultare una versione giovanile credibile di Judi Dench.
[RECE]

PET SEMATARY di Dennis Widmyer e Kevin Kölsch
Louis non se la sente di confessare alla figlioletta che il gatto di famiglia è stato investito sulla strada percorsa da camion velocissimi che costeggia la loro nuova casa, immersa in ettari di bosco nei pressi di una piccola cittadina sonnacchiosa del Maine. Soprattutto perché l’anziano vicino di casa lo conduce oltre il cimitero degli animali domestici, in un terreno dove ciò che viene sepolto torna alla vita, ma sotto forme differenti, più sinistre.
Scottatura doppia qui perché, mossa da chissà qualche impulso completista e laborioso, mi sono pure vista il primo adattamento degli anni ’80. Non saprei dire sinceramente quale sia peggio: se quello nel suo essere dabbene e cheesy come solo un film degli anni ’80 può essere (con tanto di cast di attori adulti annichiliti recitativamente parlando da un gatto e un bimbetto) o questo, ennesimo titolo da incidere sulla stele nei pressi del monumento ai caduti dello jump scare.
Ahhh, i magici anni ’10, in cui tutto il coefficiente terrorizzante di una storia di Stephen King viene messo costantemente in pausa (insieme alla musica, alla trama, all’azione e a tutto il resto) per imbastire un jump scare. Povero Jason Clarke, più guidato nei suoi scarsi movimenti di azione e reazione dei gatti controfigura di Church. Poveri i fan del genere horror: io di film spaventosi ne vedo pochini e di questa impostazione son già stufa marcia: chissà loro.
[RECE]

L’ANGELO DEL MALE BRIGHTBURN di David Yarovesky
E se Superman fosse cattivo? In una tranquilla cittadina del Kansas un ragazzino adottato comincia a manifestare strani comportamenti, scoprendosi depositario di un potere strabiliante. I suoi genitori tentano di porre un freno a  quel figlio venuto dal cielo che ai tempi del ritrovamento considerarono un dono, ma ora sempre essere diventato una violenta e ineluttabile maledizione.
Jackson A. Dunn è pure tanto bravo a fare la faccetta malvagia e l’incipit è tanto interessante, va ammesso. Birghtburn vorrebbe farci constatare con mano che botta di fortuna sia avere dalla nostra un essere onnipotente come Superman in modalità così buona e retta da essere quasi noioso. Perciò combina i tre elementi migliori per dare il via a un contesto davvero orrorifico: turbe adolescenziali, poteri illimitati e ragazzino creepy che non ha nessuna voglia di essere buono perché sì. Se fossi James Gunn – il cui nome è sponsorizzato manco fosse lui non fosse il produttore bensì il regista al posto di David Yarovesky – non farei mettere il mio nome cubitale sulla locandina di un film dall’incipit così strepitoso e dalla resa ancora una volta completamente, assolutamente asservita alle logiche dello spavento facile. Diventa davvero interessante a 5 minuti dalla fine e per colpa di un personaggio complottista.
[RECE]