Scalda il cuore Toy Story 4, ancor prima di scomodare la delicata questione di quanto fosse conveniente o lecito mettere di nuovo mano a forse l’unica trilogia del recente passato cinematografico americano ad essere cresciuta film dopo film, riuscendo sempre a trovare la chiusa giusta e il messaggio importante per essere rilevante per il proprio pubblico, allargatosi fino a comprendere varie generazioni. Scalda il cuore non solo perché si tratta di personaggi con cui abbiamo riso e pianto negli ultimi 23 anni, ma perché dietro la narrazione ammodernata e lo stupefacente livello tecnico raggiunto si sente l’affetto e la riverenza con cui i giocattoli di Pixar sono ancora trattati dai loro creatori. In una Pixar post Disney, costretta in più frangenti a scendere a patti con il marketing e l’ansia da sequel, talvolta svendendo e mortificando il proprio bagaglio pregresso creativo con sequel davvero non all’altezza, Toy Story 4 esce indenne dalla visione corporate che ha toccato – poco o tanto, nel bene o nel male – tutti i fratelli e le sorelle di casa Pixar, regalandoci una storia dal sapore antico e contemporaneo, in perfetto bilanciamento.
Sul lato moderno – anzi, ipercontemporaneo – di Toy Story si concentrano la maggior parte delle recensioni entusiaste che il film sta raccogliendo. A incarnarlo appieno è Forky, attacco d’arte di una bimba dell’asilo che prende vita ma fatica a scendere a patti con la sua natura rinnovata (e utile) di giocattolo, persuaso com’è di essere spazzatura usa e getta. Un colpo sin troppo facile nell’autocommiserazione in cui alle volte ci piace crogiolarci, Forky incarna alla perfezione le nevrosi di chi non sente di appartenere a nulla, persuaso intimamente della propria inutilità e spaventato dalle responsabilità nuove che un cambiamento gli sta offrendo.
Il suo contraltare perfetto non è il granitico Woody, bensì l’adorabile Boe Peep, l’ex pastorella di porcellana rigida nel suo materiale e nel suo ruolo di love interest che qui si trasforma in un’eroina solitaria e vagabonda, maturata in anni di abbandono su uno scaffale, capace di abbracciare una visione più comunitaria, inclusiva, sostenibile e post capitalista di cosa significhi essere un giocattolo. Non è la prima eroina che Disney tenta disperatamente di aggiornare in chiave femminista per redimersi da un recente passato non esattamente esaltante come rappresentazione femminile, però è la prima che non ho trovato irritante e sbilanciatissima nella sua trasformazione da personaggio quasi inerme a protagonista (iper)attiva (cfr: quel pasticcio di Jasmine). Il segreto sta in tutto quel periodo di attesa – raccontato e non mostrato – in cui Boe Peep è diventata la donna indipendente e anche un po’ cinica che è oggi, capace di rendere verosimile la sua evoluzione. S’intuisce dietro a quelle poche parole sugli anni trascorsi nel negozio d’antiquariato un mondo di dolore, di senso di abbandono, che rendono più credibile il repentino cambiamento del personaggio, lasciando che sia il non detto a pesare.
Sul lato antico invece il discorso si fa più obliquo ma forse più interessante. Il parallelo che mi balza alla mente – forse stimolato dal doppiatore italiano che hanno in comune dopo la dipartita di Fabrizio Frizzi – è quello tra Tony Stark e Woody. Se Endgame sin dal titolo si configurava come la chiusura di un’era, Toy Story 4 lo è altrettanto, forse ancor di più del precedente capitolo. Certo, nello scorso film era finita l’era di Andy, ma non l’impostazione data all’intero franchise negli anni ’90. È forse questo il vero senso di Toy Story 4, il vero motivo che rende valida e giusta l’intera operazione: si potevano lasciare Woody e Buzz in un’epoca definita, consentendo che diventassero classici senza tempo. Invece si è preferito traghettare il concept strepitoso dei giocattoli “vivi” nella contemporaneità, facendo in modo che i protagonisti ammortizzassero lo shock del cambiamento insieme al pubblico.
Chi altri se non Woody avrebbe potuto incarnare la fine dell’epoca precedente, dei concetti di possesso, proprietà esclusiva e discriminazione dei giocatoli senza padrone in un’epoca in cui col suffisso -sharing per sostenibilità economica e ambientale si condivide di tutto possedendo quasi nulla, in un’impostazione mentale propria delle nuove generazioni? Così Woody diventa l’eroe impossibilmente romantico ma irrimediabilmente datato di un’epoca così lontana che potrebbe essere quella di Don Chisciotte, alle prese con una nuova era in cui fatica ad esprimere la propria lealtà.
Eroe vero perché continuamente fallace, dimostra un’entità così intrinsecamente fedele e giusta da riuscire ad affrontare la perdita enorme di Andy e della sua epoca d’oro di giocattolo, dimostrando una generosità che commuove. Toy Story incarna più di ogni altra cosa un messaggio positivo a una generazione di -anta che guarda con sospetto e rabbia un mondo che un po’ non comprende, un po’ l’ha tradita, così come espresso dal giocattolo coevo a Woody Gabby Gabby. La rabbia della bambola – sulla carta cattiva del film – viene disinnescata proprio grazie alla capacità di Woody di farla sentire di nuovo partecipe e utile: un appello forte, in un’America e un mondo che si riscopre drammaticamente, ideologicamente diviso anche sul versante anagrafico.
Un po’ come Up e un po’ come Endgame, Toy Story 4 è il commiato della vecchia guardia, che lascia il posto a visioni nuove ed energie fresche; non prima però di aver dimostrato che, sotto una coltre di credenze e impostazioni mentali ormai superate, si nascondeva una moralità genuina.