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dramma familiare obbligatorio, Jacob Tremblay, Kit Harington, Natalie Portman, nessuno mi capisce, omoaffettività, Susan Sarandon, Xavier Dolan
Non è un mistero che La mia vita con John F. Donovan sia un’opera travagliata, rimandata a lungo e uscita in sordina (tranne in Italia, con una inconscia rivalsa sadica Dolan ottiene la sua miglior distribuzione con il suo film peggiore), dopo un supplizio in fase di montaggio che è facile immaginare. La discrepanza tra le foto di scena e il prodotto finito, tra le trama annunciata all’inizio del progetto su Instagram e quello che vedrete in sala, tra il ruolo da protagonista iniziale di Jessica Chastain e la sua totale assenza nel montaggio finale è tale che da far venire quasi il sospetto che il primo film di Xavier Dolan in lingua inglese e con attori internazionali sia stato fortemente condizionato dalle pressioni delle major.
Non fosse che lo stesso Dolan, dopo mesi di silenzio a riguardo e un’impietosa carrelata di stroncature (meritatissime) seguite alle poche proiezioni organizzate, ha ammesso di aver sottovalutato la sfida di un film non più indie, non più con un cast e una troupe fatta di conoscenti, non più tra le pieghe del cinema canadese. Un mea culpa che, dopo le reazioni emotivamente orgogliose a le prime critiche della sua intera carriera raccolte con È solo la fine del mondo, preannunciano forse una nuova fase, più matura e si spera ancora più feconda. Per ora tocca abbracciare serenamente il fatto che questo film è il primo disastro irredimibile del prodigio canadese.
Per darvi un’idea di quanto sia senza speranza questo film, basta dire che ci sono appena un paio di scene in cui s’intravede un regista altrove carismatico e protagonista come Xavier Dolan. A tratti sembra quasi una copiatura senz’anima e senza talento del suo piglio accattivante dietro la macchina da presa. Per chi lo ammira è un supplizio, due ore di narrazione incoerente attraverso uno sguardo nei momenti migliori anonimo e statico, nei peggiori in grado in grado di rendere ancor più stucchevole quanto succede in scena.
Dolan altrove è stato pacchiano – nel senso migliore del termine – ma stucchevole davvero mai prima d’ora, perché è la genuinità verace del suo cinema ad averlo portato dove si trova oggi. In La mia vita con John F. Donovan invece sembra quasi ci sia un estraneo che si appropria delle tematiche e delle chicche stilistiche proprie del suo cinema, in maniera superficiale e persino problematica.
Il centro della trama dalla torbida storia d’amore tra un attore sulla cresta dell’onda e un giovane minorenne diventa uno scambio epistolare tra un astro nascente di una sorta di telefilm alla Streghe e un ragazzino delle elementari. Scambio mai spiegato davvero, mai rilevante ai fini della trama se non per ricordarci quanto sia solo il protagonista, appena plausibile come notizia curiosa, figuriamoci come scandalo mediatico. Cosa si scrivano davvero i due per anni e anni, cosa abbia reso l’attore incline a rispondere proprio a quel ragazzino è impossibile a dirsi.
Il tentativo è quello di tirare un linea tra un uomo tormentato e costretto a vivere la propria omosessualità dietro lo schermo di un matrimonio di comodo e un ragazzino che condivide la medesima ambizione recitativa, la medesima sensibilità artistica e umana e persino un simile rapporto così profondo da diventare ingombrante con la madre. L’idea dovrebbe essere quella di illustrare come, a pochi anni di distanza, per il cambiamento della società e la reciproca influenza tra i due, uno sia destinato alla dannazione e l’altro a vivere il proprio amore alla luce del sole. Il problema è che per atmosfere (pesanti) e contesto cinematografico raccontato, la storia avrebbe senso se ambientata nei primi anni ’90. Nessuno vuole dire che nel 2006 – anno in cui comincia la corrispondenza tra i due – le cose fossero facili per un interprete apertamente gay (non lo sono nemmeno oggi) ma arrivare a un matrimonio fantoccio e a un’infelicità così radicale in un contesto come quello artistico, sicuramente più liberale e aperto dell’equivalente sportivo e politico, nel 2006?
Anche sorvolando sulla verosimiglianza storica del film, è quella narrativa che si sgretola davvero tra le mani, con il tema dell’ingombrante ma necessaria madre che irrompe qua e là senza soluzione di continuità, senza risoluzione e soprattutto con un carico di genuino imbarazzo, vedi la gratuita corsa sotto la pioggia tra Natalie Portman e Jacob Tremblay che già sembra una pessima idea sulla carta, figuriamoci in una realizzazione tanto sciatta. Se poi il giovanissimo interprete di Room e Wonder (date una scorsa alla sua impressionante carriera mentre vi ricordo che è nato nel 2006) riesce a tenere testa al suo personaggio sin troppo sopra le righe, il film affonda del tutto perché manca di un protagonista capace di ovviarne le debolezze con il suo carisma e la sua intensità. Possiamo discutere quanto di fatto Kit Harington sia portato per la recitazione, ma qui la sua prova incolore è la pietra tombale di un film che avrebbe avuto disperato bisogno di un interprete capace di prendersi tutto il carrozzone sulle spalle e salvare il salvabile.
Lo vado a vedere? Per fortuna questa settimana è ricca di uscite interessante, per qui è del tutto lecito snobbare Dolan. Se poi non avete visto nulla del regista, è tassativo rivolgersi altrove, perché non è proprio consigliabile fare la sua conoscenza nel suo massimo momento di difficoltà.