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PICCOLE DONNE di Greta Gerwig
Il classico della letteratura statunitense Piccole Donne di Louisa May Alcott torna al cinema con una produzione hollywoodiana, un cast super glamour e la seconda, attesissima regia di Greta Gerwig.
L’aspetto più limitante dell’esperienza cinematografica dei film di Greta Gerwig è la sua claque, con risate di quelle iper consapevoli e applausi da scena aperta che magari, mh, anche no.
Detto questo (e temendo parecchio che alla lunga questa esasperazione me la renda indigesta) il mio notevole scetticismo iniziale è stato quasi del tutto cancellato da un film genuinamente emozionante, che centra il non semplicissimo obiettivo di dare una risposta sensata al quesito principale che sorge spontaneo: ma Greta, ma hai Hollywood ai tuoi piedi e fai Piccole donne, ma perché?

Il perché sta un po’ nella valenza simbolica che questo romanzo ha per tante ragazzine statunitensi (Gerwig inclusa). Il suo lavoro però è così approfondito e meditato che finisce per superare l’originale; la sua ottima sceneggiatura infatti non si limita a rimodernare i passaggi più polverosi e bacchettoni della Alcott, si spinge ben oltre. Alle quattro iconiche protagoniste guarda dentro in profondità e, senza snaturarne il carattere, dona una complessità psicologica inedita. Il tutto senza perdere la dimensione domestica e femminile del romanzo, senza però rendere questi due attributi un limite per la sua forma stilistica. Anzi, Piccole donne ha un ritmo forsennato, un passo veloce e non cade nella trappola dei passaggi classici del romanzo, decidendo di raccontarli spesso attraverso la lente del ricordo. Il  film vive di continue contrapposizioni tra il ricordo delle piccole donne e il presente di quattro donne vere e proprie, ognuna alle prese con una decisione cruciale da cui non si torna indietro, che probabilmente sarà fonte di rimpianto e struggimento, anche se presa con consapevolezza.
Dal binomio Saoirse Ronan / Greta Gerwig ci si poteva aspettare una Jo travolgente (qui ritratta anche nel pieno di una difficile crisi personale e spirituale, nella cui fragile fede religiosa entra di prepotenza la componente autobiografica della regista, che avevamo già ammirato in Ladybird). La vera sorpresa è come il film riesca a rendere profonde e sagge le sorelle Amy e Beth, solitamente appesantite dall’infantilità e dalla debolezza proprie di due personaggi usati per mettere in risalto l’unicità di Jo. Il merito va a Gerwig ma anche a una Florence Pugh ancora una volta eccezionale nella recitazione e magnetica nell’aspetto e a una Eliza Scanlen capace di tirar fuori tutta la potenza di personaggio crepuscolare come Beth.
Per il resto c’è poco da dire, dato che il film ha a disposizione il meglio del meglio delle maestranze hollywoodiane; qua e là sboccia un tocco costumistico di Jacqueline Durran, i sensi sono irretiti dalle note di Alexandre Desplat, senza nemmeno scomodare l’amalgama glamour di un cast perfetto e dannatamente cool. È davvero trasversale e molto riuscito, grazie a una splendida e sentita sceneggiatura. Certo però qualche limite ce l’ha: dialoga così tanto con il pubblico in contrapposizione alla storia originale che chi non la conosca (e bene) ne potrebbe uscire frastrornato. Personalmente non ho amato il tocco utopistico sul finale, anche se ne comprendo perfettamente il senso e il peso: preferisco le note più amare della parte centrale della storia, anche perché sul finale Gerwig si lascia un filo prendere la mano sui discorsi emancipatori e scade in un modernismo poco verosimile. L’unica vera pecca è la regia, con delle scelte estetiche talvolta gradevoli, talvolta opinabili, in alcuni casi francamente orride (i rallenti iniziali, perché?). Sotto questo profilo c’è ancora molto da fare.

[RECE][VIDEO][5 MOTIVI PER]

HAMMAMET di Gianni Amelio
Il Presidente vive a Hammamet, lontano da un’Italia verso cui prova molto rancore umano e politico. Assistito dalla figlia e dalla moglie, vive nella sua villa, parla di politica, soffre atrocemente per le complicanze del diabete. Il rientro in Italia potrebbe garantirgli le cure necessarie per sopravvivere, ma il suo orgoglio non sopito non gli permette di cedere. 
Gianni Amelio ha un indubbio merito: quello di essere andato cappello alla mano da 01 Distribution e Rai Cinema per farsi produrre un film su Craxi. Che l’ex leader del PSI sia ancor oggi vittima di una damnatio memoriae mediatica è evidente: possibile che solo Stefano Accorsi abbia avuto l’idea di creare una storia su Mani Pulite con 1992, laddove proliferavano da più di due decenni film su Silvio Berlusconi? Com’è che Sorrentino che tira fuori dal cappello un gioiello come Il Divo non ha seguito? Date queste premesse, ci si chiede come mai poi Amelio risulti così pavido: le scelte stilistiche sono legittime, ma a mio molto di vedere molto opinabili. Che senso ha omettere i nomi di Craxi e del suo entourage, per esempio? Anagraficamente parlando per me Bettino e soci sono storia e questo film certo non mi aiuta a capire meglio quell’epoca. Hammamet di domande ne pone poche, a bassa voce, e zitto zitto fornisce anche un paio di risposte, ma sempre in forma indiretta. Non ci vuole un genio per notare quanto sia critica la visione del film su Mani Pulite; tanti anni dopo avanzare una critica non tanto sul cosa giudiziario si è fatto ma sul come non solo è comprensibile, è forse cinematograficamente necessario. Gli storici questa domanda se la pongono da un pezzo. Gianni Amelio però sbaglia a fingersi neutrale, a nascondersi dietro il trucco protestico di Craxi ancor più dello stesso Pierfrancesco Favino. L’interpretazione totale dell’attore è il punto forte del film, il dato oggettivo incontestabile. È un peccato che sia a servizio di un film che cava fuori un paio di scene davvero forti solo alla fine e solo per procura viscontiana e felliniana. Insistendo sull’uomo dietro Craxi, distanziandosi così tanto dal leader da virgolettare visivamente ciò che dice passando dal 16:9 al 4:3, Gianni Amelio annacqua quel che vuole dire. Nessuno pretende una verità storica o documentaristica da un film come Hammamet. Una verità forte, anche se personale e fedifraga rispetto alla storia è però necessaria. Per questo Hammamet è un film debole, che esce schiacciato dal confronto inevitabile con Il Divo, un film iconoclasta nel 2008 e ancor oggi forte di uno stile personale e brillante, di una storia diretta e con tutti i nomi al posto giusto. Hammamet fallisce soprattutto sul versante di rimettere al centro Craxi, regalandogli un film vecchio e polveroso come la percezione di cose morte di quanti la Prima Repubblica non l’abbiano mai vissuta.

[RECE][CONFERENZA STAMPA]

CITY OF CRIME
Due criminali in fuga causano una carneficina a Manhattan, uccidendo numerosi poliziotti. Un detective della omicidi noto per il suo giustizialismo riesce a ottenere di bloccare i 21 ponti che conducono alla città per fermare la fuga dei due e tentare la loro cattura. Dalla sua ha il sostegno dell’onda blu della polizia, ma il tempo scorre impietoso e mancano solo 5 ore all’alba e allo scadere del tempo a sua disposizione.
Capisco la cacofonia impronunciabile di 21 Bridges per il pubblico italiano, ma non posso che ammirare i titolisti italiani che cavano fuori un titolo in inglese autoprodotto abbastanza generale e sensazionale per richiamare in sala chi vuole un poliziesco facile facile con un vago sentore di anni ’70 da braccio duro e armato della legge. Manco a dirlo, con queste premesse ho messo piede in sala solo spinta all’ennesima visione #insacrificioperTaylor. Qui il nostro eroe Taylor Kitsch continua la sua declassazione/espiazione da cattivo di contorno: stavolta è un ex cecchino dei Marine che uccide a sangue freddo membri della pula, ha le sopraccigli scompigliate (in quanto malvagio) e riesce comunque a far prendere aria all’addominale a meno di 15 minuti dall’inizio del film. Si è visto di peggio con Taylor, ma non è che vorrei precludermi di meglio.
Tornando al film, mi ha stupito che il sodalizio Matthew Michael Carnahan alla sceneggiatura e fratelli Russo alla produzione (da cui era saltato fuori l’ottimo Mosul) abbia tirato fuori un film in cui non si capisce dove si voglia andare a parare, a parte nel solito assunto che i bianchi sono stronzi e Chadwick Boseman (in quanto produttore) no. Il film è frastornante: si apre con un ritratto a tinte fosche del protagonista, poliziotto ossessivo e giustizialista, salvo poi rendere il suo grilletto facile (8 uccisioni in servizio in 9 anni) un punto di forza, salvo poi ripensarci e tirar fuori il marcio dalla giustizia statunitense, salvo poi ripensarci e dirci che Black Panther con la divisa tutto sommato fa bene a menare le mani e anzi, è proprio il migliore perché combatte la corruzione interna a suon di uccisioni in servizio. Non ho davvero capito il punto, ma Taylor è bello come il sole anche quanto fa il malvagio, il regista Brian Kirk è un mestierante sì, ma con qualche sequenza di pregio e non manca qualche sboronata ad effetto in territorio poliziesco che mancava solo Horatio di CSI: Miami che si mette gli occhiali da sole e gli Who che partono a manetta sullo sfondo. 

[INTERVISTA A CARNAHAN]

LA RAGAZZA D’AUTUNNO
coming soon