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Céline Sciamma, Gardy consiglia, il Listone, Luca Guadagnino, Marielle Heller, Martin Scorsese, Matteo Rovere, Pedro Almodovar, Sébastien Marnier, Yorgos Lanthimos
A seguire i dieci libri che più ho amato e che più mi sono rimasti nel cuore o nella mente tra quanto ho visto e commentato nel 2019. Come sempre anteponete a tutta la selezione e al commento un bel secondo me.
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Facciamo in un lampo le premesse anti scocciatori tignosi di rito: pesco solo i film usciti nel 2019 in Italia e sono i preferiti da me medesima. Il che non vuol dire necessariamente i migliori, dato che sono matta da legare, esteta per vocazione, fangirl per genetica, romantica per attitudine e morbosamente attratta dalle robe che vanno a finire male e con il dramma dentro, ma questo già lo sapete. E se mi conoscete un pochino (o mi stalkerate su letterboxd), probabilmente avrete già indovinato una bella fetta dei titoli in questione.
Prima di cominciare, chiedo gentilmente alla regia di mandare la Taylor gif che riassume le sensazioni di questo anno cinematografico:
Non ho ancora recuperato una bella fetta di film che promettono di fare scintille, ma già con quanto visto posso tranquillamente dare una pacca sulla spalla al 2019, poi abbracciarlo, poi commuovermi un po’ e dirgli: grazie, grazie di esistere. Non che tutto sia filato liscio, non che il cinema italiano non abbia sofferto di una certa mancanza di buone pellicole ma soprattutto di buone idee, non che tanti filmoni molto attesi dalla zona Hollywood non si siano poi rivelati deludenti (come minimo) ma il cinema d’autore! Il cinema festivaliero! Il cinema francese! Awwww!
È stata un’annata eccezionale per i cugini d’Oltralpe, che avrebbero potuto fare gara a sé praticamente in ogni Festival e in ogni premio con un quintetto e più di pellicole strepitose. Una realtà lontana anni luce dalla nostra, in cui in 12 mesi di uscite strepitose la critica ha lanciato l’allarme per lo strapotere del cinema statunitense al botteghino, in una nazione storicamente molto incline ad andare al cinema e alla cinefilia più autoctona ed estrema. Il calo degli incassi delle pellicole francesi è stato così pronunciato da far arrivare Le Monde a titolare sulla morte del cinema francese. Nel 2019. Ahhh, l’amara ironia della vita. Quale miglior metafora delle due cinematografie separate da un abisso qualitativo e produttivo dei cinque altissimi per un film poco più che buono come Il traditore di Marco Bellocchio (unico italiano in corsa per la Cannes), entusiasmi che non hanno mai travalicato i confini nazionali?
Anche il cinema europeo è andato alla stragrande e, per estensione, il Festival di Cannes, che ha tirato la volata a Parasite (o forse Parasite ha lucidato la stella un po’ appannata di Cannes? Se ne potrebbe discutere), aumentando la sua allure e il suo prestigio e rubando il ruolo solitamente coperto da Venezia in campo Oscar. Senza cedere al ricatto di Netflix, anzi, risolvendo il tutto con un’alzata di spalle.
Cannes in concorso ha ospitato buona parte dei film che vedrete ai piani alti di questa classifica, in un’annata tra il memorabile e l’eccezionale anche per una kermesse di così alto livello. Per ora ho visto circa metà delle pellicole in gara e anche se sosterrò fino alla morte che Parasite non era il miglior film da Palma d’Oro (manco il secondo o il terzo, a dirla tutta), non si può che riconoscere come quest’anno la Croisette abbia annichilito la Biennale, riducendola al silenzio o quasi (sì, io i festival me li vivo così scelleratamente, come una lotta all’ultimo sangue, va bene?).
Il fatto che il fenomeno veneziano e hollywoodiano Joker si sia rivelato eccezionale dal punto di vista commerciale ma meno brillante del previsto dal punto di vista premistico e critico mi ha fatto così gongolare dal consolarmi ampiamente dal fatto che la Mostra del cinema di Venezia (a cui la sottoscritta era presente e di cui si è sparata il programma della sezione principale integralmente) sia andata solo benino. Se Todd può fare pat pat al suo leoncino, è perché gli è andata discretamente di culo per la scarsità di grande concorrenza e per le mosse suicide della presidente di giuria Lucrecia Martel in apertura della 76esima edizione. Sono mancate quasi del tutto orride ciofeche (già un grande risultato), ma a distanza di qualche mese mi ritrovo a constatare che ci siano giusto un paio di film veramente impressionanti o memorabili. In classifica però Venezia ci sarà, anche se per me è tutto così dannatamente autunno 2018. Barbera ringrazia le uscite tardive italiane che così fai comunque bella figura.
Stavolta non abbiamo neanche gli inammissibili, perché tutte le pellicole degne di nota che ho visto in anticipo sono uscite a stretto giro ad inizio 2020 (tipo questa), quindi se ne riparlerà l’anno venturo, forse.
Rullo di tamburi, pare incredibile dirlo, ma questo Listone is going to happen.
Durante il 2019 si è molto parlato di registe, spesso con ottime intenzioni ma grande superficialità, soprattutto nella scelta dei nomi. Detto fuori dai denti e cominciando a far polemica subito, sin dalla posizione numero 10, trovo abbastanza incredibile vedere dilagare i film (e le t-shirt) di Greta Gerwig ma soprattutto della sopravvalutatissima Ava DuVernay (perché io ho visto Nelle pieghe del tempo e #nondimentico) quando c’è in giro gente come Marielle Heller. Pronto?
Non solo è una donna (wow! Registe statunitense che non sono prodotte da A24 e non sono Greta Gerwig, possibile?), non solo è relativamente giovane (classe 1979), non solo è statunitense (dato che a quanto pare registe di altre nazionalità che lavorano benissimo da anni non sono comunque contemplabili), non solo è bianca e carina (che bisogna dare una mano anche alle male lingue no?) ma è dannatamente brava. Copia originale è il suo secondo film, momento solitamente critico per i cineasti: non solo è migliore della sua già ottima prova d’esordio Diario di una teenager, ma dimostra una maturità impressionante a livello di sceneggiatura e regia, oltre che a confermarla grandissima coadiuvatrice di grandi prove attoriali. Non è da tutti portare a casa così bene un film biografico su una figura praticamente sconosciuta e con due attori non esattamente conformi allo standard hollywoodiano come Melissa McCarthy e soprattutto Richard E. Grant, qui entrambi in autentico stato di grazia. Nota bene: Heller zitta zitta ha riabilitato una persona non grata come Grant, che grazie a questa prova ha sbloccato un contratto con Marvel dopo essere stato il paria di Hollywood per più di un decennio. Con un budget molto limitato e la sfida non banale di dover ricostruire visivamente e spiritualmente il mondo culturale snob della New York degli anni ’90, Heller è riuscita a portare i due protagonisti e gli sceneggiatori alla nomination all’Oscar. Lei non è stata nominata, ma si è portata a casa un terzo film con protagonista Tom Hanks, di cui sento dire ottime cose.
Non solo: ha sfornato un film con una protagonista che spunta appieno le caselle femminismo e queer, senza però quell’insopportabile corollario secondo cui per parlare di donne o di gay bisogna farlo in maniera iperpositiva e abbastanza acritica. Lee Israel, falsaria per necessità, dote e anche aperta misantropia, è tutto fuorché un’eroina, ma è anche un personaggio potentissimo, sfaccettato, intelligente e dannatamente stupido, in un film piccolo ma grandemente sovversivo per come mette in scena passaggi e discorsi fuor di stereotipo, per come demistifica il mondo della letteratura e il feticcio dell’oggetto libro, per come inquadra la verità che raccontiamo agli altri e a noi stessi come un artificio a cui finiamo per credere. Non è un caso se in uno dei film più amati del 2019 il libro diventa oggetto di una sequenza vagamente ASMR che non stonerebbe su bookstagram, un figlio di carta, una trattativa commerciale che dà potere alle donne. In Copia Originale è un oggetto venduto e svenduto, contraffatto, che racconta dell’impotenza della cultura e della donna in un mondo di ricchi e snob. [RECE]
Se ti è piaciuto questo film potresti anche provare: The Rider di Chloé Zhao, altro secondo film femminile col botto che mi piacque moltissimo quando lo vidi due secoli fa. Sempre Cannes. [RECE]
File under: registi italiani che non ci meritiamo, salvatori del cinema italiano a cui si riconosce giusto la capacità d’intrattenere. Dopo Veloce come il vento e alcune prime prove che ho testato e per bontà sua non citerò, Matteo Rovere è sempre più la mosca bianca, anzi bianchissima, che non sceglie la facile via del film PESO per affermarsi. Anzi: a ben vedere è una figura a tutto tondo, che lavora per TV e cinema, che sceneggia, produce, dirige, ci crede. Benissimo che ci siano i grandi registi autoriali che vivono (e spesso muoiono) nel circuito dei festival, ma per avere una cinematografia sana e florida ci vuole tutta una classe di registi come Rovere: capaci, ambiziosi e non intimoriti dal genere e dalle ambizioni commerciali, che invece da noi è quasi inesistente.
Il cosa dirige e scrive Rovere è particolarmente importante: ha messo influenza e soldi in un progetto divenuto franchise come Smetto quando voglio, una commedia tutto sommato convenzionale ma gestita a livello promozionale e produttivo con una mentalità imprenditoriale che dopo la fine dell’era dei grandi produttori come Cecchi Gori e De Laurentiis in Italia quasi nessuno ha. Rovere guarda all’industria statunitense non per contenuti ma per strategie, mantenendosi italiano (o forse proprio unico) per stile e approccio, ma ragionando in ottica franchise dal punto di vista produttivo.
È anche uno dei pochissimi (l’unico?) registi italiani di talento che all’affermazione autoriale preferisce il cinema di genere, di cui ci siamo quasi completamente dimenticati. Eppure il 2019 sembra aver brillato proprio laddove ha tentato di nuovo la via del horror, del thriller, più che in progetto e approcci riusciti ma sin troppo già visti come le prove spedite a Berlino, Cannes e Venezia.
Il primo re ai miei occhi è quasi un miracolo per come fonde insieme elementi lontanissimi in un film coerente, grandioso, ambizioso: è parlato in latino antico (la percepite la sicurezza, la forza, l’ambizione di questa scelta?) ma è un kolossal con tanta azione e tanto corpo a corpo, ha una ricostruzione storica molto curata ma un protagonista pop come Alessandro Borghi (qui carismatico come non mai), mette in campo effetti speciali e sequenze adrenaliniche ma è fondato sulla contrapposizione tra mito e storia, tra vita e destino e sull’ambivalenza propria degli oracoli (e della religione), ovvero tutto il pacchetto culturale classico degno del miglior liceo classico. Guarda al blockbuster americani ma non ne subisce il condizionamento psicologico, anzi: racconta la fondazione d’Italia, letteralmente, sostituendo la retorica al fango e alla morte. E funziona, eccome.
Solo per come porta a casa l’incredibile scena dell’alluvione del Tevere con cui apre il film (e la cui difficoltà tecnica è palesemente intuibile) lo posiziona su un grado ambizione diverso da tutto il resto. Il fatto che Rovere (che fa anche il produttore) sia riuscito a mettere insieme 8 milioni di euro necessari a girare il film e che nonostante il pessimo botteghino abbia ottenuto luce verde per Romolus, la serie TV spin off/sequel/quel che è, dice ancor di più di una figura che definirla registica mi pare un po’ riduttivo. [RECE]
Se ti è piaciuto questo film potresti anche provare: Wolf Call – Minaccia in alto mare di Abel Lanzac (2019), per capire quanto fanno sul serio i francesi in materia di blockbuster e per leggersi la storia produttiva più pazzesca del 2019. [RECE] [YT]
Rieccoci all’appuntamento fisso di classica col film sudamericano che passa nelle sezioni collaterali di Venezia e io lo perdo, salvo poi scoprire come sia una delle miglior pellicole dell’annata. Solo che quest’anno Cannes si aggiudica anche questa posizione con un titolo brasiliano prodotto con un aiuto teutonico che vi presentò come una sorta di Amica Geniale latino. È molto classico, molto festivaliero, molto autoriale, molto femminista, molto PESO ma intenso e abbastanza strepitoso.
Prego notare che qui non tiriamo in ballo Elena Ferrante a sproposito: come suggerito dal titolo stesso, Eurídice e Lila sono accomunate da un senso di sfaldamento del proprio io, una progressiva frattura che a Napoli chiamano smarginatura, a Rio de Janeiro invisibilità. Risulta abbastanza sconfortante notare come negli anni ’50 si stesse tutte più o meno tra il male e il malissimo, quale che fosse la latitudine prescelta.
Non rimproveremo agli americani di trovare esotico il Rione di Lila e Lenù, perché la foresta pluviale che lambisce la casa delle protagoniste di La vita invisibile di Eurídice Gusmão sortisce più o meno lo stesso effetto. Da natura vera e propria il rigoglioso verde finisce per essere quello delle piante chiuse nei vasi e nei balconi, una delle tante immagini che il regista Karim Aïnouz usa per raccontare il prezzo della libertà per le sorelle Eurídice e Guida Gusmão. Sebbene solo il nome di una campeggi nel titolo, in realtà il film è un racconto duale e duplice, ma anche completamentare: il moto di ribellione di Guida influenza e non di poco i destini di Eurídice e il suo sogno di fare la pianista. Se la sorella fuggitiva riuscirà pagherà carissimo il pezzettino di libertà conquistato, pur conformandosi al modello femminile di moglie e madre impostole dalla famiglia, Eurídice si vedrà strappare pezzo per pezzo il suo ultimo baluardo d’individualità, oltre che negare la possibilità di un incontro con la sorella, dal fato e dagli uomini nella sua vita. Il film risulta drammatico pur condensando in una scena appena i risvolti più macabri dell’esistenza della protagonista e, come già successo per La notte di 12 anni, riesce a non essere schiavo della disperazione pur essendo durissimo. È innanzitutto un racconto femminile vivido, pur finendo per annullare entrambe le protagoniste, costrette ad abbandonare la loro esistenza anagrafica o spirituale. Il passaggio più duro è forse il finale e non solo per la catarsi che nega alle protagoniste e al pubblico: l’aspetto più raggelante è che la vita di Eurídice viene iscritta in una normalità anonima laddove era invece eccezionale (spesso in negativo), pienamente accettata persino dalla protagonista. Impossibile non spendere due parole per le straordinarie performance delle due protagoniste Carol Duarte e Julia Stockler, semplicemente indimenticabili. In un anno in cui il cinema sudamericano ha lasciato più a desiderare del solito, questo film ci ricorda che comunque a sud del Texas succedono cose cinematograficamente meravigliose anche nelle annate più di magra come questa.
Se ti è piaciuto questo film potresti anche provare: L’angelo del crimine di Luis Ortega, un thriller nerissimo argentino stiloso, erotico e queer come un Dolan, davvero ben fatto. Sempre Cannes. [RECE] [YT]
Fun fact: mentre scorrevo i 200 film e passa visti l’anno passato con i numeri da 1 a 10 già appuntati sul quaderno a spirale e un tot di candidati in ordine sparso sulla parte bassa della pagina, mi sono appuntata quasi senza rifletterci una paroletta seguita da un punto di domanda: francesata? La scelta era così vasta (per avendo ancora una cinquina di titoli che mi dicono essere portentosi da recuperare) che sentivo che un titolo francese d’esordio o giù di lì dovesse esserci. L’ultima ora non è il film francese più bello del 2019 (ne riparliamo più avanti) ma è il film più autenticamente duemiladiciannovese che io abbia visto nell’intera annata, il migliore nel cogliere l’atmosfera strisciante che sta tingendo quest’epoca e che nasce dalle giovani, inquiete generazioni. Inquiete sì ma in un modo nuovo, radicalmente diverso dalle precedenti, più comunitario e solidale, più radicale e meno edonistico. Non a caso è uno dei pochi titoli a parlare di cambiamento climatico, ma da una prospettiva più che inaspettata, sospesa tra l’allusivo, l’adolescenziale e l’apocalittico.
È la classica pellicola sospesa, in cui non capisci cosa succeda o dove voglia andare a parare, ma hai la netta impressione che un evento senza ritorno stia per succedere: l’incombenza di qualcosa di epocale e incontrovertibile, percepito nettamente dai giovani ma inimmaginabile per gli adulti, a cui questi adolescenti sempre seri sembrano quasi alieni. Ditemi se non è la descrizione perfetta del qui e ora.
Quello di Sébastien Marnier è, di nuovo, il secondo lungometraggio in carriera. Un gioiello di costruzione per come parte alla lontana, giocando ad essere il prototipico film francese sulla scuola; filone popolarissimo a Parigi e dintorni sin dai tempi di La classe. Anche se qualcosa di stonato c’è da subito: il protagonista Pierre Hoffman si ritrova a fare da professore sostituito in una classe di un liceo d’eccellenza dopo che il suo predecessore si è suicidato sotto gli occhi degli studenti. Ti aspetti il film lacrimevole in cui lui aiuta i ragazzi difficili ad uscire dallo shock, ma pian piano temi per il protagonista, accerchiato, bullizzato, affascinato e forse messo in pericolo da un gruppo di ragazzini sospesi tra occultismo, fanatismo e pagelle immacolate, che sembrano ora schernirlo, ora tentare di aprirgli gli occhi, ora minacciarlo di morte.
Mi fermo qui con la trama perché va visto, ma lascio un paio di note sparse. È la fotografia migliore nello spiegare le reazioni spropositate di taluni alla figura di Greta Thunberg. Ha un modo incredibile di descrivere il naturale come artificiale in quanto rigidamente governato dall’uomo. Ti mette sotto il naso la soluzione senza che tu te ne accorga. Luana Bajrami, che ritroveremo alla numero 1, è bravissima, ma Laurent Lafitte è ancor più strepitoso. [RECE]
Nota extra: ho scoperto che Einaudi ha pubblicato la traduzione del romanzo di Christophe Dufossé da cui è tratto. Mhhhh.
Se ti è piaciuto questo film potresti anche provare: Non ho intercettato un altro film simile a questo nel 2019, però quello che ci va più vicino per atmosfera apocalittica è La casa di Jack di Lars Von Trier.
Se avessimo potuto parlarne un anno fa, sarebbe stato ben più in alto, ma per me questo è un film intrinsecamente e incontrovertibilmente 2018, anzi, agosto 2018 (ne riparliamo), uno dei migliori di una Venezia più pop e più azzeccata dell’edizione 2019. Non nascondo il fatto che questo film cavalca tanti di quei filoni, generi e scelte stilistiche da me apprezzate (dalla musica ai costumi passando per il curatissimo design+font dei titoli di testa) che galoppa in automatico verso il Listone. Ha dalla sua un Oscar inaspettato e almeno un paio di scelte coraggiose che mi fanno dire che c’è ben più per il mio soft spot per le lesbicate in costume (ne riparliamo x2). Innanzitutto ha coronato un lento riposizionamento di Yorgos Lanthimos dal cinema autoriale quasi imperscrutabile a quello commerciale quasi pop e – incredibilmente – non solo ci sguazza che è una meraviglia, ma lo trova più equilibrato e in palla che mai. È sempre uno dei cineasti viventi con meno fiducia del genere umano in circolazione (un giorno disputeremo una finalissima tra lui e Von Trier di cui sopra) ma almeno qui non usa la sua misantropia per farci sentire sull’orlo del baratro ma per divertirci.
Dovendo torturare qualcosa, se la prende con il genere del costume drama (ne riparliamo x3): perché sì, La Favorita è un film in costume messo in scena con tutti i soldi, la cura e quel briciolo di leziosità tipica del genere, ma è anche un titolo che demitizza e demonizza quell’aura di eleganza pulita legata a qualsiasi cosa abbia corsetti e gonne a strati. Lanthimos mischia il fango e lo sterco, non perde l’occasione per sporcare il sepolcro imbiancato del costume drama, tirando fuori la cosa più vicina al femminismo che ci può essere senza perdere di vista l’epoca in cui è calato, in cui lo stupro e il sopruso sono espressioni naturali, una costante più certa della corona d’Inghilterra. Vivaldi sì (ne riparliamo x4) ma anche angoli male illuminati e una società classista attraversata trasversalmente solo da pregiudizi e stereotipi. Inoltre ha puntata su Olivia Colman prima che fosse cool(man), ma a dirgli grazie dovrebbe essere anche Emma Stone, che ha potuto un po’ allentare i lacci del suo ruolo di fidanzatina non ufficiale d’America. Per non parlare di Nicholas Hoult, che appare in tre scene e lascia più ricordi di interi film che lo vedono protagonista. Su Rachel Weisz sappiamo già tutto e pure Lanthimos, che le riserva con fiducia i ruoli più delicati che si ritrova per le mani sin da The Lobster. [RECE]
Se ti è piaciuto questo film potresti anche provare: Da Antonio Vivaldi a Britney Spears, dalle carrozze ai jeeponi, essere donne rimane uno schifo, ma l’unione (e i sottotoni lesbo) fanno la forza: Le Ragazze di Wall Street. Un progetto riuscitissimo che dietro le quinte ha un regista carismatico e influenzatore dei coevi quanto e più Lanthimos: Adam McKay. [RECE] [YT]
È un film che Martin Scorsese ha già fatto, tipo…e poi ti citano alcuni dei migliori film della carriera di uno dei migliori registi (italo)americani di sempre. Questa è l’eccezionalità di Scorsese: uno che spinge in territori quasi inesplorati il concetto di testamento spirituale, umano ed artistico tirando fuori una delle prove più emozionanti della sua carriera ineguagliabile e tutto sommato da lui ce lo aspettiamo.
Invece non c’è niente di scontato in The Irishman, un film che odora di morte più di un cadavere in putrefazione eppure è più vivo di tanto cinema lezioso e mummificato di gente che ha la metà degli anni di Martin e un briciolo del suo genio.
Sta per partirmi l’Amarcord? Sì, sta per partirmi l’Amarcord. Per mia fortuna questo film l’ho visto in una sala cinematografica, in una vecchia sala cinematografica milanese (al singolare nel senso che c’è una sala e punto) di periferia che pare un tunnel spazio temporale per gli anni ’70 e, uscita dalle ore e ore di addio di Martin Scorsese se non al cinema a una certa epoca di cinema, sapevo che avrei ricordato per sempre la sala, l’amico che per caso ho incontrato all’ingresso, il sole che tramontava all’uscita sugli stradoni di Milano (non è una una licenza poetica, posso fornire una prova fotografica). Alcune delle ore spese al cinema meglio investite del 2019.
La vera tragedia, che dà ulteriore profondità e senso al messaggio ultimo del film – che è quasi finito anche il momento degli addii, che non c’è più tempo e rimane solo la morte, l’oblio, i film della Marvel e forse l’estinzione della sala – è che per girare questo film il nostro è dovuto andare col cappello in mano dall’Anticristo di un fautore della sala e del cinema tradizionale come lui e con un sottotono vagamente faustiano Netflix gli ha messo in mano 200 milioni di dollari necessari per scrivere una delle ultime pagine del cinema del Novecento. Se voi non percepite la straziante, dilaniante bellezza di questo fatto extra cinematografico e come tiri una manata di pittura che rende ancor più brillanti le tinte vivissime di questo film, non so come salvarvi dal peplum moderno, cioè i film di supereroi.
Detto questo, questo è quel genere di film che sin dal movimento di camera d’apertura si inserisce nel territorio dei fuoriclasse, salvo poi sperimentare a lungo e a fondo. Non mi riferisco tanto alla tecnica di ringiovanimento o invecchiamento dei tratti somatici dei protagonisti, quanto per esempio all’uso moderato, unico e modernissimo dei rallenti, che Scorsese pesca dal cestone di avanzi di Zack Snyder e rende suo, aggiungendo un significante a una tecnica ormai usata perché fa figo o come sottolineatura di un cinema americano in overdose da spiegazioni e marcature. Vi ricordo che il nostro è del 1942: rallenti. 1942.
A sceneggiare c’è Steven Zaillian, che è un portentoso adattatore di storie non sue, davanti alla cinepresa c’è la cena di classe di un anno così lontano nel tempo che ci si guarda bene negli occhi consapevoli che è praticamente un addio. Solo che non sono solo De Niro, Al Pacino e soprattutto Pesci a guardarsi così, è anche questo film che ti guarda dritto negli occhi e ti legge un testamento spirituale di sbagli, errori umani e profesisonali e si chiude con un silenzio cocciuto e una porta socchiusa: l’angoscia e il senso di catarsi sono quelli di un funerale.
Se poi penso che Joe Pesci – che è qui per Martin e dal dietro le quinte dicono che più che dalla pensione sia tornato praticamente dall’oltretomba, ritardando di poco l’inevitabile – con quella che potrebbe essere la sua intepretazione migliore di sempre ha perso l’Oscar contro la constatazione filmica che tutto sommato uno può avere la tartaruga anche a 56 anni, mi sento di umore mortifero pure io.
Anche: Anna Paquin infila uno dei ruoli femminili migliori del 2019 apparendo in 4 scene e dicendo si e no 4 frasi.
Infine: cosa darei per sapere com’è che il passaggio di questo film a Venezia 76 sia saltato. Palesemente all’ottima pattuglia di Netflix Marriage Story e Landromat mancava la testa di serie. Chissà quale richiesta di Scorsese Barbera non ha ottemperato, spingendo il regista a scegliere il decisamente meno blasonato New York Film Festival. Chissà cosa sarebbe cambiato agli Oscar dopo un propedeutico passaggio in Laguna.[RECE] [YT]
Se ti è piaciuto questo film potresti anche provare: C’è un pezzo che ho nelle bozze da tempo e che prima o poi pubblicherò. Parla dei grandi testamenti spirituali arrivati al cinema nel 2019. Scorsese, la posizione numero 2 del Listone e Roman Polanski con L’ufficiale e la spia. Su quest’ultima questione sappiamo come è andata a finire, ma rimane un lavoro cinematografico che suscita tante riflessioni interessanti. È un peccato che Polanski non sia riuscito a farlo anni fa, quando carezzava l’idea di questo progetto e quando se un suo titolo era controverso, lo era solo per quanto accadeva nel film stesso. Oggi diventa anche un gioco qui equilibrismo etico anche solo parlarne. [RECE]
Mi spiace davvero tanto per voi, ma mi sta per partire un altro pistolotto. Primo: non è possibile che io debba scegliere tra veri film del 2019 e lungometraggi che erano del Listone del 2016 (perché allora mi basavo sulle mie di visioni) e di cui ho intervistato il regista a riguardo a Firenze nel 2017. Vorrei dire ridefiniamo il concetto di uscita tardiva, ma ci rivediamo l’anno prossimo dato che è uscito qualche settimana fa da noi Memorie di un assassino. Secondo: con tutto il bene che posso provare per il genere umano nelle sue uscite più brillanti io non posso proprio concepire come il regista coreano che avete voluto far diventare Il Regista Coreano non sia Park Chan-wook, che è un genio. Un genio! Non sbaglia un film nemmeno quando tutto gli rema contro, ha una curva femminista in continua ascesa, ha provato praticamente ogni genere con risultati strepitosi e questo suo Mademoiselle è uno dei migliori film dell’ultimo quinquennio. Voi ricordatemi questa cosa dal vivo e mi vedrete andare in berserk. Ditemelo che lo fate per farmi venire un accidente, ditemelo. Prima consacrate Sebastián Lelio come primo vincitore di Oscar cileno della storia quando a produrlo c’è un cineasta eccezionale come Pablo Larraín che non si sa più come farvi notare nella sua continua espressione artistica ai limiti della perfezione. È stato dura controllare l’irritazione, ma ce l’ho fatta.
Ma Bong Joon-ho come non plus ultra del cinema coreano? Uno che ha fatto autentici capolavori, pellicole matte matte ma belle, film indovinati, lungometraggi paraculi con cui a accaparrarsi l’attenzione dell’Occidente tipo Parasite e poi Okja? No dico, ma ve lo ricordare Okja? Perché io sì.
Ecco, io non so in tutta onestà se questo mondo si merita Park Chan-wook, il Larraín coreano (e viceversa). Uno che in un anno così ricolmo di pregevoli film lesbo chic in costume tira fuori un’opera tra l’eccezionale e il capolavoro come questa. Oramai il resto della manfrina la sapete: attori bravissimi, regia divina, dimensione visiva ed estetica perfetta ad ogni fotogramma (non sto esagerando, voi stoppate il film in un punto a caso e sarà tra il bellissimo e devo farne un poster), sceneggiatura iconoclasta nel riappropriarsi di un certo feticismo erotico ridando potere alle donne e ai loro corpi (e la Corea non è propriamente il posto più fertile del pianeta in cui far germogliare questo discorso), boh, io non so nemmeno più cosa dire. Ah già: pure questo era passato a Cannes e, a distanza di un paio di anni, la critica di sta accorgendo di quanto lo abbia sottovalutato. [INTERVISTA A PARK CHAN-WOOK]
Se ti è piaciuto questo film potresti anche provare: la risposta più logica è questa serie TV qui, ma rimanendo nell’ambito cinematografico non posso che citare l’altro film coreano che ce l’ha quasi fatta a gli Oscar e che ha rischiato di fare quello che Parasite ha fatto quest’anno nel 2018. Burning è un film bellissimo e a lungo sono stata indecisa se includere in classifica il film di Lee Chang-dong o The Handmaiden, essendo entrambi usciti in vistoso ritardo nelle nostre sale ed essendo entrambi riuscitissimi. Park Chan-wook però per me rimane il migliore. Contante che però Lee Chang-dong è riuscito a conquistarmi con un film tratto da un racconto breve di Haruki Murakami e insomma, non è cosa da poco.
Se avessimo potuto parlarne un anno fa, sarebbe stato ben più in alto, ma per me questo è un film intrinsecamente e incontrovertibilmente 2018, anzi, agosto 2018. L’ho già scritto? Ecco. L’ho visto a qualche ora di distanza da La Favorita, di cui sopra. Ora sarebbe lecito da parte vostra chiedermi se ci sarà da qui alla fine un film che non presenti sottotesti lesbochic o quantomeno artistico queer e la risposta, miei cari, è no. Non è colpa mia se nel 2019 i gay did it better. Ma poi stiamo parlando di Luca Guadagnino che gira una versione di Suspiria la cui sceneggiatura non sia interamente appuntata su un tovagliolino da bar di quelli plasticosi che non servono nulla, correggendo quell’elemento che ho sempre trovato insostenibile nei film pazzeschi di Argento e Bava (insieme alle squinzie abbastanza inabili, ma qui c’è comunque Dakota Johnson, quindi non posso volare altissimo ecco, pur cavandosela).
Anzi, il suo Suspiria l’ho apprezzato proprio perché è tutto il contrario, con coraggio e con orgoglio. È un film di una piaggeria infinita e sublime nel ripercorrere un anno cruciale come il 1977, un momento iconico di Berlino, un’arte altolocata come la danza contemporanea, con il solito corollario del bene FAI delle mie parti trasformato in un set strepitoso. Ma soprattutto è il Guada: lo sapete che da queste parti c’è una certa pregiudiziale. Giusto per riequilibrare la mia partigianeria ho rivisto tutte le sue prime cose e alla fine anche io [SPOILER] mi sono strappata a manate il cuore dal petto per la disperazione. È stata una vera prova d’amore ma d’altronde cos’è il Suspiria di Luca Guadagnino, se non un film sulle più pure e intense forme d’amore, annegato in un ettolitro di sangue artisticamente spiattellato qua e là, che intride i costumi ancor prima delle mattanze? Alla fine è proprio questo che adoro di Guadagnino: sotto sotto (forse nemmeno così sotto sotto) è uno che crede nell’amore e nelle persone (possibilmente ricche di talento, di cultura, di cash o di tutte e tre). Infatti qualche anno fa disse si aver odiato The Lobster di Yorgos Lanthimos; appunto.
Dato che del Guada e del film in sé credo di aver già detto quanto umanamente sostenibile qui e altrove, lasciatemi sottolineare che il nostro è anche bravo a circondarsi di talenti incredibili che ne amplificano i meriti. Di Walter Fasano ormai abbiamo capito la bravura, quella del direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom è letteralmente sotto gli occhi di tutti, mentre trovo personalmente offensivo che Giulia Piersanti non sia ancora stata nominata agli Oscar per i suoi costumi: anche qui il suo lavoro è iconico come pochi nell’annata…di quale che sia l’annata in cui vogliamo inserire questo film. [RECE DAL LIDO]
Sto per fare un’affermazione scioccante. Più ci penso e più mi convinco che se fossi riuscita a rivedere Dolor y Gloria nel corso del 2019, forse sarebbe stato al numero uno. A proposito di testamenti spirituali e di gente che si strappa il cuore e te lo mette in mano mentre ancora batte: Pedro Almodóvar ha tirato fuori uno dei film della sua vita, una confessione a cuore aperto così vera e così onesta da essere quasi straziante da guardare. Pur non avendolo ancora rivisto, mi sono trovata a rifletterci su così tante volte, mi ha lasciato così tanti pensieri che ho il sospetto che sia davvero un po’ troppo da digerire in una sola volta.
Ha un solo difetto, ma difetto è un parolone: funziona proporzialmente al tratto di strada cinematografica percorsa insieme a Pedro Almodóvar. Su di me ha avuto un impatto devastante, mi veniva da piangere per come il film mettesse a nudo quanto di sé avesse accuratamente occultato e trasformato in fiction, cinema e arte nei lungometraggi precedenti, lasciando il suo vivo e nudo io al centro della scena. Non oso immaginare cosa sia stato per chi Pedro lo segue dai tempi di Pepi Luci Bom e le altre ragazze del mucchio.
Il cambio del nome da Pedro a Salvador (quale nome più cristologico per uno che si sta mettendo in croce per i suoi peccati?) è un così impalpabile velo dipinto, la maschera che fu necessaria a Mishima tanto quanto lo a Almodóvar per parlare senza freni e senza reticenze. La gloria rimane ai margini, lavata da un dolor che è un processo durissimo, che non lo assolve da nessuna leggerezza o autoinganno. Esattamente e ancor più di Scorsese, il regista spagnolo si aggrappa disperatamente al cinema e i limiti imposti dal suo corpo diventano disperanti e abissali. Lo dico: c’è un po’ del tardo Fellini, se fosse stato spagnolo e gay e amico di Banderas.
Qui Antonio Banderas è eccezionale, non ci sono altre parole: colmo del dolore esistenziale e fisico di un uomo e di un’artista, che straborda senza bisogno di balletti o primi piani insistiti tanto quanto la metafora della scalinata (se pensavate che avrei taciuto sulla piacioneria pornografica di Joaquin Phoenix, beh, vi sbagliavate di grosso). È un film stranissimo Dolor y Gloria, che spiega chiaramente la crescente ossessione per il corpo degli ultimi lavori di Pedro Almodóvar, costretto a fare i conti con la fragile pelle che abita e al contempo masochisticamente pronto a mettere il dito in ogni piaga. È anche un film stranamente assessuato, eppure percorso da forme d’amore sublimi. È La Cura di Franco Battiato, se l’amore fisico si trasfigurasse non in spiritualità ma in ossessione artistica. È un film sulla dipendenza personale del regista – il cinema – sulla sua misantropia, sulla solitudine e sulla morte. È un lungometraggio appena trattenuto dagli evidenti limiti imposti dalla condizione fisica non ottimale di chi gira, ma che in un pugno di scene fa capire, tra le altre cose, di avere una profondissima comprensione di cosa significhi davvero lottare per affrancarsi dalla povertà, a differenza di chi gli ha scippato una Palma sacrosanta e meritatissima. Anche qui, all’uscita dalla sala ho avuto la nettissima sensazione di aver pianto una persona cara: stavolta però non c’è catarsi, ma solo intimità dolorosa e un’angosciante senso d’attesa. [RECE][YT]
Non mi è rimasto più nulla da dire su questo film che non abbia già pubblicato in qualche pezzo delirante o salvato in qualche bozza che prima o poi ultimerò, perché ogni passaggio, ogni scena qui si apre sull’inesplorato. Céline Sciamma ha scomposto un certo tipo di cinema in costume, un certo modo di raccontare le donne e una serie lunghissima di scelte spacciate per dati di fatto, rimontando il tutto in un film che mostra una via nuova. Un lungometraggio pianificato minuziosamente per anni prima ancora di girare una sola scena, ma al contempo realizzato volontariamente con un budget e un tempo risicati, con sullo sfondo il timore di farsi inghiottire dal manierismo del genere storico in costume.
Così in tre settimane e con tre interpreti protagoniste Céline Sciamma porta a casa una serie di idee che ha voluto portare su schermo, tableau che alla fine compongono una storia, o forse é solo nella nostra testa, perché pensiamo di osservare passivamente mentre stiamo attivamente dando un significante. Quello che vediamo dentro un film come Ritratto della giovane in fiamme dice tantissimo di chi siamo e cosa ci aspettiamo dal cinema non tanto di oggi ma di domani.
Io per esempio ci ho visto un rapporto umano profondissimo che nemmeno la cinepresa riesce davvero a filtrare, anzi: in un infinito gioco di osservare ed essere osservati, non si può ignorare che la Adèle Haenel – donna inquieta e attrice potentissima – che vediamo è calata nell’alter ego che la regista ha costruito a sua immagine e somiglianza, che a sua volta osserviamo attraverso il rapporto umano con chi osserva e ritrae nel film. Se Noémie Merlant non viene spazzata via dal rapporto a due che si consuma tra la cinepresa e lo sguardo di Haenel è perché è una grande interprete.
Curioso che Sciamma e Lanthimos facciano la stessa cosa, a un anno di distanza: è come se entrambi tentassero di squarciare le convenzioni del cinema in costume usando come artigli le loro protagoniste, tirando uno da una parte e una dall’altra, finendo per ottenere due film diversissimi ma che nei momenti cruciali fanno le stesse scelte e ricorrono allo stesso Vivaldi. Altro aspetto curioso che mi ha fatto molto riflettere: questo film, amato follemente dalla sottoscritta e dalla stampa statunitense, ha suscitato reazioni ben più tiepide in Francia, dove la critica gli ha preferito altre pellicole (tra cui Atlantique e I miserabili). Rimane per me estremamente deludente e sconfortante che questo sia stato il film femminista e rivoluzionario dell’annata sì, ma solo in una certa nicchia festivaliera e cinefila. Per il resto del mondo sapete come è andata. Il pensiero che Céline Sciamma sia ancora avanguardia pura mi getta un filo nello sconforto. Per fortuna a consolarvi rimane un film che ha consacrato una sceneggiatrice che ammiro e un’attrice che amo e che d’ora in avanti potrà solo espandere a macchia d’olio il suo status di film epocale. [RECE][YT][INCONTRO CON SCIAMMA E GOLINO]
Ho amato alla follia Parasite, il cinema coreano è il mio beniamino e quando lo vidi pensai subito che per me era il film dell’anno. Poi a fine dicembre uscì Ritratto della giovane in fiamme e ha stravolto ogni cosa. Concordo quando scrivi di averci visto “un rapporto umano profondissimo che nemmeno la cinepresa riesce davvero a filtrare”, in particolare nel finale, Sciamma mi ha dato l’impressione di voler a ogni costo tentare di coinvolgere lo spettatore nelle sensazioni fisiche di un sentimento così forte. Ho le palpitazioni anche solo al ricordo. Stupendo.
Ritratto della giovane in fiamme è uno dei film che attendevo di più quest’anno e non l’hanno trasmesso nelle mie zone. Questa cosa ancora mi ferisce profondamente. Per il resto ottima lista e apprezzo molto quello che hai detto di The Irishman. Scorsese riesce sempre ad essere moderno e a mostrare un amore verso il cinema più grande di tanti altri. Il primo re e Suspiria sono state delle grandi sorprese. Il primo perché mi sono ritrovato una pellicola incredibile sulla fondazione di Roma molto realistico nelle ambientazioni e nel periodo ma con quel senso del divino che mi ha fatto piacere, il secondo perché è stato un bel remake anche se non ai livelli dell’opera di Argento.