Rivedendo Neruda di Pablo Larraín a qualche mese di distanza dalla seconda o terza visione del suo Jackie ho notato una somiglianza che mi sfuggì quando vidi entrambi per la prima volta a cavallo tra il 2016 e il 2017, l’incredibile annata in cui il regista cileno regalò al cinema due splendidi film biografici che nessun altro avrebbe potuto girare, allora e oggi.
In un momento di notevole splendore per le vite iconiche narrate al cinema, in cui il vecchio racconto biografico per immagini mutava pelle e da agiografia dettagliata diventata fotografia di un fugace periodo (anni, mesi, talvolta giorni) che sintetizzassero in un istante un’intera vita, Larraín s’inoltrò nel post moderno, nell’ipermoderno. Il regista s’insinua laddove sogno, storia e propaganda (quella a cui guarda con gelida chiarezza sin da No – I giorni dell’arcobaleno) si fondono e creano una bugia che plasma un volto dietro la maschera.
[il pezzo contiene SPOILER rilevanti sulla trama dei film citati]
La maschera sono Jackie con il tailleur sporco di sangue e il sorriso affettato mentre guida gli americani dentro la Casa Bianca. La maschera è la poesia di Neruda che innerva di passione le pubblicità di polpa di pomodoro e le librerie con le frasi pitturate sui muri a stencil. Sono i volti che conosciamo o crediamo di conoscere, riconoscibili così come sintetizzati da quelle linee e quelle immagini che ne compongono la nostra superficiale conoscenza.
Il volto è al centro dei due film. A un primo livello è quello che si premurano di fare Jackie e Neruda: costruire la loro faccia(ta) pubblica. Non è esattamente un raccontare l’uomo e la donna dietro la maschera, perché Larraín non si professa mai conoscitore della verità né è tanto superficiale da credere di poterla sintetizzare in un film (ciao, cinema statunitense).
Quello che gli preme è farci capire quanto la maschera sia tracciata con consapevolezza ora analitica, ora istintiva, da chi si prepara a indossarla. In Jackie il discorso è particolarmente esplicito, quasi urlato per gli standard del cineasta cileno. D’altronde non è lui a scrivere il film e in ultima istanza non è lui a dirigerne i lavori, regalandoci un lungometraggio sui Kennedy girato da uno straniero in terra straniera, freddo come la neve, che si scalda solo quando spoglia il mito di un presidente e di un re guardandone le spoglie scomposte e sanguinanti, mostrandoci con disarmante distacco quel sangue e quelle cervella che abbiamo atteso per tutta la pellicola. Il re é nudo, il re é morto. Il re è irriconoscibile perché Jackie (la donna e il film) coglie proprio quel momento cruciale per trasformare un presidente che ha potuto fare poco e che non ha lasciato quasi nulla in un mito, dandogli una narrazione che nella morte lo trasformi nella leggenda che forse non è mai stato da vivo.
Io ero di carta e ora sono di sangue.
Neruda invece segue il procedimento opposto. Alla prima visione mi sembrò tanto appassionato e ricco di sentimento, laddove il cinema di Larraín sa essere così celebrale da risultare gelido. Stavolta invece no. Il film si scalda solo quando arriva alle battute finali, sulle nevi del sud del Cile, in cui gli attori e la troupe sono affondati per davvero, perché Larraín si dichiara regista restio e nervoso verso il green screen.
È un film su un inseguimento e sul viaggio che è stato girato viaggiando, in cui un mito che conosciamo sulla carta prende forma e diventa sangue e contraddizione. Il regista cileno ha dichiarato più volte che il poeta e pensatore simbolo della sua nazione è una figura inafferrabile, ambigua. Larraín si arrende a corpo morto di fronte a questa evidenza. In Neruda lo riscrive a suo piacimento, forse lo riscrive su sé stesso, sulla sua raffinata cultura e sulle sue possibilità professionali borghesi, che guardano al passato oscuro e all’anima proletaria del suo paese, abbracciandola ma senza condividerne i destini.
Il calore che c’è in Neruda non è irradiato dal poeta, o almeno non del tutto. Larraín ne è chiaramente affascinato, ma non esita a demolirne il piedistallo e la statua. Neruda è l’uomo del popolo che rimane un borghese d’acquisizione, per quanto ripulito. Il premio Nobel è un comunista che vive nel lusso, schermato dalla sua stessa fama internazionale dalle persecuzioni e dalle torture che vivono i compagni cileni. È un gigante a cui tutti chiedono sempre la stessa poesia che declama stancamente da 20 anni, una popstar di cui si ricorda sempre la grande hit romantica. Il regista allude più volte al fatto che è stata la moglie “formichina” a plasmarlo, a crearne il mito poetico e umano. Lei glielo urla proprio in faccia:
Scopriranno la verità, che io sono il poeta e tu non sei nessuno.
Più o meno quello che potrebbe urlare Jackie a John se lui fosse ancora vivo e lei non si trovasse da sola a costruirne il mito. Delia è eterna e lo sa, lo dice. Non ha bisogno di Neruda: è argentina, è ricca, è a sua volta artista (pittrice). Eppure gli ha insegnato come passare alla storia e lui non ha davvero (più) bisogno di lei per farlo, nella misura in cui il suo inseguitore, il poliziotto cattivo di Gael García Bernal, lo pensa e lo insegue, ossessionato dal traditore comunista, bisognoso del suo abbraccio.
Man mano che la fotografia si fa sempre più blu e il Cile si fa sempre più aspro e inospitale, il poliziotto e il poeta s’avvicinano, si richiamano, desiderano abbracciarsi. Come predettogli da Delia (lei che è eterna, lei che sa) Oscar è un personaggio minore, che muore di una morte misteriosa e poetica, tra la neve mista il sangue, senza che si capisca come o perché. Al suo fianco c’è Neruda, che non sa se piangerlo o cantarlo, se riconoscerlo o no. Sarebbe la chiusa geniale e poetica di un romantico, ma Larraín è un artista freddo e tagliente, che non baratta il suo cinema per un’immagine poetica.
In Jackie basta un intervistatore e la sua voce fuori campo per svelare la bugia su cui si regge il film (quella del mito dei Kennedy, che il regista smonta accuratamente per voce di chi lo ha costruito). Invece in Neruda tutti raccontano la loro versione, mentre il film affonda in una dimensione indistinta tra sogno e realtà, biografia e romanzo. Neruda è la biografia di Neruda così come scritta dal poeta e travisata dal suo popolo, sembra dire Larraín. No, l’ispettore non può morire poeticamente nella neve. Lì finisce la sua vita di carta, ma è grazie al canto di Neruda che ritorna e si fa sangue.
Il film non racconta il poeta simbolo di una nazione, ma il popolo che si è scelto quel poeta come simbolo. Non è un caso che il film percorra in lungo e in largo il Cile, partendo dal parlamento e dal palazzo di Gabriel González Videla fino a arrivare ai passi montani percorsi dai contrabbandieri a cavallo. Neruda all’inizio è un poeta d’amore e di vino, che racconta la terra di cui è figlio (lui che fino a 12 anni non aveva nemmeno un paio di scarpe), ammantato di tutta la ricercatezza intellettuale ed economica di cui si è circondato.
Il suo animo popolare persiste nella passione per i romanzi gialli pulp ricchi di sesso e violenza che lascia al suo inseguitore, ma coltiva l’irrequietezza dell’artista parigino, frequentando bordelli e case di malaffare. Si traveste, non visto, tra puttane e poverelli, inafferrabile per l’ispettore e per i suoi lettori. Neruda sfugge e l’ossessione di tutto il cinema di Larraín fa la sua prima, fugace apparizione: è più di un decennio che il regista racconta il Cile così come deturpato nell’animo da Pinochet, eppure questo è il primo film in cui il grande dittatore è una presenza visibile, ancora sconosciuto e irrilevante, ma già dedito al sangue.
Forse la parte più impressionante di Neruda, la più audace e terribile, è quel collegamento che Larraín traccia tra Neruda e Pinochet, quasi tra causa ed effetto. Uno spalleggiatore della fuga del poeta implora il protagonista di essere più umile, di non cercare a tutti i costi una fuga in grande stile. Con la tua persecuzione di facciata cancelli quella vera che i compagni stanno subendo, gli dice. Poco prima una compagna gli fa notare che se veramente il Presidente volesse catturarlo, lui di certo non starebbe in case borghesi a declamare “di nascosto” i suoi versi. È un inseguimento fantastico, proclama il poeta in apertura di film, una fuga che manca di terrore, dirà l’ispettore. Non può essere altrimenti: il terrore sotto traccia scorre nel cinema di Larraín mentre si allunga la grande ombra di Pinochet sullo sfondo.
La genesi di Neruda è intrecciata senza scampo a quella di Jackie. Scrivendo il primo gli viene proposto il secondo e lui, con poco più di un’alzata di spalle, decide di dirigere entrambi, quasi in contemporanea. Così Jackie, la donna che privata dell’amore del marito decide di costruirsi da sé un mito che le tenga compagnia, dialoga spalla a spalla con Neruda, il poeta che cantava l’amore e divenne voce della guerra. È dalle battute più casuali che vengono fuori le verità più terribili nel cinema di Larraín. È una giornalista parigina infatti a chiedere al poeta esule se il suo intervento politico (il sostegno politico dato prima a Videla, poi ad Allende) non metta in secondo piano la poesia.
L’ispettore rinascerà come creatura di sangue (affermazione dalla terribile ambiguità), che vorrebbe abbracciare il poeta ma che si dichiara affascinata dal pensiero fascista che lo perseguita. Certo Larraín non lesina stoccate al comunismo cileno (o forse al comunismo in senso lato), che riassume efficacemente con il rimbrotto di una donna ubriaca che chiede al poeta:
Quando voi prenderete il potere saremo tutti come te o tu diventerai come me, che pulisco la merda dei borghesi da 10 anni?
Eppure una delle poche realtà che vena d’emozione il cinema celebrale di Larraín è l’orrore che prova di fronte a come Pinochet e il suo governo abbiano lordato l’animo dei cileni. È stato Neruda politico a dare al suo popolo le parole poetiche per raccontarsi perseguitato e ucciso o sono stati i suoi compatrioti a riconoscersi in lui e non nel poeta dell’amore e del vino? Non è un’enigma che un film come Neruda – costruito sulla fascinazione erotica tra fuggitivo e poliziotto, tra perseguitato e persecutore – possa o voglia rivelare.
Quel che sta a cuore a Larraín non è né la maschera né la persona che ci sta dietro, perché sia Jackie sia Neruda sembrano postulare con precisione che uomini e donne, grandi e piccoli, sono un riflesso sull’ottica della cinepresa, che riesce a metterli a fuoco per un attimo, prima che la contraddizione di cui sono fatti la costringa all’inseguimento. A Larraín interessa la bugia alla base di quel volto su cui si poggia la maschera: la costruzione intenzionale del proprio sé su cui plasmare il proprio mito, che al contrario della natura umana è preciso e univoco. Quando la bugia funziona, a Neruda e Jackie non è nemmeno più necessario fingere, perché è la persona davanti a loro ad alimentare la narrazione della maschera, del mito. Così la cantante prostituta racconta di un poeta suo pari nell’arte e nell’umanità che in realtà le ha appena rivolto la parola, così Jackie fa del giornalista accorso a cavarle fuori la verità il suo megafono che propaghi le note e il credo della Camelot che lei (e non John) sta costruendo.
Larraín non racconta propriamente personaggi, ma solleva maschere, apre volti e afferra bugie. Alle volte la crea addirittura, quando non c’è abbastanza materiale storico o quando il gioco cinematografico si presta particolarmente a questa sua ricerca. Così la bellissima scena di Jackie dietro il finestrino con Dallas e la storia che scorrono sul vetro si riflette in Neruda, dove è il poeta a guardare il Cile dal sedile posteriore di un auto mentre si riflette sul vetro. Così c’è sempre qualcuno di esterno a rivendicare la costruzione del mito e quel qualcuno è una donna: Jackie e Delia, che consapevolmente costruiscono i miti di John e Pablo, ritirandosi poi nell’ombra, complete ed eterne. Così immerso nel sogno e nell’illusione, che senso ha il cinema di Larraín, che decostruisce miti per mostrarci bugie che talvolta alimenta lui stesso, con un cast e una troupe perpetui, simili a una compagnia teatrale? Lui dice che più che una storia o un personaggio, cerca un’atmosfera. Cita Godard, regista che si faceva abitare dai suoi personaggi come gli aeroporti e le stazioni accolgono i passeggeri.
A essere ospitati in Jackie e Neruda sono soprattutto quanti di quei miti si alimentano, che magari sono andati al cinema per vederli proclamati e si ritrovano davanti pellicole sconcertanti, ciniche e ingannatrici. L’identità del singolo finisce per fondersi con quella della folla che vota no, guidata se non da una bugia, da un plasmare la realtà in modo molto calcolato. La dittatura nasce laddove un poeta si occupa di politica, la dittatura finisce quando la politica diventa prodotto da vendere, una pubblicità con il giusto jingle.
Persino gli Stati Uniti sono freddi, distanti, quasi quanto lo sguardo con cui Larraín li racconta. In Jackie sono un paese ostile a una sua futura icona, in Neruda sono il mandante della persecuzione contro il poeta (cioè i facilitatori dell’ascesa al potere di Pinochet).
Eppure il cinema di Larraín non è mai veramente freddo, perché a differenza di un Lanthimos o di un Haneke, è sempre partecipe di quanto racconta. Proprio come Neruda, il regista non può sfuggire al Cile, non può fare a meno di raccontarne il passato, mettendo a fuoco le bugie sulle quali ha costruito la sua identità. Il suo unico film che parla del presente è Ema, che è caldo, incendiario, pieno di contraddizioni che prendono fuoco e spesso scottano anche lui. In quella pellicola è lui Neruda, il poeta che racconta un paese di cui non fa davvero parte, il regista 40enne che entra nell’universo dei giovanissimi latinoamericani, tra musica e rivoluzione. È la pellicola più vicina all’essergli mai sfuggita di mano, eppure è anche stato un film che mette a ferro e fuoco il Cile pochi mesi prima che il paese scendesse nelle piazze, confrontandosi con una crisi economica e spirituale ancora senza risoluzione.
Non c’è un Neruda a dettare una nuova bugia e forse per questo quaggiù ci si è presto dimenticati di un paese in ebollizione, senza pace e con molta memoria. E senza il regista che l’ha raccontato a livello internazionale e che ha realizzato Ema in una pausa in attesa del suo grande salto negli Stati Uniti, dove lo aspetta un nuovo film (The True American, recita il titolo) e una serie TV tratta da un romanzo di Stephen King. Chissà se come l’esule Pablo Neruda, Pablo Larraín riuscirà davvero a stare lontano a lungo dal suo paese. Continueremo a inseguirlo, a volerlo abbracciare, a riguardare il suoi film che distruggono miti eppure ti fanno venire voglia di tornare a leggerne i libri.