Tag

, , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

In rigoroso ordine di visione, con tanto di voto in stellette, riporto gli appunti volanti presi a caldo al Lido, all’uscita dalle proiezioni dei film di Venezia 77. Quali film mi sono piaciuti e quali, tutto il concorso (Leone d’Oro incluso), qualche incursione tra Giornate degli Autori, sezione Orizzonti e Fuori concorso, al netto di un paio di film in cui ero presente ma il sonno mi ha vinto.

LACCI di Daniele Lucchetti (Fuori concorso)
🌟🌟½

Tratto dal romanzo di Domenico Starnone. Una coppia sposata nella Napoli degli anni ’80 entra in crisi quando lui, speaker radiofonico della RAI, confessa alla moglie di averla tradita.
Girato e interpretato esattamente come ti aspetti, esattamente dai soliti noti che immagini leggendo il libro. La forza di Lacci sta tutta nel romanzo di Starnone, che il film ha il merito di portare su schermo egregiamente, senza però spingersi oltre, tantomeno osare essere un po’ più cattivo o incisivo nel seguire lo scontro tra lui, lei e i figli.
Agli stranieri potrebbe piacere parecchio per la sua allure da Elena Ferrante in salsa  borghese. Se Rai e 01 son furbe, lo rivenderanno esattamente così. [RECE][INTERVISTA]

MILA (MELE) di Christos Nikou (Orizzonti)
🌟🌟

Un’epidemia improvvisa si diffonde tra gli abitanti della Grecia. Chi ne viene colpito perde tutte le proprie memorie: chi sia, dove viva e con chi, che lavoro faccia, persino quali cibi gli piacciano. Quanti non vengono “reclamati” dai propri parenti (perché soli o perché anche i congiunti si sono dimenticati tutto) vengono avviati a uno specifico programma rieducativo che tenta di far accumulare loro nuove memorie per donargli una nuova normalità.
Con tutte le prospettive interessanti offerte da questo presupposto narrativo – sociali, politiche, esistenziali ma comunque in chiave collettiva – quella scelta dal regista è davvero la più trita e banale: quanto dramma nel perduto amor di un uomo ora solo. Seriamente? In proiezione potevo sentire le single manly tears della platea scendere scintillando nel buio.
I suoi momenti li ha, in positivo e in negativo, sempre in ristrettezze economiche. Non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa sarebbe stato in mano al suo connazionale Yorgos Lanthimos.

NAG-WON-UI BAM di Park Hoong-jung (Fuori concorso)
🌟🌟
Dopo un terribile attentato ai danni della sua famiglia, un giovane affiliato di una gang criminale si vendica del torto subito e fugge sulla remota isola di Jeju, presso un locale collaboratore che vive con la scontrosa figlia in un casetta distante da tutti, in attesa che le acque si calmino per poter fuggire in Russia.
Dopo quel che è successo l’anno passato con Parasite, non si può fare un cartellone festivaliero senza almeno un film coreano. In questi tempi d’emergenza al povero direttore artistico Alberto Barbera è toccato il gangster movie coreano più scarso degli ultimi anni. I personaggi ci sono, la storia alle volte è indovinata (anche se telefonatissima, perché Hoong-jung non sa proprio tenere le proprie carte coperte) ma la regia è proprio bruttarella e televisiva. Solo per appassionati.

THE HUMAN VOICE di Pedro Almodóvar (Fuori concorso)
🌟🌟🌟

Basato sull’opera teatrale opera teatrale del francese Jean Cocteau del 1930 e rielaborata in un cortometraggio di 30 minuti. Una donna chiusa nella propria casa attende che l’amante di un tempo vada da lei per recuperare gli ultimi oggetti e abiti che ha lasciato dietro di sé.
Cosa ci può essere di tanto iconico quanto Isabelle Huppert che compra un’accetta in Elle? Forse solo Tilda Swinton che compra un’accetta in The Human Voice. Almodóvar ormai è giunto al livello di “Maestro, ogni volta una grande emozione, ma come fa?” riuscendo a rendere pienamente soddisfacente un’esperienza di visione sperimentale, teatrale e brevissima. The Human Voice corona un’ossessione per un testo che ha fatto capolino in tutto il suo cinema (da Donne sull’orlo di una crisi di nervi in poi) e guarda come stile alla sua prima fase, risultando più carico e barocco rispetto ai suoi lavori più intimi e scarni degli ultimi anni. Basterebbe solo lui con il suo enorme universo artistico e umano a far funzionare il progetto, ma la presenza di Tilda Swinton davvero in palla e in parte lo rendono una delle cose più ineccepibili viste a Venezia. Sull’omaggio a Jackie, Kiss Bill e Il filo nascosto ho urlato interiormente. Voglio vivere in una casa arredata da Pedro, grazie. [+]

QUO VADIS, AIDA? di Jasmila Žbanić
🌟🌟🌟
Un’interprete bosnica dell’ONU si ritrova insieme alla sua famiglia nel bel mezzo dei disordini precedenti al massacro di Srebrenica. Il suo status di dipendente delle forze internazionali di sicurezza la fa sentire al sicuro, fiduciosa di poter salvare la sua famiglia, ma presto scoprirà di essere in pericolo.
Uno di quei compiti ben fatti, con la regia curata, l’attrice che al secondo giorno di concorso già ipoteca la Coppa Volpi, la causa giusta e pure quel tocco di madre coraggio che non guasta mai.
Non ha niente di eccezionale, ma è davvero solido e costante e riesce a tirar fuori un paio di scene visivamente ambiziose dai pochi soldi che ha. All’inizio era anche sembrato che potesse portare a casa qualcosa durante la cerimonia finale, soprattutto per l’interpretazione della protagonista. Anche sparare a zero sull’operato dell’ONU, tutto sommato, non è una posizione troppo scomoda da sostenere. Un facile candidato per l’Oscar straniero.

AMANTS di Nicole Garcia
🌟½

Due giovani amanti sono costretti a separarsi per un fattaccio in cui lui, spacciatore per la ricca borghesia, rimane invischiato. Abbandonata dall’amante per non avere problemi con la polizia, Lisa si rifà una vita con un ricco uomo che la salva dalla solitudine e dall’incertezza economica, dandole accesso a un mondo di comodità e lussi esclusivi, oltre che a un affetto incondizionato. Quando lei incontra per caso dall’altra parte del mondo l’ex, la passione si riaccende, fino all’ideazione di un nuovo piano criminale.
La delusione più cocente di Venezia: è più eccitante il mio riassunto di quanto si vede nel film. Non funziona mai e in nessuna parte, ma d’altronde è un progetto che si basa sul fragilissimo presupposto narrativo che Pierre Niney possa essere credibile nel ruolo di spacciatore da quattro soldi.
Contando quant’è inesistente la chimica tra lui e Stacy Martin (che per insondabili ragioni passa mezzo film in accappatoio) Garcia si è proprio giocata male il suo cast, che invece avrebbe potuto salvarla almeno in parte da una sceneggiatura priva di mordente e ritmo (e piena di buchi). La butto lì: invertendo i ruoli di Benoît Magimel e Pierre Niney tutto sarebbe stato più credibile e intrigante, mettendo un po’ di pepe nel più atono visto ultimamente.THE DISCIPLE di Chaitanya Tamhane
🌟🌟🌟

Avviato allo studio della musica classica indiana sin dalla più tenera età, il protagonista si farà strada in un mondo artistico in declino, scontrandosi con l’interesse calante del pubblico, con le ibridazioni e i compromessi necessari per raggiungere la popolarità, con le delusioni che i suoi maestri e miti gli riservano in età adulta e soprattutto con la strisciante consapevolezza che il suo sacrificare una vita intera allo studio e al perfezionamento della sua tecnica potrebbe rivelare solo la sua mediocrità.
Senza compromessi e mezze misure alla regia il pupillo indiano di Alfonso Cuarón, proprio come il musicista protagonista del film, che persegue la perfezione formale nel mondo in rapido declino della musica classica indiana. Contate di vedere un film sull’eterno dubbio artistico “sarò davvero bravo o sono una mezza sega?” stile Whiplash di Chazelle, ma così rigoroso da sembrare le parti più ciniche di La La Land una fiaba della buona notte.
L’ho trovato bello, ma la mia notevole resistenza ai film lenti e uno spritz pre proiezione hanno aiutato molto a mantenermi frizzante durante le eterne esibizioni in cui il protagonista canta i rag tradizionali. Non aiuta poi il fatto che per chi non abbia conoscenza del genere, è davvero difficile capire se il nostro sia bravissimo o pessimo, ci si può solo basare sulle reazioni degli altri personaggi. Dura 127 minuti, ma lavorando per ripetizioni continue, all’ennesimo concerto ti si dilata il tempo intorno, paiono passare mille anni, ti scorre tutta la vita davanti. Fun Fact: ho chiamato per tutta la Mostra il film The Discipline perché ero fermamente convinta s’intitolasse così e sapete cosa? Funziona benissimo anche con il mio titolo inventato.

TIENGO MEDO TORERO (My Tender Matador) di Rodrigo Sepúlveda (Giornate degli autori)
🌟🌟🌟½
Durante la dittatura di Pinochet, un travestito* che sbarca il lunario cucendo tovaglie per le mogli della giunta militare e prostituendosi di fronte a cinema a luci rosse viene salvato da una retata della polizia da un attivista di nome Carlos. Invaghitosi di lui, lo aiuterà a nascondere del materiale compromettente in vista di un colpo importante del fronte ribelle.
La versione aggiornata di Il bacio della donna ragno: uscire con le ossa al loro posto dal paragone con il film che ha lanciato il cinema indie di livello a Hollywood non è semplice. Tra l’altro gli autori dei rispettivi libri Pedro Lemebel e Manuel Puig erano pure amici, per cui l’affinità tematica probabilmente non l’ho sognata io.
È stato uno dei miei film preferiti a questa Mostra e non solo perché mi ha dato la mia dose di cinema cileno: è drammatico sì, ma ha dentro tanto cuore, tanta passione, tanta bellezza decadente, mentre altrove ci si è sentiti solo castigati.
Il merito di questo successo va in parte non indifferente al solito, enorme Alfredo Castro (voluto dallo stesso Lemebel), strepitoso in tutto: recitare, ballare, cantare, avere un paio di gambe che spuntano dagli shorts da urlo a 64 anni suonati. Ne riparleremo di certo.

GRETA (I AM GRETA) di Nathan Grossman
🌟🌟

Un giovane documentarista segue l’attivista Greta Thunberg dalla sua iniziale, solitaria protesta davanti al Parlamento svedese fino agli ultimi sviluppi globali del suo tentativo di risvegliare le coscienze e richiamare i grandi della terra ad azioni concrete per salvaguardare il Pianeta.
Umanamente è toccante, ma cinematograficamente è quanto di più superficiale può essere un documentario: meramente descrittivo e assolutamente schierato nella sua scontata partigianeria. Uno spot. La forza del doc è Greta, che aveva già saputo comunicare perfettamente il sacrificio accettato volontariamente nel diventare il simbolo di una causa.
Bisogna essere stati davvero distratti per lasciarsi sorprendere da una testimonianza in presa diretta che non ha l’angolazione, la forza o la voglia di non dico mettere in discussione il soggetto, ma quantomeno non lasciare che si descriva da sé. Non bastano quattro inquadrature dei leader della terra che usano il cellulare mentre l’attivista parla all’ONU per depotenziare domande legittime sull’attuabilità e la concretezza delle sue richieste, per non aprire poi il capitolo sulla sindrome di Asperger, praticamente mai contestualizzata e usata al pari di uno strumento politico.
Ne sono uscita con un’unica informazione inedita: Greta è legatissima ai suoi cani. Un po’ pochino. [RECE]

THE DUKE di Roger Michell
🌟🌟🌟

L’incredibile vicenda umana e giudiziaria di Kempton Bunton, l’anziano tassista che nel 1961 rubò il ritratto del Duca di Wellington dalla National Gallery di Londra, chiedendo come riscatto l’abbonamento gratuito alla BBC per gli anziani indigenti inglesi.
È la solita commedia all’inglese sull’eccentrico esponente della working class in cerca di riscatto che fa cose bizzarre? Sì, però funziona su tutta la linea, è scritta e diretta bene e interpretata pure meglio.
L’unico elemento che ho trovato insopportabile è la signora alto borghese che tifa per il marito truffatore della sua donna delle pulizie al grido di “non tutti i ricchi”. [INTERVISTA]

 

PADRENOSTRO di Claudio Noce – Coppa Volpi all’interpretazione maschile a Pierfrancesco Favino
🌟½

Claudio Noce ricostruisce l’attentato subito da suo padre attraverso la storia di Valerio, un ragazzino che diventa testimone involontario dell tentativo dei NAP di uccidere il padre Alfonso, vicequestore di polizia a Roma nel 1976. A seguito dell’episodio il ragazzino sviluppa una bizzarra amicizia con un coetaneo spiantato, che vive all’addiaccio e spunta sempre al momento opportuno per trarlo d’impiccio.
Tremendo, irrecuperabile, il classico titolo che durante la proiezione un po’ compiango i poveri colleghi stranieri costretti a sorbirselo a Venezia.
Se c’è una cosa che odio è quando un film si gioca la carta dell’ambiguità, poi la scarta con decisione ma alla fine la rimette nel mazzo contro ogni logica, per mascherare la banalità sconcertante del suo intreccio e sembrare complesso agli occhi dello spettatore quando invece è solo confuso. Persino Favino ne esce male, pur tornando a casa con una Coppa Volpi assolutamente ingiustificabile, nonostante la scarsa presenza di prove maschili di livello in concorso. Peggior italiano di Venezia 77 tra quelli che ho visto, ma mi hanno messo in guardia che c’è ben di peggio. [RECE]

Mainstream di Gia Coppola (Orizzonti)
🌟🌟🌟

Frankie realizza filmini concettuali e artistoidi che carica su YouTube nella speranza di diventare famosa, mentre si mantiene facendo la barista in un locale di LA. Una sera incontra Link, un ragazzo spiantato che non ha nemmeno il cellulare, ma il cui video con un improvvisato discorso motivazionale girato da Frankie sbanca sui social. Lei diventa quindi la regista e producer di lui, che conquista un’insperata popolarità come influencer e blogger, mettendo in crisi le basi della loro relazione d’amicizia e amore.
Una delle prime, vere trasposizioni dell’estetica e dell’etica degli under 20 con una vita social su grande schermo, con tutti i pregi e i difetti che ne derivano, tra cui il fatto che risulterà incomprensibile e insensato per chi non sia nativo social più oltre che digitale.
Funziona anche da datazione carbonio della vostra età social: di quante delle caricature di noti YouTuber che appaiono nella diretta streaming di metà film sapreste identificare l’originale? Attenzione davvero a Maya Hawke, di una bravura e naturalezza che qui mettono in ombra uno capace come Andrew Garfield. [RECE]
LES AIGLES DE CARTHAGE di Adriano Valerio
🌟🌟🌟

Anziani e giovani tunisini raccontano come sia cambiata la nazione dopo la primavera araba attraverso il ricordo della storica, prima vittoria della nazionale di calcio in Coppa Africa nel 2014
.
Dato quanto riesce a dire e fare in soli 20 minuti di corto (appassionando una persona poco amante del calcio come me), questo regista per me è automaticamente attenzionato: il talento c’è tutto.

THE BOOK OF VISION di Carlo S. Hintermann (Fuori Concorso)
½

Una giovane ricercatrice cerca risposte sulla storia della medicina in un famoso manoscritto del XVI secolo, il libro delle visioni mediche e umane di un noto medico prussiano.
Se pensate che The Fountain – L’albero della vita di Darren Aronofsky sia tutta fuffa new age senza senso, vi sfido a vedere questo lungometraggio in cui la reincarnazione forse è la parte più razionalmente sensata della trama.
Charles Dance adora cacciarsi in porcate da antologia, ma stavolta si è davvero superato, centrando il ruolo del medico più da denuncia all’ordine dell’ultimo decennio di cinema, uno che va a spifferare la malattia di una paziente al suo fidanzato…perché sì? Il film più brutto da me visto a Venezia 77, uno vortice nonsense che a un certo punto manco più ci crede lui, infilando dei grossolani errori di ricostruzione storica. Charles, pietà.
MISS MARX di Susanna Nicchiarelli
🌟🌟🌟
Vita, amori e morte di Eleanor Marx, la più combattiva delle figlie del celebre economista Karl, tanto disposta a lottare per i diritti dei lavoratori quanto succube dei tradimenti del marito. 
Buono ma nulla più. È un peccato che il salto di magnitudo produttiva di Nicchiarelli (costume drama, biopic storico, Romola Garai) non sia coinciso con un un’ulteriore elevazione qualitativa della sua carriera. Dietro Miss Marx c’è una storia strepitosa e una marea di attenzioni produttive e autoriali, anche se spesso non risaltano come potrebbero. Trovo però molto irritante che gli si riproverino tutta una serie di scelte registiche per cui, non più tardi di 6 mesi fa, ci si strappava i capelli in Piccole Donne.
Alla fine è un po’ il Piccole Donne della Nicchiarelli, che come regista è decisamente più rock e underground della Gerwig, i suoi film sono meno glamour e appariscenti. Dal mio punto di vista entrambe sono ugualmente convincenti fino a un certo punto. [RECE]

MANDIBULES di Quentin Dupieux
🌟🌟🌟🌟
Due spiantati dedici a piccoli crimini trovano una mosca gigante nascosta nel bagagliaio di un auto che hanno appena rubato. Decidono quindi di addestrarla, con la convinzione che diventeranno ricchi.
Dopo tanti film riusciti fino a un certo punto tra surreale e nonsense, Dupieux ha trovato una quadra strepitosa: la mosca gigante è solo l’incipit di Mandibules, un film che ritrae l’amicizia più pura tra due allegri babbei truffaldini con una giocosa levità che rende ogni svolta paradossale e WTF!? riuscitissima. Un applausone anche a Adèle Exarchopoulos, che dimostra di essere ben di più della ragazzona lanciata da Kechiche.
Tra le cose più memorabili viste in Mostra, destinata a diventare un cult. A giudicare dall’arroganza con cui l’ha presentato in conferenza stampa, Dupieux sa di avere per le mani un film strepitoso. [RECE]

Khōrshīd (SUN CHILDREN) di Majid Majidi – Premio Marcello Mastroianni a Rouhollah Zamani
🌟🌟🌟
Il giovanissimo Alì mantiene sé stesso e la madre malata con lavoretti e furtarelli. Quando viene messo a parte dell’esistenza di un tesoro, si iscrive in una scuola di quartiere pur di aver la possibilità di scavare un tunnel necessario a mettere le mani sul suddetto.
La risposta che aspettavo alla pornografia della povertà estrema messa in piedi da Capharnaüm di Nadine Labaki. Anche il protagonista di questo film (un grido contro l’abbandono scolastico e il lavoro minorile in Iran) è poverissimo e costretto a fare di tutto per sopravvivere, ma Majidi gli dà una dignità, un carattere, una missione.
Sembra un po’ un’Isola del tesoro ibridato con film francese sulle scuole con “ragazzi difficili” tipo La classe: c’è un crescendo thriller, un senso di avventura, persino dei passaggi comici inframezzati a una morale durissima. Peccato sul gran finale non riesca ad essere cattivo e incisivo come nel resto del film.

Fiori! Fiori! Fiori di Luca Guadagnino (Fuori concorso)
🌟🌟½
Guadagnino viaggia da Milano alla Sicilia, incontrando amici e parenti alla fine del lockdown.
Conoscente spiega a Luca che durante il lockdown si chiudeva nella sua stanza a chiave per avere un momento per sé lontano dai figli e il nostro prode chiede a bruciapelo: “Ma per masturbarti?”
Un assaggio (12 minuti) di come potrebbe essere migliore il mondo se Luca Guadagnino aprisse un canale YouTube per caricare vlog girati col suo cellulare. Roba da like, subscribe e campanella notifiche attivata immediato.

Salvatore: Showmaker of Dreams (Fuori concorso)
🌟🌟🌟
Come un poverissimo calzolaio dell’Avellinese conquistò Hollywood e, tornato in Italia a sopravvissuto a una bancarotta e al dopoguerra, contribuì a creare il mito del Made in Italy.
Guadagnino con il fido Fasano al suo fianco sa trasformare anche un documentario biografico in un’esperienza estetica e narrativa appagante, che non si capisce mai se parli davvero di moda o di cinema, diventando di fatto un’introduzione alla fondazione di Hollywood a inizio del Novecento.
Il motivo per cui amo tanto Guadagnino è però che ogni suo progetto inevitabilmente finisce per raccontare una grande storia d’amore. Non sentimentale, d’amore.

THE WORLD TO COME di Mona Fastvold – Queer Lion 2020
🌟🌟🌟

Frontiera statunitense, 1856. Abigail vive nella sua fattoria insieme al marito una quotidianità di duro lavoro, frugalità e lutto per la morte della loro bambina. Quando la bella e misteriosa Tallie si trasferisce insieme al consorte nella fattoria vicina, Abigail sente di aver trovato un legame che dia un senso alla sua vita giàdestinata ad essere dimenticata.
“Delicato” non è un aggettivo che mi piace usare, specie per un film diretto da una donna. Tuttavia la forza di The World to Come sta proprio in come sappia trovare una grazia impalpabile in un’asprissima frontiera statunitense, nelle vite davvero miserevoli dei protagonisti. Manca un po’ di coesione, risultando più la somma di una serie di scene clamorose (la tempesta mugghiante, l’incendio della fattoria) che un tutto che le contiene.
In questo genere di film sulle vite di donne senza possibilità di scelta la cartina di tornasole della scrittura sono sempre i personaggi maschili, mariti e aguzzini. Qui sono complessi e sfumati quanto le protagoniste, a riprova di un film la cui complessità non inizia e finisce nel suo risvolto queer.

Śniegu już nigdy nie będzie (NEVER GONNA SNOW AGAIN) di Małgorzata Szumowska e Michał Englert
🌟🌟

Un massaggiatore ucraino visita quotidianamente la ricca clientela russa in un quartiere artificiale, asettico e privo di gioia, tentando di purificare le vite colme di illusioni e muta disperazione dei suoi clienti.
Il film più “se capisce e non se capisce” dell’edizione 2020 della Mostra di Venezia. All’uscita in sala ci guardavamo tutti di sottecchi, sperando che qualcuno avesse capito e attaccasse a spiegarlo. Spoiler: no, ma bisogna prenderla un po’ di cuore e crederci. O concentrarsi sul massaggiatore ucraino protagonista, molto apprezzato dal pubblico femminile del Lido.
Così a pelle mi ha ricordato Loveless di Andrey Zvyagintsev, ma credo sia dovuto più che altro alla presenza di un gran numero di ricconi russi anaffettivi.

PIECES OF A WOMAN di Kornél Mundruczó – Coppa Volpi alla miglior interpretazione femminile a Vanessa Kirby
🌟🌟½
Martha e Sean si preparano ad affrontare un parto casalingo, ma qualcosa va storto e la loro primogenita muore pochi minuti dopo il parto. La mancata madre tenterà di rimettere insieme la sua vita, in piegandosi al desiderio di vendetta dei suoi congiunti nei confronti della levatrice che l’ha assistita. 
Hollywood Ursula dà al sirenetto ungherese Kornél le gambe per camminare sulla terra ferma anglofona e girare un film con Vanessa Kirby e Shia LaBoeuf, ma gli chiede di dare in cambio il suo folle genio visionario e creativo.
Che spreco far girare un dramma convenzionale a uno col talento di
Kornél Mundruczó. Qua e là però lui si scorge, nella ricorrenza delle inquadrature delle mani, nella sottile allusione delle mele (frutto simbolo di questa edizione). Speriamo possa tornare presto alle sue vertiginose vette di audacia, nel frattempo fingerò di non aver visto quel finale melenso.

ONE NIGHT IN MIAMI di Regina King (Fuori concorso)
🌟🌟½
Cassius Clay sconfigge Sonny Liston nel 1964: quella stessa sera festeggia e si scontra con l’amico e confessore Malcolm X, il cantante Sam Cooke e l’atleta Jim Brown, nomi destinati a cambiare il futuro della comunità afroamericana.
È affascinante constatare come l’urgenza di raccontare le storie che finora non sono state portate a cinema porti gli artisti afroamericani a realizzare film verbosissimi.
Regina King non è Kathryn Bigelow e purtroppo si vede: per quanto la storia possa essere interessante, la sua regia è un po’ infatile e di maniera, così come i suoi protagonisti risultano più espositivi che realistici nei loro confronti verbali.
Sono già spiritualmente pronta a sentir osannare questo film come oscarabile quando è quel genere di pellicola in cui un scena totalmente accessoria di personaggio che guida da a a b richiede 8 (otto!) stacchi per concludersi.

CARI COMPAGNI! di Andrei Konchalovsky – Gran premio della Giuria
🌟🌟🌟🌟

Una madre e piccola funzionaria provinciale del partito comunista si ritrova a lottare con e contro KGB e Armata Rossa pur di ritrovare la figlia, scomparsa all’indomani delle proteste di Novocherkassk.
“Meno male che morirò presto, lasciate che tutto bruci” dice l’anziano padre della protagonista nel film che sembra la versione elevata e senza macchia di quanto visto in Quo Vadis, Aida?, anche se è difficile non pensare a un Cold War di Paweł Pawlikowski che sostituisce l’amore carnale a quello materno. D’altronde Konchalovsky è un grande vecchio, un gigante del cinema condannato a vittorie minori a Venezia, nel mezzo di un concorso più giovane e in formazione che mai.
Cari compagni! sembra un residuato propagandistico dell’U.R.S.S. (4:3, bianco e nero, facce e luoghi perfetti) e ti fa credere sia quasi una cattivissima commedia nera sulla corruzione e l’inefficienza del comunismo dopo la morte di Stalin.
Poi però Konchalovsky immerge la mano fino in fondo e strappa dal petto della Storia il cuore nero del regime sovietico, estirpando ogni speranza di chi ci crede(va), ogni residuo di “Lenin faceva anche cose buone”. Nel particolare e nel corale diventa implacabile, preciso, letale. Più ci ripenso e più mi piace, ma riservato a chi non teme il rigore del cinema russo. Uno dei migliori e dei miei preferiti di questa Mostra.

LAILA IN HAIFA di Amos Gitai
🌟

In un locale notturno a Haifa s’incontrano numerosi personaggi, israeliani e palestinesi, di diverso orientamento sessuale ed estrazione sociale, le cui vite e amori s’intrecciano. In una sola notte le vite di cinque donne molto diverse tra loro e degli uomini che influenzano le loro esistenze sono destinate a incrociarsi.
Grazie Amos Gitai, grazie di essere a Venezia con un film che ci risparmia l’umiliazione di avere un film italiano come il peggiore in concorso.
Una ragazza dietro di me a un certo punto in proiezione, di fronte all’ennesima tirata sulla donna passionale che mette le corna al tipo blablabla è sbottata con un “Ok boomer!” e, pur io detestando quest’espressione un po’ qualunquista, davvero fatico a darle torto.
Una roba tutta corna raccontate, subite, urlate e sussurrate, morbosetta e persino un po’ bavosa che se la vede Muccino scatta subito il remake.

LISTEN di Ana Rocha de Sousa – Orizzonti Premio Speciale della Giuria e Leone del Futuro – Miglior Opera Prima Luigi De Laurentiis
🌟

Due genitori portoghesi indigenti lottano contro i servizi sociali inglesi per non vedersi portar via i loro tre figli.
No ma che stiamo scherzando? Anche solo dal punto di vista tecnico, compromesso non solo dagli enormi limiti finanziari della produzione, è un po’ un’offesa per metà delle pellicole viste in Orizzonti. Ma dal punto di vista del contenuto…questo ricatto emotivo qui? Sia chiaro: se anche solo la metà delle cose raccontate nel film è vera, fa benissimo Rocha de Sousa ad alzarsi in piedi e tuonare contro il sistema inglese che di fatto vende i bambini poveri alle famiglie ricche. Dico “se” perché la visione del film è così sbilanciata e miope nel demonizzare la stessa esistenza dei servizi sociali che qualche domanda ti porta a poterla.
Sono poco propensa ad accettare la tesi di un film denuncia sui malvagissimi servizi sociali inglesi che non mette mai in discussione una coppia di genitori in evidente difficoltà nel crescere e persino sfamare i propri figli, costretta a rubare nei negozi o a lasciarli incostoditi per strada o febbricitanti, ma comunque difesa a spada tratta contro un sistema che sembra lì solo per legalizzare il rapimento di minori. Per non parlare dei buchi di trama: 72 minuti dovrebbero essere di semplice gestione, data la storia minimale, invece sono ancora qui a chiedermi: quindi la storia delle ferite sulle nocche del padre? Ha spaccato lui l’apparecchio alla bimba? Boh?
Maledizione a te Ana Rocha de Sousa, che tiri fuori questa storia kenloachana sui poverini truffati dal sistema inglese che, per contrasto, mi costringe ad ammettere quanto sia un maestro Loach, che ai suoi ultimi non hai mai concesso l’assoluta ragione e verità.

LOVE AFTER LOVE di Ann Hui
🌟🌟

Una giovane di Shanghai viene mandata a vivere dalla ricca zia a Hong Kong, un tempo umiliata dai parenti della protagonista per i suoi poveri natali e ora abbiente grazie a quanto le hanno lasciato marito e amanti. Invaghitasi di un giovane “mezzosangue”, aiuterà la zia ad adescare ricchi uomini d’affari pur di poter avere i soldi necessari per tenere il lussurioso e viziato ragazzo al suo fianco.
Il Leone d’oro alla carriera Ann Hui voleva riparare alla ricostruzione storica mal fatta di un suo vecchio film tratto da un’altra opera della scrittrice Zhang Ailing (la stessa di Lust, Caution di Ang Lee), di cui è grande estimatrice. Stavolta è tutto sontuosamente perfetto nella forma: costumi, interni, arredi, cibi, giardini. Una gioia per gli occhi. Peccato si sia proprio scordata la sostanza. Un filo noiosetto, tutto considerato. [+]

NOTTUNO di Gianfranco Rosi
🌟🌟🌟

Vite rinate e bloccate tra le macerie del post ISIS, sui confini tra Kurdistan, Iraq, Siria e Turchia.
Io non ho mai amato Rosi documentarista, né concettualmente né stilisticamente, pur riconoscendone la maestria tecnica di regista e fotografo.
Di fronte a un lavoro di questo tipo non trovo granché da criticargli: se siete rimasti colpiti da Kobane Calling di Zero Calcare, recuperate questo titolo, che ne è quasi un sequel per immagini. Nella nicchia di documentazione della realtà in cui si muove Gianfranco Rosi il regista già Orso e Leone d’Oro non ha rivali e spero di vederlo di nuovo agli Oscar nella cinquina per i documentari. [RECE]

THE BEST IS YET TO COME di Jing Wang
🌟🌟🌟
Han Dong è un giovane deciso a diventare un giornalista che per questa ragione si è trasferito dalla campagna remota cinese a Beijing. Qui però incontra l’ostilità delle redazioni, dato che non è laureato. Con la sua ostinazione, riesce a farsi strada in un giornale e a mettere a segno qualche scoop, fino a interrogarsi su quale sia la vera funzione del giornalismo. Tratto da una storia vera.

Un film caruccio sul valore del giornalismo, che documenta e testimonia ma, quando è al suo meglio, ha il potere di cambiare la società.
Intrepidi reporter contro il mondo è un genere che amo molto, il pupillo di Jia Zhang-ke sa il fatto suo. Il personaggio femminile è così servile e ancillare che ti fa venire voglia di prenderlo a schiaffi o abbracciarlo, a fasi alterne.

SPY NO TSUMA (WIFE OF A SPY) di Kiyoshi Kurosawa – Miglior regia
🌟🌟½
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la moglie di un cosmopolita capitano d’impresa giapponese scopre che il marito sta tentando di passare alcune informazioni top secret al nemico statunitense.
Uno dei film che attendevo di più a Venezia e che mi ha soddisfatto solo a metà. La raffinatezza della ricostruzione storica mi ha conquistato, il talento recitativo della modella/volto del momento Yū Aoi un po’ meno ed essendo lei la protagonista…
Il problema però sta un po’ a monte, perché certi elementi classici del mondo dello spionaggio (la scacchiera, le lettere delatorie) sono introdotti e gestiti in maniera artificiosa.
Il finale però è molto lucido e sul pezzo e ogni tanto infila qualche scena (le unghie!) che proprio non ti aspetti.

LE SORELLE MACALUSO di Emma Dante 
🌟🌟
Cinque sorelle palermitane adolescenti vivono all’ultimo piano di una casa con una colombaia, grazie a cui la famiglia tira avanti. In una giornata estiva le ragazze decidono di andare tutte insieme ai Bagni Charleston. Un tragico evento cambierà le loro vite per sempre, senza però allenate i loro legami e quello con la casa.
Tratto da uno spettacolo teatrale di successo internazionale, scritto dalla stessa Emma Dante.
Andava tutto abbastanza bene, era quasi entusismante nella prima parte, poi sono apparse le paste e il tutù e mi si è aperto davanti agli occhi l’infinito baratro del cinema festivaliero italico.
Martonata non diretta da Martone dell’edizione 2020: confirmed. Se vedo ancora una scena di colombi che volano liberi nel cielo, urlo. [RECE]

LA VERITÀ SU LA DOLCE VITA di Giuseppe Pedersoli
🌟🌟
Sul finire degli anni ’60 il produttore Giuseppe Amato legge la sceneggiatura di La dolce vita e, nonostante secondo i colleghi Fellini sia in buona sostanza un regista che ha finito le cose da dire, s’imbarca in un progetto costosissimo e giudicato dal resto di Cinecittà un fiasco annunciato.
La storia di come Fellini abbia sfornato il film italiano più famoso di sempre, quasi ammazzato il produttore di La Dolce Vita con i suoi capricci e distrutto relazioni amicali ed economiche di mezza Cinecittà nel mentre da sola merita la visione, ma la forma è così tragicamente inesistente che non c’è alcuna prova che confuti la mia tesi secondo cui il documentario di Pedersoli sia stato teletrasportato dal 1991 a oggi. [+]

RUN HIDE FIGHT di Kyle Rankin
🌟🌟
Ancora in lutto per la morte della madre e in rotta con il padre, una giovane studentessa carica di rabbia e il suo migliore amico segretamente innamorato di lei si ritrovano coinvolti in una sparatoria nel suo liceo. Ferita e con la via di fuga in vista, la giovane decide di rimanere nel plesso scolastico e tentare si salvare più compagni di scuola possibili, approfittando degli insegnamenti del padre ex cecchino dell’esercito.
Un film sulle sparatorie nei licei statunitensi che diventa una sorta di revenge movie catartico e gentile che pare tirato fuori dal catalogo Netflix.
Sembrano elementi messi a caso, funzionano anche, ma quando ti fermi a pensare quanto conservatore e superficiale sia questo approccio a questo tema, un po’ ti senti in colpa per averlo visto con piacere.

NUEVO ORDEN di Michel Franco – Leone d’argento
🌟🌟🌟🌟½
L’ennesimo movimento di protesta delle classi socialità più disagiate del Messico trasforma le continue proteste per le strade in un tentativo anarchico e disorganizzato di prendere il potere o almeno prendersela con i ricchi, mentre lo Stato dal braccio militare tenta di riportare “il vecchio” ordine.
Il film simbolo di questa Venezia, il vincitore che non hanno avuto il coraggio di far vincere e quindi l’hanno dirottato sul Leone d’argento, che è il premio “avremmo tanto voluto ma” per antonomasia. Nuevo Orden infatti è bellissimo, ma davvero implacabile.
Il merito principale di Michel Franco è di approcciare questa discesa in un temporaneo e palpabilmente realistico inferno distopico messicano con un’oggettività assoluta, stando in disparte mentre i personaggi si scannano, tirando le logiche conseguenze filmiche e narrative, fino a un finale agghiacciante e perfetto. Non affezionatevi a nessuno dei personaggi, non ingaggiate contatto se temete qualsivoglia forma di violenza. Dedicato a un pubblico che non teme di vedersi asportata ogni speranza residua nel genere umano.

Səpələnmiş Ölümlər Arasinda (IN BETWEEN DYING) di Hilal Baydarov
🌟½
Un uomo misterioso viene inseguito da un gruppo che ne segue le tracce. In ogni posto in cui il protagonista si reca, qualcuno rimane misteriosamente attratto da lui, ma una persona finirà sempre per perdere la vita, mentre l’uomo ricorda un altro tempo e luogo, con un cavallo bianco e una donna velata.
Lo so, ha degli scenari desolati strepitosi, delle riprese di panorami di una bellezza struggente, delle nebbie di una bellezza crepuscolare che ti fanno salire le lacrime agli occhi. Però. A venti e passa anni da Il sapore della ciliegia non abbiamo ancora capito che i film tra il poetico e il mistico alla Abbas Kiarostami sono riservati a pochissimi. Tra l’ossessivo ripetersi del tema musicale di chitarra gitana che sento ancora in testa e il vagare per i campi con la donna velata e il cavallo bianco, ho sentito risalirmi il trauma di Olga Kurylenko che fa le capriole nel grano in To the Wonder.
In aggiunta: ha dei grossi problemi sul sonoro, montato malissimo e spesso fuori sincrono rispetto alle immagini. Una delle proiezioni veneziane con meno presenze e più spettatori addormentati: a mani basse vincitore del Leone d’Oro per l’abbiocco del 2020.

CRAZY, NOT INSANE di Alex Gibney
🌟🌟🌟
La storia professionale e personale della dottoressa Dorothy Otnow Lewis, psichiatra che negli anni ha studiato le storie personali e le condizioni cliniche di famosi omicidi e serial killer degli Stati Uniti d’America, fino ad elaborare la tesi delle personalità dissociate. Il documentario di HBO getta una luce inquietante su quanto ci siano presupposti genetici e ambientali nelle ragioni che trasformano alcune persone in efferati assassini e altre no.
Non sono sicurissima che contestualizzi al meglio la figura di Dorothy Otnow Lewis, la psichiatra dei serial killer che “scoprì” il disturbo dissociativo. Non è chiarissimo per esempio quanto poi la sua tesi sia accettata oggi, da quanta e quale parte della comunità psichiatrica.
Certo se ripenso ad altri documentari italiani visti di recente e la bellezza e fruibilità del montaggio e del racconto di Gibney, mi viene da piangere. Imperdibile per tutti gli amanti delle trasmissioni, podcast e contenuti relativi alla cronaca nera e giudiziaria.

NOMADLAND di Chloé Zhao – Leone d’Oro
🌟🌟🌟

Basato su un libro inchiesta di Jessica Bruder, Nomadland racconta le storie vere dei moderni nomadi d’America – per necessità economica, per credo politico e morale o per indole caratteriale – unite dal personaggio fittizio della vedova Fern.
Se dai a Chloé Zhao la vastità degli orizzonti statunitensi alle prime luci dell’alba e un mix di attori professionisti come Frances McDormand e persone dalle storie di vita incredibili che interpretano sé stesse, lei è più che in grado di tirarci fuori un film commovente e memorabile.
Sarà il titolo con cui il pubblico la conoscerà (amerà?) prima del suo esordio in casa Marvel. Tuttavia avendola conosciuta e amata con The Rider, non posso che notare quanto questo film sia la versione meno pura e radicale, più mediata e di compromesso dei suoi lavori precedenti. D’altronde produce Searchlight, nuova emanazione di Disney (occhio al logo iniziale) e tutta l’operazione sa un po’ di questo, con tanto di occhiolino multiverso cinematografico di chi produce che in un film sulle moderne tribù di nomadi moderni per necessità o scelta risulta persino un po’ svilente.
Ne risentiremo parlare agli Oscar al 100%, anche solo per la penuria di film in grado di fare una corsa agli Oscar quest’anno. [RECE][+]

UND MORGEN DIE GANZ WELT (AND TOMORROW THE ENTIRE WORLD) di Julia von Heinz
🌟🌟
Luisa è una giovane universitaria di famiglia agiata che vuole cambiare il mondo. Quando si innamora di una compagna di corso attivista va a vivere con lei in una comune socialista, pacifista e vegana. Qui incontrerà Alfa, un ragazzo da cui rimarrà sedotta e che la avvicinerà alla frangia più estrema del movimento, quella decisa a opporsi al rinascere delle militanze naziste in Germania colpendole con la violenza.
“Se non sei comunista quando hai meno di trent’anni sei senza cuore, se lo rimani quando ne hai più di trenta sei senza cervello”, sentenzia il padre abbiente della protagonista. Il fatto che la protagonista sia una borghese che si avvicina all’ambiente radicale, la violenza di quest’ultimo contro i militanti fascisti, la promiscuità che nasconde care vecchie beghe da amante gelosa…ci sono tutte le carte per dire qualcosa in merito, ma poi alla domanda cardine – quanta violenza è legittimabile per opporsi ai fascismi prima di trasformarsi in un movimento a sua volta prevaricatore e censorio – il film si guarda bene dal rispondere. Non so, non mi è ben chiaro il punto. Sarà anche un po’ l’immaturità anagrafica dei protagonisti dietro cui si nasconde Julia von Heinz…avrei preferito il film sull’ex bombarolo che ha visto i compagni di cellula fare carriera. Nel suo essere inconcludente mi ha ricordato molto un film francese che indagava la stessa storia sul fronte opposto, Chez nous – A casa nostra di Lucas Belvaux.

SAINT-NARCISSE di Bruce LaBruce (Fuori concorso)
🌟🌟🌟
Nel Quebec degli anni ’70 Dominic, un giovane e narcisista motociclista, scopre che la madre che riteneva morta vive in una casa nel mezzo della foresta poco fuori la cittadina di Saint-Narcisse. Nei pressi del paese c’è anche un monastero dove vive Daniel, un giovane identico per aspetto a Dominic. I due sono tormentati da visioni l’uno dell’altro, prima del loro fatidico incontro.
In quest’edizione serissima e castigatissima della Mostra, LaBruce mi ha dato tutto, tutto, TUTTO quello che desideravo in campo kinky morbosetto sexy sexy hot hot. Meno male che ci ha finalmente pensato lui (in una veste formale meno tamarra del solito) a regalarci la versione realmente esistente di Satan’s Alley (ricordate il fake trailer all’inizio di Tropic Thunder?) che si aspettava con ansia da anni.
Tutto quello che dovete sapere è che si doveva intitolare Twincest, è ambientato nel Quebec degli anni ’70 (girato con lenti e cinepresa d’epoca) e consuma i suoi atti più peccaminosi sotto una statua molto dolente di San Sebastiano. No, la sceneggiatura non l’ho scritta io.
Gioiosamente libertino e scult, ma LaBruce è così abile ad andare sopra le righe che rischia di perdere la s e rimanere un piccolo cult.

THE WASTELAND di Ahmad Bahrami (Orizzonti) – Miglior film Orizzonti
🌟🌟🌟
Una remota azienda che produce mattoni con il metodo tradizionale sta per chiudere i battenti: le vite dei suoi operai -ricolme di segrete passioni e ben noti dissapori – che le uniscono e dividono vengono raccontate in un loop temporale prima dell’annuncio del padrone della fabbrica che sta per licenziarli tutti.
l vincitore della sezione di Orizzonti di quest’anno mi verrebbe da dire che sia il solito film iraniano pesissimo diretto in bianco e nero e in 4:3 con quell’estrema eleganza formale e quei dialoghi rarefatti ma così significativi del solito grande maestro formale e autoriale…è invece un debutto alla regia. Accidenti, che colpo.

*travestito: definisco così la protagonista senza nome “La Loca” in quanto a un certo punto si descrive così anche lei e all’epoca non c’era tutta una terminologia che renda facile stabilire se si identificasse come donna trans. Diciamo che tutto il mondo trans e queer era unificato dal comune punto che: se ci pesca la polizia di Pinochet, ci ammazza.