È opinione diffusa che L’assassinio del commendatore sia un libro ricolmo di passaggi accessori. L’ultimo romanzo di Murakami, uscito in due volumi nel 2017 e nel 2018 in Italia, veleggia con agio verso le 800 pagine. Uno dei motivi per cui risulta poco riuscito è proprio la continua alternanza tra passaggi splendidamente eseguiti e scene la cui utilità è da cercarsi solo in faccende egoriferite in cui il lettore ha poco a che fare e ancor meno da ricavarne.
A voler essere spietati, il primo centinaio di pagine si potrebbe tagliare con un preciso colpo di taglierino e la vicenda successiva continuerebbe a stare in piedi, richiedendo solo minimi aggiustamenti. Tanto che ****qualche lettore terribilmente tendenzioso (tra cui la sottoscritta) ha avanzato il dubbio che questo primo nucleo narrativo vivesse da tempo in qualche cassetto di legno o cartella virtuale dello scrittore giapponese più venduto, tradotto e letto al mondo, prima di venire ripescato e accorpato senza troppe cerimonie ad altri spunti per tirar fuori un possibile erede del suo ultimo grande successo, 1Q84.
A dispetto di quanto possa suggerire il titolo e questa premessa, sono qui per tessere le lodi di questo primo centinaio di pagine sostanzialmente inutile all’economia di L’assassinio del commendatore, che ha il raro pregio di gettare la luce su un Giappone quasi mai raccontato nella narrativa nipponica che i nostri editori selezionano e traducono: quello in cui a regnare è lo squallore.
Il viaggio di un uomo tradito
In L’assassinio del commendatore il protagonista e alter ego dello scrittore è un uomo sposato che di professione fa il ritrattista. Abbandonate le velleità artistiche della gioventù, il pittore mantiene sé stesso insieme alla moglie realizzando ritratti con pittura a olio su commissione. L’attività, tanto démodé quanto lucrativa, non gli provoca alcun piacere artistico ma lo rende economicamente autosufficiente. Nel corso del romanzo l’uomo si ritroverà a dipingere un ritratto molto particolare lontano da casa e dalla moglie, mentre il mistero di uno splendido quadro rinvenuto per caso in una soffitta (da cui il romanzo trae il titolo) lo porterà in territori ambigui e pericolosi.
Nelle prime cento pagine però il protagonista non veste mai i panni del pittore e la sua identità coincide con quella dell’uomo tradito, messo di fronte all’improvviso al fatto compiuto dalla consorte. Dopo una brevissima introduzione che acquisterà un senso solo a fine lettura, L’assassinio del commendatore si apre con l’annuncio spiazzante dell’amata moglie del protagonista: ti sto tradendo con un altro. Notizia che vede il pittore reagire con singolare distacco: non urla, non piange, non richiede dettagli ossessivi alla moglie sul tradimento. Si limita a raccogliere pochi oggetti, prendere le chiavi della macchina e andarsene da casa.
Dove? È questo l’aspetto più affascinante della prima parte del primo volume di L’assassinio del commendatore, che avrebbe potuto essere un’ottima storia o romanzo breve (nella più classica tradizione giapponese, a cui talvolta si arrende persino un picconatore come Haruki Murakami). La destinazione del protagonista è inesistente, l’itinerario non pianificato. Lo shock lo porta semplicemente a guidare verso l’ignoto, di continuo, per settimane e poi mesi. A fermarlo sarà solo la rottura della vecchia utilitaria, dopo centinaia di migliaia di chilometri percorsi. A quel punto il progressivo inselvatichirsi caratteriale e fisico del protagonista conoscerà un brusco fermo, grazie all’improvvisa offerta di un amico che cambierà l’ambientazione, il titolo e gli scopi del romanzo.
Seppur non sempre a fuoco, la prima parte del romanzo è quella più autentica, in cui Murakami lascia colare dentro dal suo intimo pulsioni oscure e fantasie talvolta riprovevoli. Entusiasta narratore di intercorsi sessuali, Murakami segue il suo protagonista in un viaggio fisico che coincide con un abbandono psicologico e morale che lambisce territori pericolosi. Questi appaiono e scompaiono nel suo peregrinare, progressivamente sempre più organizzato nel metodo per rimanere scomposto e anarchico nell’applicazione. Dopo qualche notte in alberghetti locali o trascorsa a dormire in macchina, il protagonista si dota di una tenda e comincia a dormire e vivere all’aperto, con brevi soste in ristoranti e supermercatini locali. Persino nel suo momento di massimo smarrimento la sovrastruttura sociale ha la meglio, imponendogli una sorta di routine quotidiana. Murakami ci descrivere il suo pittore come un individuo altamente indipendente ed estraneo alle logiche lavorative della vita d’ufficio, ma capace di amministrare sé stesso; un tratto che riemerge anche in questo periodo di blackout.

Il terzo Giappone, liminare e squallido
Anche se non si palesa con alcun gesto violento o alcuna esternazione di sofferenza psicologica, è evidente dalle azioni del protagonista il trauma che l’annuncio della moglie gli ha causato. Il punto del riferimento del matrimonio è saltato (portandosi dietro un orgoglio taciuto) e il protagonista reagisce facendo saltare tutto il resto e creando un tran tran quotidiano che permetta di rimanere in una dimensione limitare costante. Questa reazione si riflette sul Giappone che il protagonista esplora, giorno dopo giorno. Riferimenti geografici precisi ne vengono forniti pochissimi: siamo lontani dalla Tokyo notturna culla di tante storie di Murakami, così come dalla zona montuosa e isolata dove si consumerà il resto del romanzo.
L’alter eco di Murakami percorre un Giappone di cui si parla raramente. Se perché poco rappresentato in generale dagli stessi scrittori nipponici o sempre scartato da editori italiani alla ricerca di una ben specifica immagine dell’arcipelago da vendere ai propri lettori, è una questione affascinante su cui vorrei avere informazioni più precise.
Basta guardare agli scaffali delle librerie per capire che tipo di Giappone sia quello ritratto dai romanzi best seller in Italia. Che a scrivere siano occidentali innamorati ed esperti a vario titolo del Sol Levante o autoctoni passati per le maglie del mercato anglofono e giunti in Italia sull’onda del successo internazionale, la musica non cambia di molto. In un angolo del ring c’è un Giappone popolato da gatti quasi senzienti e atmosfere tradizionali, dove il caffè raffredda lentamente e piccole storie quotidiane si consumano su tatami che fanno tanto atmosfera. È il Giappone “zen”, rilassante e tiepido, che distende i nervi e placa gli spiriti dei lettori occidentali. Nell’altro angolo, un tempo popolarissimo e ancora potente nell’immaginario collettivo, c’è il Giappone metropolitano, che ha come capitale Tokyo. Un mondo di neon e uffici deumanizzanti, di tecnologie avveniristiche e minimalismo emotivo che talvolta sfocia in eccessi erotici e omicidi.
Nel mezzo e tutt’attorno a questa o quella località iconica che vediamo nelle fotografie delle vacanze e negli anime, c’è un Giappone squallido, anonimo e pandemico. Murakami qui lo descrive alla perfezione: una commistione di campagne e foreste che non hanno nulla dell’allure miyazakiana, di località marittime in cui non si respira atmosfera da bagnati mescolate a un’eterna periferia di caseggiati grigi e catene commerciali un po’ appannate. Un mondo di family resturant non proprio pulitissimi dai clienti chiassosi e dal cibo insapore, di aree di sosta dove ogni incontro nasconde un possibile, indefinibile pericolo, popolato da persone che come il pittore hanno strappato i legami con una società ordinata e ideale, o hanno sempre vissuto alla periferia poco rappresentata della stessa.
Non è una malattia puramente nipponica. Basta guardare al cinema italiano, cannibalizzato dalla presenza di Roma e Napoli, città dove la bellezza e la bruttezza spesso convivono al massimo grado, fatte di estremi assai caratterizzanti. Città dal carisma che finisce per renderle co-protagoniste nei romanzi e in TV, non lasciandole mai indifferenti sullo sfondo. Poi c’è la tranquilla provincia linda, l’Italia dei borghi deliziosi dietro cui spesso si nasconde il lato oscuro della piccola borghesia. La periferia squallida e anonima di certi hinterland metropolitani o al contrario quella vitale e carismatica che fa da incubatore a idee e arti se ne sta in disparte privata di voce e di rappresentazione, se non per urlare in qualche romanzo di autofiction quanto soffra un animo predisposto alle arti in certi contesti soffocanti.

Il blackout morale secondo Murakami
Lo squallore di certe costruzioni mal pianificate e grigi palazzoni in cui si imbatte il protagonista di L’assassinio del commendatore potrebbe stare nella periferia di Nagano come in quella di Novate. È un mondo dove il progresso e il consumismo sono arrivati, ma sviluppandosi a metà, asfittici ma incapaci di morire, arrancando dietro alle metropoli in cui ci si sbarazza velocemente di ciò che non riesce a stare al passo.
Non è certo un caso che si consumi in un family restaurant di passato splendore l’incontro del pittore con due personaggi marginali ai fini della storia, ma a cui il protagonista ripensa continuamente: una giovane donna seducente ma spaventata da qualcosa e un uomo minaccioso, che induce nel protagonista al contempo un senso di colpa e un bisogno di fuga. È nell’incontro con questa giovane donna e nell’amplesso che ne segue che il protagonista per un attimo perdere davvero il controllo, lascia libero sfogo a quanto ha represso sistematicamente fino all’annuncio della moglie. Successivamente l’incontro con la donna nei ricordi del pittore acquisterà la consistenza evanescente di un sogno, ma non uno piacevole. Progressivamente più confuso e ricomposto disordinatamente, il ricordo di quell’intercorso fugace porterà il protagonista a chiedersi se più che immaginarsi di fare qualcosa di violento e godere del solo pensiero, non abbia messo in pratica quanto richiestogli dalla donna e stia negando a sé stesso qualche risultato tragico, sublimando il suo senso di colpa nella minaccia incarnata dall’uomo della Subaru Forrester. Un dubbio sinistro, ma letterariamente delizioso.
Questa sbandata pericolosa e il Giappone vischioso e persistente che ne sono stati palcoscenico verranno brutalmente messi da parte quanto la storia prenderà una decisa sterzata verso territori ben più rassicuranti, in linea con i topoi murakamiani. Tuttavia qua e là ricorre il pensiero a quel momento di black out (Elena Ferrante direbbe di smarginatura), il cui ricordo nauseabondo riemerge improvvisamente, di continuo.
Sì, ai fini di L’assassinio del commendatore questa prima parte è del tutto accessoria. Eppure a fine romanzo mi sono ritrovata a pensare che avrei fatto volentieri a meno del resto. Avrei preferito seguire l’uomo tradito nelle sue profondità inconfessabili e dolorosamente reali, piuttosto che accompagnare il pittore in un mondo delle metafore raccontato come pericoloso e sinistro, ma sostanzialmente inconsequenziale.
L’assassinio del Commendatore di Haruki Murakami, Einaudi, 2018, 849 pp., 25 euro. Traduzione di Antonietta Pastore.
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TL;DR then listen.
Non è che questa recensione inviti alla lettura del mattone. Dopo l’incontro con l’inconcludente “Tokyo Blues” mi era balenata l’idea di aver letto, della produzione di Murakami, due libri: il primo e l’ultimo
Magari alla lettura delle prime cento pagine?
Partendo dalla premessa che io non sono proprio la sostenitrice numero uno dell’autore: Norvegian Wood è un titolo amatissimo ma poco rappresentativo della sua produzione successiva, mentre L’assassinio del Commendatore non è propriamente tra più riusciti. A un lettore interessato che vuole andare sul sicuro consiglierei Kafka sulla spiaggia, L’uccello che girava le viti del mondo o 1Q84.
FYI – Un altro titolo amatissimo è Dance Dance Dance, ma io nutro verso quel romanzo una repulsione viscerale, quindi di mio non lo consiglierei mai.
Ah, ma tu mi vuoi tirare un trappolone! Una volta che leggi 100 pagine, se non è proprio una schifezza “ti viene” da tirare dritto….non foss’altro che per giustificare i 20 sacchi che ci hai investito.
E poi magari passi anche al Tomo II….spinto dal dubbio “chissà che non migliori”…..
Una fregatura simile in 2 round la rammento, qualche anno fa, per l’ultima inutile fatica di Manuel Vazquez Montalban, “Millennium”.
Su Murakami? Non direi.
C’è di meglio da leggere, sia tra i suoi sia in generale. Se nel trappolone ci fossi già finito avresti qualcosa di cui consolarti. In caso contrario…circolare.