Come petali nel vento è un libro molto ingannevole, o quantomeno lo è la sua confezione. Non è difficile immaginare cosa abbia cercato di fare Garzanti creando una combinazione estremamente allusiva tra illustrazione di copertina, palette di colori, titolo e breve blurb in copertina: un segreto di famiglia che si tramanda di donna in donna. Perché l’indipendenza economica è la strada per la libertà.
L’allusione è a un Giappone letterario contemporaneo, veloce e un po’ zuccheroso che rimanda a gatti magici, caffè che raffreddano lentamente e inevitabili fiori di ciliegio, da titolo.
Una donna lascia il lavoro e si trasferisce in campagna con il marito, ottenendo una libertà mai conosciuta. Un’altra, dopo aver perso ben cinque impieghi, ne trova uno all’interno di una prestigiosa fabbrica in cui lavora anche il fratello, ritrovando una certa sicurezza economica, ancorché precaria. La fabbrica e La buca sembrano due romanzi distanti per contesti e tematiche, ma scorre in entrambi una vena sotterranea comune, che ritrae un mondo del lavoro che cannibalizza la vita dell’individuo, ma non come ci si aspetterebbe in un romanzo giapponese.
Moli di lavoro ingestibili, straordinari non pagati, mobbing, rigida gerarchia e inquadramento sociale: così per anni ci è stata raccontata la dimensione lavorativa giapponese e, di riflesso, quella sociale di un paese in cui l’impiego è un tassello centrale della definizione di sé. Anche lavori precari, socialmente degradanti e a tratti mortificanti (l’impiego al konbini di La ragazza del convenience store, il turno notturno alla fabbrica di bento in Le quattro casalinghe di Tokyo) hanno svolto negli anni una funzione chiave nel raccontare le identità anche di coloro che vivono ai margini, soprattutto donne, la cui condizione sociale si riflette proprio in un lavoro di basso livello. Hiroko Oyamada s’inserisce appieno in una rinnovata attenzione della letteratura giapponese per gli impatti profondissimi e talvolta disumanizzanti che il mondo del lavoro ha sull’organizzazione sociale giapponese. Lo fa però sottraendo all’equazione un elemento importante: il senso stesso del lavorare.
Per celebrare i 70 anni della collana SFF italiana per antonomasia – Urania Mondadori – dal 2 febbraio 2022 arriveranno in edicola 25 titoli di fantascienza in allegato con Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport.
A seguire trovare una breve guida con i miei consigli d’acquisto: cosa comprare, cosa evitare e cosa valutare, sulla base del mio personalissimo metro di (pre)giudizio e gusto letterario. Se volete sindacare o fornire ulteriori spunti a chi è in cerca di qualche dritta, siete i benvenuti nella sezione dei commenti.
È opinione diffusa che L’assassinio del commendatore sia un libro ricolmo di passaggi accessori. L’ultimo romanzo di Murakami, uscito in due volumi nel 2017 e nel 2018 in Italia, veleggia con agio verso le 800 pagine. Uno dei motivi per cui risulta poco riuscito è proprio la continua alternanza tra passaggi splendidamente eseguiti e scene la cui utilità è da cercarsi solo in faccende egoriferite in cui il lettore ha poco a che fare e ancor meno da ricavarne. A voler essere spietati, il primo centinaio di pagine si potrebbe tagliare con un preciso colpo di taglierino e la vicenda successiva continuerebbe a stare in piedi, richiedendo solo minimi aggiustamenti. Tanto che ****qualche lettore terribilmente tendenzioso (tra cui la sottoscritta) ha avanzato il dubbio che questo primo nucleo narrativo vivesse da tempo in qualche cassetto di legno o cartella virtuale dello scrittore giapponese più venduto, tradotto e letto al mondo, prima di venire ripescato e accorpato senza troppe cerimonie ad altri spunti per tirar fuori un possibile erede del suo ultimo grande successo, 1Q84.
A dispetto di quanto possa suggerire il titolo e questa premessa, sono qui per tessere le lodi di questo primo centinaio di pagine sostanzialmente inutile all’economia di L’assassinio del commendatore, che ha il raro pregio di gettare la luce su un Giappone quasi mai raccontato nella narrativa nipponica che i nostri editori selezionano e traducono: quello in cui a regnare è lo squallore.
Era da parecchio che non mi imbattevo in un recente romanzo fantascientifico così autenticamente fantascientifico. Bastano infatti un paio di capitoli di The Calculating Stars per intuire che Mary Robinette Kowal è una conoscitrice e frequentatrice abituale del genere in cui si cimenta e non un autore che sceglie di calarvisi per necessità narrative o di target. Prima segretaria e poi presidente della Science Fiction and Fantasy Writers of America (l’associazione/sindacato degli scrittori di genere professionisti che assegna ogni anno il premio Nebula), Kowal è un membro attivo della comunità SFF statunitense e internazionale, la cui attività si espande dalla scrittura al dibattito critico sul genere, grazie allo scanzonato podcast tematico Writing Excuses, che conduce con i colleghi e amici Dan Wells e Brandon Sanderson. Pare che sia stato proprio quest’ultimo a convincerla che la sua alternative history su cui era al lavoro da tempo meritasse di diventare una duologia o una serie. Opinione nemmeno troppo sorprendente, considerando l’approccio di Sanderson alla sua produzione.
Si desidera sempre quello che non si può avere. Nel caso dei bibliofili ciò che è esaurito, sold out, fuori catalogo, fuori stampa o venduto a peso d’oro in prima edizione, quando non completamente scomparso dalla circolazione e ignoto anche ai circoli dell’usato più estremi e infallibili.
A seguire un post/lista dei desideri che aspira ad essere lista della spesa, ovvero i libri/fumetti che vorrei comprare, possedere e leggere ma, per un motivo o per l’altro, non sono semplicissimi da reperire. Nella speranza di poter spuntare presto almeno un paio di questi volumi.
Poche volte mi sono sentita destinataria ideale di un romanzo come quando ho cominciato a leggere le prime pagine di Space Opera. Con una certa qual arroganza, va ammesso, mi sono ritrovata a chiedermi quante persone nella Penisola rientrino nella minuscola intersezione tra due vere e proprie nicchie: i lettori di fantascienza e gli appassionati di Eurovision Song Contest, la gara canora nata su ispirazione del Festival di Sanremo che proprio l’Italia ha finito per snobbare dopo l’annata in cui i Jalisse hanno sbancato all’Ariston e la RAI ha sbottato No, Eurovision, io me ne vado, lasciando inspiegabilmente la gara e il suo posto da big per anni e anni.
Col tempo ogni nodo viene al pettine e ogni impresa impossibile diviene fattibile: l’Italia è tornata a gareggiare e perdere per un soffio ostacolata dai complotti dei poteri forti europei, una scrittrice statunitense come Catherynne M. Valente ha scoperto per caso l’ESC (affettuoso acrononimo Twitter friendly di Eurovision Song Contest) e una piccolissima casa editrice di nome 21 lettere ha deciso di lanciarsi nell’epica impresa di pubblicare un romanzo di fantascienza finalista dello Hugo nel 2019. Tutto è possibile. Continua a leggere →
Sono stata molto tentata di aprire questa recensione con lo screenshot di una chat avvenuta qualche giorno fa tra me e il mio editor su Players Magazine Claudio. Questo scambio comincia mentre sono in coda fuori da un supermercato preso d’assalto durante l’epidemia di COVID-19. Davanti a me si profila un’ora abbondante di attesa, per cui apro un’app sul cellulare e comincio a leggere Docile, un romanzo fantascientifico uscito da qualche giorno per il più grande editore statunitense del comparto. Copertina dai colori pastello con uomo in smoking dal volto cancellato da un tratto bianco e un blurb accattivante: There is no consent under capitalism. Basta leggere la sinossi per capire che Docile promette sesso: tanto, controverso, acceso dalle tinte forti della riflessione politica sociale sul capitalismo e la sua tentacolare influenza su ogni ambito – pubblico e privato – della società.
Negli ultimi anni mi capita spesso di sentir dire che a un romanzo fantasy ben riuscito non può che avere una mappa nelle prime pagine, per illustrare al lettore come è fatto il mondo fantastico dove sono ambientate le vicende narrate. La mia esperienza di lettrice mi suggerisce esattamente il contrario: i libri di stampo fantastico ben scritti non hanno alcun bisogno di mappe introduttive, perché nei loro mondi vuoi perdertici dentro e, grazie alla bravura dell’autore, dopo qualche capitolo ti ci senti a casa.
Il mio approccio standard alla lettura di un romanzo (fantastico e non) è quello di consultare il meno possibile glossari, genealogie e tutto il materiale introduttivo e di corredo che affianca il testo duro e puro, lasciando fare allo scrittore, non pretendendo di orientarmi e capire tutto sin dalla prima riga. Se posso sentirmi smarrita o non del tutto consapevole della realtà attorno a me nel mondo in cui sono nata e che abito da decenni, per non dovrei esserlo anche in un realtà che esploro da poche pagine?
La frequenza con cui mi sono trovata a consultare le mappe (al plurale) nelle pagine iniziali di Il priorato dell’albero delle arance di Samantha Shannon racconta più di ogni altro aspetto la fatica che a volte un lettore deve fare per sopperire alle mancanze di chi scrive e guida.
A seguire i dieci libri che più ho amato e che più mi sono rimasti nel cuore o nella mente tra quanto ho letto e completato nel 2019. Come sempre, dato che il mio monte letture annuale non spiluccate o testate non supera la cinquantina di unità, i titoli caldamente raccomandanti/imperdibili sono da considerarsi i tre sul podio o poco più. Dieci titoli sono pur sempre più di un quinto del totale, ma potreste trovare qualcosa di vostro interesse anche nella parte bassa della classifica.