Tag
Alexander Beyer, Alicia Vikander, attacco della camera roteante, Benedict Cumberbatch, Bill Condon, biopic, bromance, Carice van Houten, constatatore dell'ovvio, Corporazioni Malvagie, Dan Stevens, Daniel Brühl, David Thewlis, Dreamworks, fangirlism, gioventù digitale, googlare i nomi per sicurezza, grande fantasia in fase di casting, il disperato urlo silenzioso della fangirl in incognito, Josh Singer, Laura Linney, omoaffettività, Peter Capaldi, ritratto di relazioni umane prima che lavorative, shippabbestia, Stanley Tucci, tratto da una storia di poco falsa
Se ci fosse stato bisogno di un’ulteriore prova di quanto “The Social Network” si sia imposto come pietra miliare e punto di riferimento nell’ultimo decennio cinematografico americano (e chissà se questa spanna temporale si potrà ulteriormente allungare), ecco arrivare nelle sale a distanza di un paio d’anni The Fifth Estate, film che per ambizione, tematiche e approccio punta palesemente a replicare l’incredibile successo del film di David Fincher.
L’ambizione della Dreamworks sembrava essere quella, almeno a giudicare dalla fretta su cui si è gettata ad opzionare i più rilevanti libri scritti ad oggi sulla figura di Julian Assange, compreso quello del collaboratore poi allontanato da WikiLeaks. Il soggetto, per quanto ancora in divenire, è particolarmente allettante e adatto a finire sul grande schermo, specie alla vigilia della stagione dei premi.
La prudenza però dovrebbe consigliare alla Dreamworks di non mettersi in competizione con un film così dirompente senza le adeguate contromosse, soprattutto affidando postazioni cruciali come regia e sceneggiatura a nomi conosciuti ma non stimati al livello dei predecessori. Sennò si prendono fregature terribili e si lascia ancora una volta Benedict Cumberbatch a salvare il film da solo.