Sin dalla prima scena del primo trailer rilasciato da Netflix Mindhunter urlava al mondo e a pieni polmoni: sono una creatura di David Fincher! Il che è davvero affascinante: cosa rende un’inquadratura strettissima su una fotografia in bianco e nero di un cadavere di donna che esce da un fax un’immagine così chiaramente riconducibile a un singolo regista?
La risposta non è così immediata e anzi, tra critici cinematografici, cinefili e colleghi invidiosi, sono anni che si tenta di dissezionare lo stile unico di uno dei più grandi registi televisivi e cinematografici statunitensi contemporanei. Mindhunter poteva essere poco più di un passatempo remunerativo per un nome che può permettersi di fare più o meno quel che vuole – a patto di girare un thriller più commerciale ogni tanto – al cinema e in televisione. Invece ben presto si trasforma nella più autentica creatura fincheriana, un vero e proprio compendio di cosa ha reso così celebre un regista così celebrale e maniacale da non scomparire nel paragone con Stanley Kubrick. Non da ultimo, il tocco di Fincher ha reso l’ennesima nuova serie TV targata Netflix una delle più strepitose novità dell’anno televisivo 2017.
La versione breve è che la dovete proprio vedere. La versione lunga è: quanto pesa sul suo notevole livello qualitativo il fatto di essere figlia di Fincher? Tanto. Tantissimo.
Il ritorno di David Fincher nelle sale italiane per me ha il sapore dell’anniversario, dato che il suo precedente film si era guadagnato la prima immagine di testata e uno dei primi post sull’allora neonato blog.
Dopo essere entrato nella storia del cinema con The Social Network, uno dei più apprezzati e discussi registi contemporanei ha deciso di tornare a uno dei suoi generi prediletti, il poliziesco, prestando la sua regia scrupolosa e calcolatissima all’adattamento di due romanzi caposaldo della produzione contemporanea: prima Stieg Larsson, ora Gillian Flynn.
Com’era prevedibile, di Gone Girl è difficile parlare male, data la presenza di Fincher e del suo codazzo di staff tecnico notevolissimo. L’unico livello del film su cui si può effettivamente aprire una discussione è quello di eventuali lacune o errori attribuibili a Fincher e al suo cast o delle incombenti nomination agli Academy Awards.
Gone Girl di Gillian Flynn, Crown Publishing Group, 2012, 432 pp.
Saprete di provare una vera ossessione quando l’annuncio del prossimo film di David Fincher corrisponderà per voi a dare priorità massima alla lettura del libro su cui si baserà il suddetto. Sì, la ragione principale che mi ha spinto alla lettura di Gone Girl è che Mr. Fincher ha deciso di girarci un film. Se vi può consolare, a fine lettura sono stata contattata da chi aveva fatto esattamente lo stesso ed era ansioso di poterne finalmente parlare a spoiler spiegati.
Come molti critici hanno evidenziato, fornire un’idea precisa sul contenuto del libro e un commento a chi non ne sa nulla è un processo spinoso e spiegare il perché comporterebbe già enormi spoiler che pregiudicherebbero il gusto della lettura/visione. Sintetizzando brutalmente, “Gone Girl” è un thriller incentrato sulla scomparsa di Amy Dunne, giovane moglie di Nick. Spendere la parola thriller però è già un mezzo passo falso, che nervi.
Domani arriverà nelle sale italiane Millenium – uomini che odiano le donne, l’adattamento con più soldi e meno estetica da film tv del primo libro della trilogia di Stieg Larsson.
Considerazioni preliminari:
a me il libro è piaciuto molto
a me David Fincher piace a riprese alterne (per esempio The Social Network per me è un nì)
a me la voglia di vederlo con tre settimane d’anticipo mi ha portato a vederlo in vacanza, nella versione ceca altresì detta Muži, kteří nenávidí ženy
Chiarito con il triplice a me che si tratta di un’opinione personale, mi sento di consigliarvi di andare al cinema a vederlo con una certa celerità.
Considerandolo come un film a sé
Mi sono sempre chiesta cosa avesse spinto uno dalla simpatia congenita come Fincher a prendere in mano una materia così conosciuta, amata e popolarizzata. Lui che se non ha la colonna sonora fighetto chic e gli attori giusti da torturare con decine di la rifacciamo non muove nemmeno un dito. Pensavo che qualche produttore fosse riuscito ad incastrarlo, magari con la promessa di lasciargli carta bianca per qualche sua idea più snob del solito. Invece devo dire che avere la briglia più stretta rende il suo lavoro molto più appetibile. Per una volta il caro David ha messo da parte tutta la sua spocchia registica e si è messo veramente al servizio dello spettatore, facendogli da tramite nella fruizione di una trama che, per quanto avvincente, presenta una marea di personaggi secondari essenziali e un climax narrativo ritardato.
La cura riservata alle ricostruzioni e agli ambienti (tutto girato in Svezia, con set che seguono fedelmente la descrizione letteraria e attori svedesi / facilmente svedesizzabili) è speculare alla cura riservata a rendere il cold case principale e anche le tematiche care a Larsson. Quindi nel pacchetto c’e’ tutto; il concetto piuttosto elastico di famiglia di Mikael, limiti e possibilità della tecnologia (in cui Fincher sguazza come un pesce), misoginia e razzismo latente nella civilissima Svezia, rapporto intricato e problematico con la religione e le autorità, violenza pubblica e privata.
Non è però un adattamento pedissequo. La sceneggiatura funziona alla perfezione, a parte un innesto un po’ forzato nel finale. Il tutto è riprodotto fedelmente, aggiustando solo lo spiegone attesissimo e asciugando un paio di lungaggini proprie del libro. Fincher poi non sta a guardare, non fa mancare alcune soluzioni magistrali e alcune scelte suggestive (il vertiginoso movimento di camera su Lisbeth che medita vendetta), ma senza schiacciare la storia sotto il peso dei virtuosismi. Anche perché lo spazio se lo prende all’inizio, plasmando una sequenza mozzafiato per i titoli di testa; su una nuova versione di Immigrant Song cantata da una scatenata Karen O, David Fincher omaggia le sue origini da regista di videoclip, deliziando lo spettatore/lettore con alcune strizzatine d’occhio e schiacciando sull’acceleratore emotivo ben sapendo di avere davanti a sé almeno 20 minuti in sordina.
A livello tecnico il film è sublime. Tutti i vostri stereotipi sulla fredda luce svedese e sugli interni asettici delle case del Nord Europa verranno ampiamente soddisfatti. La colonna sonora è più di una mera comprimaria.
Per quanto riguarda il casting, è semplicemente stupefacente. La cura nella scelta dei protagonisti è tanta e tale che chi ha letto il libro riconoscerà ad una semplice occhiata tutti i membri della famiglia Vanger. Rooney Mara è perfetta, mantiene una recitazione tesa e sottile nel dipingere un personaggio che, per sua natura, potrebbe scadere facilmente nell’eccesso. Se questa Lisbeth rimane ancorata alla realtà senza sformarla nelle svolte più drammatiche della vicenda, Daniel Craig riesce a tirare fuori la normalità di Mikael e i suoi conflitti morali senza costringerlo al mero ruolo di detective per caso.
Insomma, un adattamento forte di una storia di genere, che va ben oltre la media. Forse non il Fincher più artistico ma, data la desolazione qualitativa di questo giro di nomination agli Oscar, avrebbe meritato di più.
Considerandolo come il secondo remake del libro
Tutto è opinabile. E’ vero. Però guardiamoci in faccia: la versione svedese di questo libro è praticamente un film tv. L’estetica, la banalizzazione dei contenuti più morali della pellicola, la gigioneria di quel Mikael, l’attenzione concentrata esclusivamente sull’indagine, anche un certo calcare la mano sugli aspetti più freak di Lisbeth. Da quelle parti di film veramente valevoli ne fanno, ma questo non è il caso. E’ un la ragazza del lago svedese, che sale di un gradino grazie alla capicità di Noomi Rapace di non gettare alle ortiche un personaggio così fuori standard, donandogli un’umanità inaspettata.
Se poi ragioniamo sul metro dell’adattamento migliore su scala cronologica, allora è inutile che ne discutiamo.
Se c’e’ un film che rende giustizia con interezza non al risvolto giallo, ma ai temi della scrittura di Larsson, è quello di Fincher. Aggiungiamoci una realizzazione più elegante e degli interpreti sempre azzeccati, anche tra i comprimari. Daniel Craig è una star hollywoodiana, ma sul Mikael figazzo un po’ sciupato dalla vita solitaria post divorzio, guidato dalla sua moralità assoluta che fa breccia nel cuore di ogni svedese, beh, non mi pare ci sia storia.
Sulla questione del non vederlo perché la violenza nei film mi fa impressione e Fincher è misogino quindi sarà ancora più violento… per me è un ragionamento al limite della fantascienza. Soprattutto considerando il fatto che la pellicola svedese, a conti fatti, non taglia niente e anzi, mostra di più nella tanto vituperata scena dello stupro. Sotto quel punto di vista i film si equivalgono, anzi, Fincher glissa chiudendo una porta e lasciando al solo audio il compito di agghiacciarci. Ovvio che se si specula su una pellicola considerando i propri ragionamenti non come ipotesi ma come certezze fondate sul nulla, è inutile discuterne. Infine sulle polemiche riguardanti l’atmosfera plumbea della pellicola di Fincher, come se la materia iniziale fosse neutra e ambientata in quel di Capri, vi grazierò di ulteriori commenti.
Lo vado a vedere? Sì, se hai voglia di un buon film basato su un cold case piuttosto intricato e supportato da un ottimo lato tecnico e interpretativo. Ci shippo qualcuno? Mh, non è questo il punto. Coefficiente viuleeenza? A patto di non essere troppo impressionabili, non vi turberà la coscienza. A meno che vi infastidiscano le scene di nudo. Ma allora che ci state a fare qui? XD
Conferisco al film una di gradimento personale come roba che avrei voglia di rivedere subito. E per i guardaroba da svenimento con cui hanno rifinito Daniel Craig.