Come petali nel vento è un libro molto ingannevole, o quantomeno lo è la sua confezione. Non è difficile immaginare cosa abbia cercato di fare Garzanti creando una combinazione estremamente allusiva tra illustrazione di copertina, palette di colori, titolo e breve blurb in copertina: un segreto di famiglia che si tramanda di donna in donna. Perché l’indipendenza economica è la strada per la libertà.
L’allusione è a un Giappone letterario contemporaneo, veloce e un po’ zuccheroso che rimanda a gatti magici, caffè che raffreddano lentamente e inevitabili fiori di ciliegio, da titolo.
Una donna lascia il lavoro e si trasferisce in campagna con il marito, ottenendo una libertà mai conosciuta. Un’altra, dopo aver perso ben cinque impieghi, ne trova uno all’interno di una prestigiosa fabbrica in cui lavora anche il fratello, ritrovando una certa sicurezza economica, ancorché precaria. La fabbrica e La buca sembrano due romanzi distanti per contesti e tematiche, ma scorre in entrambi una vena sotterranea comune, che ritrae un mondo del lavoro che cannibalizza la vita dell’individuo, ma non come ci si aspetterebbe in un romanzo giapponese.
Moli di lavoro ingestibili, straordinari non pagati, mobbing, rigida gerarchia e inquadramento sociale: così per anni ci è stata raccontata la dimensione lavorativa giapponese e, di riflesso, quella sociale di un paese in cui l’impiego è un tassello centrale della definizione di sé. Anche lavori precari, socialmente degradanti e a tratti mortificanti (l’impiego al konbini di La ragazza del convenience store, il turno notturno alla fabbrica di bento in Le quattro casalinghe di Tokyo) hanno svolto negli anni una funzione chiave nel raccontare le identità anche di coloro che vivono ai margini, soprattutto donne, la cui condizione sociale si riflette proprio in un lavoro di basso livello. Hiroko Oyamada s’inserisce appieno in una rinnovata attenzione della letteratura giapponese per gli impatti profondissimi e talvolta disumanizzanti che il mondo del lavoro ha sull’organizzazione sociale giapponese. Lo fa però sottraendo all’equazione un elemento importante: il senso stesso del lavorare.
È opinione diffusa che L’assassinio del commendatore sia un libro ricolmo di passaggi accessori. L’ultimo romanzo di Murakami, uscito in due volumi nel 2017 e nel 2018 in Italia, veleggia con agio verso le 800 pagine. Uno dei motivi per cui risulta poco riuscito è proprio la continua alternanza tra passaggi splendidamente eseguiti e scene la cui utilità è da cercarsi solo in faccende egoriferite in cui il lettore ha poco a che fare e ancor meno da ricavarne. A voler essere spietati, il primo centinaio di pagine si potrebbe tagliare con un preciso colpo di taglierino e la vicenda successiva continuerebbe a stare in piedi, richiedendo solo minimi aggiustamenti. Tanto che ****qualche lettore terribilmente tendenzioso (tra cui la sottoscritta) ha avanzato il dubbio che questo primo nucleo narrativo vivesse da tempo in qualche cassetto di legno o cartella virtuale dello scrittore giapponese più venduto, tradotto e letto al mondo, prima di venire ripescato e accorpato senza troppe cerimonie ad altri spunti per tirar fuori un possibile erede del suo ultimo grande successo, 1Q84.
A dispetto di quanto possa suggerire il titolo e questa premessa, sono qui per tessere le lodi di questo primo centinaio di pagine sostanzialmente inutile all’economia di L’assassinio del commendatore, che ha il raro pregio di gettare la luce su un Giappone quasi mai raccontato nella narrativa nipponica che i nostri editori selezionano e traducono: quello in cui a regnare è lo squallore.
Il settimo giorno del settimo mese del calendario lunare è – secondo la tradizione giapponese – l’unico giorno dell’anno solare in cui gli amanti Orihime e Hikoboshi possono ricongiungersi, così come le costellazioni Vega e Altair che rappresentano. Sebbene vari di anno in anno in base al calendario, tradizionalmente i festeggiamenti del Tanabata cominciano il 7 luglio 2018.
Quale migliore occasione di una delle cinque maggiori festività del calendario giapponese (gosekku) per parlare un po’ di letteratura giapponese?
Il nuovo film di Hirokazu Kore-eda valeva la Palma d’Oro? Sì, è di certo un film ben sopra il livello del meritorio, che non esiterei a definire magistrale.
Certo con solo cinque dei venti e passa film in concorso visti è difficile esprimere giudizi di merito, però quel che è certo è che il regista giapponese vivente più amato e noto nel circuito internazionale ha scritto e diretto una pellicola di raro equilibrio e maestria, anche per uno come lui che sia dall’esordio documentaristico ma dimostrato di una capacità di sintesi e un’espressività eccezionali.
La domanda dopo l’ulteriore conferma di Un affare di famiglia sorge spontanea: Hirokazu Kore-eda ha mai sbagliato un film in vita sua? Continua a leggere →
C’è stato un tempo in cui il cinema di Wes Anderson era davvero una chicca appannaggio quasi esclusivo dei cinefili che facevano dei loro gusti anticonformisti e ricercati motivo di vanto e punto d’onore. Poi è arrivato l’Internet delle masse e dell’alta velocità, l’hipsteria si è diffusa e insieme a barbe imperanti, polaroid e magliette a righe Wes Anderson è diventato l’equivalente della Marvel in campo fumettistico.
Incurante del suo ruolo contraddittorio di riferimento estetico di massa e icona di nicchia hipster (e della disperazione dei fan dell’epoca, costretti a scegliere se essere conformisti e sprezzanti rispetto al loro idolo), Wes Anderson è andato per la sua strada, continuando ad essere cinematograficamente fedele a sé stesso. Ormai non c’è davvero più bisogno di spiegare cosa e quanto ci sia del suo estro e del suo gusto in un film come L’isola dei cani, quindi concentriamoci piuttosto su un nome che non dovrebbe eppure ha ancora bisogno di presentazioni; quello di Kunichi Nomura.
Non capita spesso di poter leggere a stretto giro le nuove voci della narrativa giapponese in traduzione italiana, anche quando sono travolte da un successo clamoroso.
La mia fallace memoria suggerisce che l’ultima volta era forse successo con Wataya Risa, arrivata in Italia per Einaudi forte di una vibrazione da nipotina di Banana Yoshimoto e della vittoria del prestigioso premio Akutagawa.
Per concludere questa settimana di letture fuori dall’ordinario sotto l’egida di edizioni e/o e riprendendo il ritmo gerundivo dei tempi d’oro (in award season miei cari, pregate per me), questa domenica comincio a recuperare alcune letture passate finora taciute. Perciò eccomi qui a spendere qualche riga sul giovane Sakumoto Yōsuke e il suo romanzo d’esordio, Il Giovane Robot.
Mentre Cannes 70 si sta chiudendo con un’edizione che, salvo sorprese dell’ultimo minuto, si è rivelata senza infamia e senza lode, nei nostri cinema arriva una pellicola passata nella scorsa annata in Un Certain Regard che costituisce l’alternativa perfetta alla proposta mainstream e familiare dei Pirati Disney. Ritratto di famiglia con tempesta conferma non solo che Hirokazu Kore-eda può tirare fuori dal nulla più banale un film in grado di scaldare il cuore, ma anche che negli ultimi anni le proposte più interessanti e solide di Cannes spesso non finiscono in concorso.
Siamo decisamente entrati in una seconda fase della carriera del grande umanista e regista giapponese, che, lasciatosi alle spalle i suoi film più importanti e ambiziosi, sembra concentrarsi su piccole pellicole che ruotano attorno al quotidiano più puro, lo slice of life.
Il Giappone che conosciamo attraverso i film e i romanzi è uno specchio fedele del Paese del sud est asiatico forse più noto e compreso in Occidente? Mi viene sempre da chiedermi se sia davvero solo una coincidenza l’arrivo di una fetta ben definita di prodotti animati e recitati sul nostro mercato, come nel caso di Your Name, in questi giorni in uscita speciale e limitata nelle sale italiane, dopo aver sbancato il botteghino giapponese per un anno (avendo superato la quota pazzesca di 380 milioni di dollari d’incasso in patria).
L’ultimo lavoro di Makoto Shinkai è ad oggi il miglior incasso di sempre di un film giapponese nel mercato domestico, superato solo da La Città Incantata di quel Hayao Miyazaki di cui viene spesso citato come l’erede spirituale, anche se a ben vedere i due registi d’animazione non hanno poi molto da spartire, se non appunto la tipologia di lungometraggi prodotta e quel certo lirismo nipponico oggetto del mio primo quesito. Your Name è un film all’altezza del suo successo? Continua a leggere →
Esistono due universi cinematografici: quello delle sale, dei trailer e della cartellonistica e quello dei piccoli festival, dei film underground e del passaparola. Due insiemi che si intersecano infrequentemente, ma presso la cui area d’intersezione sta l’appassionato medio di cinema. Questo per dire che anche se piccolo, lontano e con pochissime possibilità di approdare in sala, in quanto appassionati di cinema è probabile che abbiate già sentito parlare di Kumiko the Treasure Hunter, la sorpresa dell’edizione 2014 del Sundance Film Festival, forse che l’abbiate anche già visto.
Con il suo approccio da film tipicamente da Sundance, la sua estetica vagamente naif e il suo metalivello cinematografico non poteva che toccare il cuore di tanti. Quando però un critico di Variety l’ha inserito nella lista dei migliori film dell’anno finora visionati, è arrivato il momento di parlare più a fondo di questa pellicola. Continua a leggere →