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Aidan Gillen, Allen Leech, Ben Hardy, biopic, Bryan Singer, Gwilym Lee, Joseph Mazzello, Lucy Boynton, musica, nessuno mi capisce, omoaffettività, Rami Malek, Tom Hollander, volemose bene
Se non è solo fantasia, di certo non profuma di vita vera Bohemian Rhapsody, il film biografico che promette di rileggere la storia della rock band inglese per eccellenza ricalcandola sulla classica parabola del carismatico leader: ascesa, fama, diventare uno stronzo, caduta, rialzarsi faticoso e ultimo momento topico, raggiunto finalmente con consapevolezza adulta.
A compiere l’ascensione al Golgota della Fama è ovviamente Freddie Mercury, leader indiscusso del gruppo, una spanna di geniale sensibilità sopra gli altri: magari anche un film sull’infinita pazienza di Brian May sarebbe interessante, ma c’è un indubbio vantaggio ad essere la leggenda deceduta in giovane età.
La prima notizia non esattamente sorprendente è che il film – pur valutandolo negli standard non proprio autoriali degli studios statunitensi – non è l’omaggio irriverente e ardito che si sarebbe meritato una delle icone della musica inglese del Novecento. La seconda è che inaspettatamente siamo ripiombati in un mood biografico volemosebenista da pieni anni ’90.