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Una donna lascia il lavoro e si trasferisce in campagna con il marito, ottenendo una libertà mai conosciuta. Un’altra, dopo aver perso ben cinque impieghi, ne trova uno all’interno di una prestigiosa fabbrica in cui lavora anche il fratello, ritrovando una certa sicurezza economica, ancorché precaria. La fabbrica e La buca sembrano due romanzi distanti per contesti e tematiche, ma scorre in entrambi una vena sotterranea comune, che ritrae un mondo del lavoro che cannibalizza la vita dell’individuo, ma non come ci si aspetterebbe in un romanzo giapponese.
Moli di lavoro ingestibili, straordinari non pagati, mobbing, rigida gerarchia e inquadramento sociale: così per anni ci è stata raccontata la dimensione lavorativa giapponese e, di riflesso, quella sociale di un paese in cui l’impiego è un tassello centrale della definizione di sé. Anche lavori precari, socialmente degradanti e a tratti mortificanti (l’impiego al konbini di La ragazza del convenience store, il turno notturno alla fabbrica di bento in Le quattro casalinghe di Tokyo) hanno svolto negli anni una funzione chiave nel raccontare le identità anche di coloro che vivono ai margini, soprattutto donne, la cui condizione sociale si riflette proprio in un lavoro di basso livello. Hiroko Oyamada s’inserisce appieno in una rinnovata attenzione della letteratura giapponese per gli impatti profondissimi e talvolta disumanizzanti che il mondo del lavoro ha sull’organizzazione sociale giapponese. Lo fa però sottraendo all’equazione un elemento importante: il senso stesso del lavorare.
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