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adolescenti problematici, Adrien Brody, Autocompiacimento registico, Blythe Danner, Bryan Cranston, Carl Lund, Christina Hendricks, delicate palette cromatiche, film col dramma dentro, film PESO, inducendo al suicidio, James Caan, Lucy Liu, Marcia Gay Harden, Tony Kaye, tristezza a palate
Quando mi consigliano un film tendo a non prendere mai sottogamba la pellicola, anzi, possiedo svariati listoni di film menzionati e calorosamente raccomandanti chissà quando, chissà dove e soprattutto chissà da chi.
Questo continuo accumularsi di consigli e lungometraggi in attesa della mia attenzione fornisce uguale divertimento e disperazione; il primo dovuto all’avventurarsi una sera nella visione di qualcosa di cui non ricordi nulla (consiglio escluso), la seconda legata al rimorso di non sapere associare un nome al ringraziamento dovuto.
Sì, dovrei ringraziare perché Detachment fila via ad alto coinvolgimento emotivo, ti lascia un livido poteva sfiorarti. Forse dargli del “bello” non è pertinente, perché quando guardi in faccia tanta disperazione raccontata da un punto di vista tanto arroccato, il giudizio si radicalizza su uno dei due poli (assolutamente bellissimo! – fa schifo immondamente!). Forse la verità si muove su entrambi i poli, strattonato com’è dalla frammentarietà del racconto, dalla scazzottata tra realismo e svolte decisamente sopra le righe, dal budget abbastanza pezzente.
Piccola nota: sentitevi comunque liberi di consigliarmi anche film che non mi inducano a raggomitolarmi sotto una coperta di lana e gemere sommessamente per l’inutilità dell’esistenza umana. Non mi offendo, promesso.