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Se non fosse un film deludente e incapace di suggerire la benché minima ragione che ne giustifichi l’esistenza, X-Men: Dark Phoenix sarebbe un soggetto di studio estremamente affascinante. Il merito è del suo travagliatissimo dietro le quinte e di una serie di contraddizioni che rendono il dodicesimo film sui mutanti ad arrivare sul grande schermo un assoluto unicum, pur essendo un sostanziale remake nel contenuto e nello scopo.
Già la prima trilogia mutante – a cui aveva dato il via Bryan Singer – aveva optato per la saga della Fenice Nera come chiusa di alto valore drammatico. D’altronde stiamo parlando una lunga run iniziata nel 1980 e divenuta tra le più celebri e influenti dell’intera galassia mutante. Innanzitutto perché racconta di un potere illimitato e assoluto, che rende una perfettina come Jean Grey uno dei personaggi più sinistri dell’universo mutante, senza dimenticare che proprio questo arco narrativo è già stato benedetto da una trasposizione animata negli anni ’90 (da noi nota come Gli Insuperabili X-Men), considerata tra i migliori prodotti d’animazione americani di sempre. Al cinema invece non c’è proprio verso che la Fenice riesca a spiccare il volo.
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