Ispira persino un po’ di divertita tenerezza constatare l’assoluta trasparenza dell’operazione Molly’s Game, il film con cui lo sceneggiatore contemporaneo per antonomasia Aaron Sorkin decide di dirigere un copione scritto di suo pugno in maniera letterale, esordendo alla regia. Il meccanismo è ben oliato, quasi un automatismo di scrittura: cerca il tratto da una storia vera giusto, un profilo biografico straordinario e iconico, quello che gli statunitensi definiscono larger than life.
Poi scrivilo e riscrivilo piegandolo ai messaggi e alle riflessioni che intendi farci sopra, anche se la vicenda iniziale non era poi così automaticamente riferibile a quello che gli arguti dialoghi sorkiniani ora alludono e ora urlano.
Solo che stavolta al centro della vicenda scritta da uno degli autori più criticati per le sue controverse figure femminili c’è una protagonista di sesso femminile. Continua a leggere →
Stavolta mi ritrovo davvero a soppesare le parole, scegliendole con cura, perché dare un giudizio complessivo su Man of Steel è pressoché impossibile.
Troppe le discriminanti da tenere in considerazione per tentare di prevedere a chi piacerà, mentre risulta molto più facile intuire chi scontenterà. Saranno in parecchi, perché ancora una volta va riconosciuto a Warner Bros di essere riuscita a coniugare i propri interessi nel rilancio di un franchise volto a sostituire parzialmente il Cavaliere Oscuro con l’ambizione di rischiare un budget decisamente consistente (225 milioni di dollari accertati, ma vedendo la pellicola sembrano decisamente di più) osando, tentando di tirare fuori un cinecomics maturo e qualitativamente alto.
La scelta chiave e la discriminante del gradimento è ancora una volta incarnata da Zack Snyder, dal suo stile personalissimo e graffiante, che imprime un carattere deciso al film, rendendolo però meno universale della trilogia di Batman che ricorre ovunque, dai nomi in produzione alla sceneggiatura.
Quello che personalmente mi fa promuovere per una calorosa promozione ma che forse lascerà molti disorientati (e per molti intendo il pubblico generalista col boccato Marvel) è che questo Superman è forse il primo, vero erede del mondo di carta e vignette che ne ha generati i protagonisti.
Approvo l’approccio della Warner Bros al secondo, grosso tentativo cinematografico di rilanciare Superman, l’ultima grande icona dei comics non ancora salita sul carro dei vincitori.
Poco materiale, ben montato, ben dilatato, capace di creare l’aspettativa ma senza dare la sensazione di aver già visto tutto il film (Iron Man 3 anyone?). Così, dopo un già ottimo teaser, oggi è stata sganciata una bomba, questo trailer.
Data di uscita italiana: 20 giugno 2013
Per i meno accorti di voi, a una sola settimana dall’uscita italiana di “Stark Trek Into Darkness”. Continua a leggere →
The Bodyguard è uno degli esempi fulgidi quanto un film possa essere sbagliato (frequentando le lande affolate dei Cinemozioni5) eppure rappresentare qualcosa all’interno e all’esterno del mondo cinematografio.
La guardia del corpo, come traduce il solerte sottotitolo italiano, è stata l’immagine topica per i tiggì italiani al momento di parlare dei vizi e delle virtù di Whitney Huston all’indomani della sua morte. Perchè usare come sunto della carriera di una talentuosissima cantante quel correre tra le braccia di Kevin Costner all’alba, sulla pista dell’aeroporto? Semplice, perchè la potenza espressiva della voce di Whitney è indubbia. Ma The Bodyguard è stato un potentissimo veicolo per amplificarla nei nostri cuori.
I limiti del film sono tutti lì, autoevidenti. Quante volte ci è capitato di schernirlo, di banalizzarne i contenuti non proprio sorprendenti.
Eppure.
Eppure se ci penso oggi, a distanza di 20 anni dall’enorme successo che ebbe (e che, sotto sotto, continua ad avere, essendo uno dei cult delle serate estive di Canale5), mi accorgo di un paio di cose:
The Bodyguard è un film che osa. Se c’e’ una cosa che i cinemozioni5 / i film d’ammmore /i film per donne /i film romantici non fanno MAI, è osare. Volano basso. Invece questo, sin dalla presentazione della sua protagonista, si libra alto. Non si accontenta di raccontarci una storia d’amore tra un comune mortale e una diva del jet set, no! C’e’ anche il thriller, con il misterioso assassino che attenta alla vita di Whitney. Nonostante il regista sia finito poi alla tv, non si è limitato a grattarsi la pancia…ed infatti ce la ricordiamo tutti la scena con il velo tagliato dalla katana. Idem per le riprese dei momenti canterini e per i bellissimi metamontaggi in cui Kevin guarda alla televisione una Whitney che gli dice di voler correre da lui, osservando la casa in cui lei è chiusa, a pochi metri da lui, che vorrebbe correre da lei. Nella realtà, fuori dal televisore. Osa persino nei costumi, così terribilmente ’90, ma così terribilmente inaccusabili per la disinvolutura con cui sono indossati. Prima di parlare di miracolo d’inventiva e anticonvenzionalità, ricordatevi cosa faceva Whitney nel 1992.
L’amore nella vita reale. La protagonista è divisa tra carriera rampante e vita privata. E’ bellissima ma incapace di trovare un fidanzato fisso. Si innamora sì di un uomo in grado di accettarne i limiti, sì. Ma la presenza del figlio di lei, dei limiti del lavoro di Kevin, del conflitto d’interessi, dell’incapacità di Whitney di rinunciare al suo successo immergono il tutto nel mondo reale e con una buona dose di autobiografismo. Tanto che il film corona con un finale amarissimo, pur essendo romantico. Tanto che a metà film, al bar, con la canzone dei cowboy, loro e noi, tutti abbiamo già capito che non c’e’ futuro. Ed è per questo che la conferma ai nostri dubbi fa ancora più male quando si presenza, servitaci con la canzone che Whitney dedica a Kevin e, ironia della sorte, quella diverrà LA canzone di Whitney. Una canzone di disperazione, più che di amore.
Kevin e Whitney sono dei codardi. Lui è rigido, lei è capricciosa e impaurita. Accampano mille scuse, si nascondono dietro mille problemi, tanto che rinunciano alla felicità a portata di mano come se fosse irrangiungibile. Una storia che nel mondo fuori dai cinemozioni5 si ripete giornalmente.
E’ un manifesto degli anni ’90. Quel essere spregiudicati ma trattenuti dalle scottature della fine dell’euforia degli ’80. Soprattutto la sottile malinconia che permea ogni cosa, che sopravvive alla facile risata suscitata da qualche guardaroba kitch.
Normalmente un buon film ha una canzone che spacca nell’OST. Quando è eccezionale, diventa indimenticabile. Negli anni ’90 non si lesinava mai, ed era bellissimo. Ma è raro che un film di questo livello tecnico presenti ben 5 brani assolutamente eccelsi. Per trovare altri 5 brani così bisogna scavare nell’ordine del centinaio di pellicole.
Addio Whitney. Grazie per avermi fatto rivalutare The Bodyguard.