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Autocompiacimento registico, Costumismi, Daniel Day-Lewis, delicate palette cromatiche, film d'Ammmmore, Jonny Greenwood, Lesley Manville, Oscar 2018, Paul Thomas Anderson, Vicky Krieps
Al contempo film senza tempo e traguardo nettissimo della carriera del suo realizzatore, Il filo nascosto prova ancora una volta come Paul Thomas Anderson sia un cineasta unico, il cui arco evolutivo è imprevedibile e soprattutto inimitabile.
Lasciatosi alle spalle la ribollente verve creativa degli esordi e relativo codazzo di minutaggi imponenti e di scene in aperta sfida alla maestria registica, Paul Thomas Anderson ha asciugato il suo cinema, concentrandone le forza in tutto quello che non mostra e non dice più in maniera diretta.
Con Il filo nascosto lascia per la prima volta i suoi Stati Uniti in favore della vecchia Inghilterra degli anni ’50, in un contesto classista che più posh e distante dalla west coast è difficile immaginare. Eppure lo sposalizio tra un tipo di film fuori dal tempo e le magnifiche ossessioni del suo cinema statunitense dà vita a un film così sottile e complesso che l’impressione più forte che si ricava da Il filo nascosto è quella che una visione sia gravemente insufficiente a comprendere il film nella sua interezza.
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