Forse Garth Davis sperava davvero di fare il salto di qualità girando un film a tematica religiosa con tanto di crocifissione del Cristo, scenario che da sempre si accompagna a grandi dibattiti e facili controversie. Dopo la regia di alcuni episodi di Top of the Lake e di Lion, Davis si prende l’incarico di portare ancora una volta la vita e la morte del fondatore del Cristianesimo su grande schermo, anche se il focus del film è chiaramente un altro.
La figura da analizzare e valutare qui è quella di Maria Maddalena, protagonista silenziosa di alcuni momenti chiave della vita di Cristo, che però non ha avuto alcun impatto nella costituzione della Chiesa nata all’indomani della sua morte.
L’aspetto più sorprendente di un film di cui si parla davvero pochissimo e che rischia di non uscire negli Stati Uniti è però l’anonimato e il distacco con cui presenta la sua storia, proprio quella storia che ha finito per far sbilanciare alcuni dei cineasti più acclamati dell’ultimo secolo.
Essere in sala mentre viene proiettato Il Segreto, melodramma scritto e diretto da Jim Sheridan, è come assistere da testimoni al drammatico incidente frontale tra un film di Ken Loach declinato nei toni più paternalistici e un adattamento di Nicholas Sparks tra i più melensi: insomma, decisamente non un bel vedere.
Dato che poi il segreto a cui allude il titolo rientra appieno nella categoria di quelli da Pulcinella (tanto che uno si fa venire i dubbi e i sudori freddi pensando “non è che il segreto sarà proprio quello, vero? Non avranno mica il coraggio!) è meglio concentrarsi sull’enigma Rooney Mara, attrice al momento più importante per il rito del red carpet che per popolarità netta, che ancora una volta si libra leggera su un film che per i suoi compagni di cast è un’accoltellata alla schiena.
È di nuovo ora di fare mea culpa, è di nuovo ora di tornare a parlare entusiasticamente di un film della Laika dopo averla quasi dimenticata, sommersi come siamo film dei grandi studi d’animazione occidentale. Certo che con 4 film all’attivo in 10 anni forse siamo anche un po’ giustificati, ma la domanda rimane sempre quella: perché quando si parla di grande animazione, di stato dell’arte e di Oscar viene sempre in mente Pixar o Disney, nella annate buone Dreamswork?
Sarà che amo particolarmente il folklore giapponese, per cui la trama di Kubo e la Spada Magica per me cade a fagiolo, ma uscendo dalla sala l’impressione è stata di non vedere da molto, molto tempo un film d’animazione così bello e ineccepibile, anche pescando tra i titoli più riusciti della Pixar post fusione Disney. Dato che sono fermamente convinta che il cambio di status societario abbia lasciato un’impronta anche sulla fase cinematografica 2.0 della Pixar, non sarà mica che Laika tira fuori film così spettacolari in virtù della sua conformazione? Continua a leggere →
In una stagione dei premi finalmente avvincente perché priva di un vero e proprio film forte da battere, il ruolo scomodo di front runner nella pletora di premi di categoria lo sta ricoprendo il nuovo film di Todd Haynes, che in realtà non venne calorosamente accolto al suo passaggio sulla Croisette…perché sì, anche il film che probabilmente rastrellerà più nomination e Oscar quest’anno è stato presentato alla stampa a Cannes. No, giusto per ribadire. Adattamento del più controverso romanzo di Patricia Highsmith (originariamente intitolato The Price of Salt), Carol ha il grande, grandissimo merito di aver cancellato parzialmente o del tutto la presenza di quelle sviolinate omoaffettive che puntano a far commuovere l’Academy: Freeheld? The Danish Girl? Partendo da premesse LGBT simili Carol non le fa sbiadire. Le cancella proprio, con una classe nel ritrarre, suggerire, romanzare che ci ricorda perché ci piacciono tanto i film romantici drammatici a tinte lesbo.
Da grande cultrice delle ecatombi cinematografiche a-la-John Carter (ormai un vero e proprio case study che come sapete mi sta anche molto a cuore) e da grande amante degli adattamenti cinematografici di Joe Wright, mi duole sottolineare come i discorsi più interessanti su Pan non riguardano la sfera artistica, che è davvero poca cosa, purtroppo.
Costato 155 milioni di dollari, Pan nel primo fine settimana d’uscita statunitense ne ha portati a casa a stento 15, la metà del tremendo andamento di John Carter (che però era costato più del doppio: quello sarà un record negativo davvero duro da battere). Cosa è andato storto nel tentativo di Warner Bros di capitalizzare il recente successo dei remake live action dei classici Disney?
Il grande ritardatario tra i nominati a Miglior Film per l’Oscar 2014 (dai, che quest’anno ci è andata di lusso), Her di Spike Jonze è un film di Spike Jonze. Per quanto lapalissiano possa suonare, al di là di meriti oggettivi e difetti discutibili, il gradimento di questo film dipende molto dalla vostra lunghezza d’onda emotiva. Si sovrappone almeno in parte con quella del sceneggiatore/regista di raffinate e sensibilissime pellicole, sì o no? Ecco la vostra risposta.
Parlando a livello personale, mi posizionerò a livello mediale. Non sono così socievole da poter bollare come cagata pazzesca l’effettiva difficoltà del protagonista della pellicola a relazionarsi a persone in carne ed ossa, capitolando alla tentazione di lasciarsi cullare dall’alternativa più comoda, solo apparentemente meno problematica, dell’intelligenza artificiale. Tuttavia non mi sento di gridare al miracolo circa la visione futuristica sulle relazioni umane e la tecnologia proposta da Jonze perché dai, raga, seriamente, ma dove sarebbe tutta questa pensata rivoluzionaria?
Dove andremo a finire? Dove andremo a finire se adesso mi tocca pure fare le lodi di un film di Steven Soderbergh, che ultimamente aveva sfornato questo e questo. Un film con Channing COLLO Tatum in cui si può parlare di buona recitazione, nonostante COLLO! In che mondo privo di punti fermi viviamo, eh.
Mi tocca pure stare molto sul vago, perché “Effetti Collaterali” è il classico thriller costruito sul punto di vista di un uomo sostanzialmente “buono” (Jude Law) che viene suo malgrado coinvolto in una situazione sempre più distruttiva. Il suo tentativo di uscirne, che equivale a scoprire la verità (ovvero l’interpretazione corretta di quanto gli sta accadendo), porta a ribaltare molte volte la lettura di quanto avvenuto, fino al finale, costruito in crescendo.
Domani arriverà nelle sale italiane Millenium – uomini che odiano le donne, l’adattamento con più soldi e meno estetica da film tv del primo libro della trilogia di Stieg Larsson.
Considerazioni preliminari:
a me il libro è piaciuto molto
a me David Fincher piace a riprese alterne (per esempio The Social Network per me è un nì)
a me la voglia di vederlo con tre settimane d’anticipo mi ha portato a vederlo in vacanza, nella versione ceca altresì detta Muži, kteří nenávidí ženy
Chiarito con il triplice a me che si tratta di un’opinione personale, mi sento di consigliarvi di andare al cinema a vederlo con una certa celerità.
Considerandolo come un film a sé
Mi sono sempre chiesta cosa avesse spinto uno dalla simpatia congenita come Fincher a prendere in mano una materia così conosciuta, amata e popolarizzata. Lui che se non ha la colonna sonora fighetto chic e gli attori giusti da torturare con decine di la rifacciamo non muove nemmeno un dito. Pensavo che qualche produttore fosse riuscito ad incastrarlo, magari con la promessa di lasciargli carta bianca per qualche sua idea più snob del solito. Invece devo dire che avere la briglia più stretta rende il suo lavoro molto più appetibile. Per una volta il caro David ha messo da parte tutta la sua spocchia registica e si è messo veramente al servizio dello spettatore, facendogli da tramite nella fruizione di una trama che, per quanto avvincente, presenta una marea di personaggi secondari essenziali e un climax narrativo ritardato.
La cura riservata alle ricostruzioni e agli ambienti (tutto girato in Svezia, con set che seguono fedelmente la descrizione letteraria e attori svedesi / facilmente svedesizzabili) è speculare alla cura riservata a rendere il cold case principale e anche le tematiche care a Larsson. Quindi nel pacchetto c’e’ tutto; il concetto piuttosto elastico di famiglia di Mikael, limiti e possibilità della tecnologia (in cui Fincher sguazza come un pesce), misoginia e razzismo latente nella civilissima Svezia, rapporto intricato e problematico con la religione e le autorità, violenza pubblica e privata.
Non è però un adattamento pedissequo. La sceneggiatura funziona alla perfezione, a parte un innesto un po’ forzato nel finale. Il tutto è riprodotto fedelmente, aggiustando solo lo spiegone attesissimo e asciugando un paio di lungaggini proprie del libro. Fincher poi non sta a guardare, non fa mancare alcune soluzioni magistrali e alcune scelte suggestive (il vertiginoso movimento di camera su Lisbeth che medita vendetta), ma senza schiacciare la storia sotto il peso dei virtuosismi. Anche perché lo spazio se lo prende all’inizio, plasmando una sequenza mozzafiato per i titoli di testa; su una nuova versione di Immigrant Song cantata da una scatenata Karen O, David Fincher omaggia le sue origini da regista di videoclip, deliziando lo spettatore/lettore con alcune strizzatine d’occhio e schiacciando sull’acceleratore emotivo ben sapendo di avere davanti a sé almeno 20 minuti in sordina.
A livello tecnico il film è sublime. Tutti i vostri stereotipi sulla fredda luce svedese e sugli interni asettici delle case del Nord Europa verranno ampiamente soddisfatti. La colonna sonora è più di una mera comprimaria.
Per quanto riguarda il casting, è semplicemente stupefacente. La cura nella scelta dei protagonisti è tanta e tale che chi ha letto il libro riconoscerà ad una semplice occhiata tutti i membri della famiglia Vanger. Rooney Mara è perfetta, mantiene una recitazione tesa e sottile nel dipingere un personaggio che, per sua natura, potrebbe scadere facilmente nell’eccesso. Se questa Lisbeth rimane ancorata alla realtà senza sformarla nelle svolte più drammatiche della vicenda, Daniel Craig riesce a tirare fuori la normalità di Mikael e i suoi conflitti morali senza costringerlo al mero ruolo di detective per caso.
Insomma, un adattamento forte di una storia di genere, che va ben oltre la media. Forse non il Fincher più artistico ma, data la desolazione qualitativa di questo giro di nomination agli Oscar, avrebbe meritato di più.
Considerandolo come il secondo remake del libro
Tutto è opinabile. E’ vero. Però guardiamoci in faccia: la versione svedese di questo libro è praticamente un film tv. L’estetica, la banalizzazione dei contenuti più morali della pellicola, la gigioneria di quel Mikael, l’attenzione concentrata esclusivamente sull’indagine, anche un certo calcare la mano sugli aspetti più freak di Lisbeth. Da quelle parti di film veramente valevoli ne fanno, ma questo non è il caso. E’ un la ragazza del lago svedese, che sale di un gradino grazie alla capicità di Noomi Rapace di non gettare alle ortiche un personaggio così fuori standard, donandogli un’umanità inaspettata.
Se poi ragioniamo sul metro dell’adattamento migliore su scala cronologica, allora è inutile che ne discutiamo.
Se c’e’ un film che rende giustizia con interezza non al risvolto giallo, ma ai temi della scrittura di Larsson, è quello di Fincher. Aggiungiamoci una realizzazione più elegante e degli interpreti sempre azzeccati, anche tra i comprimari. Daniel Craig è una star hollywoodiana, ma sul Mikael figazzo un po’ sciupato dalla vita solitaria post divorzio, guidato dalla sua moralità assoluta che fa breccia nel cuore di ogni svedese, beh, non mi pare ci sia storia.
Sulla questione del non vederlo perché la violenza nei film mi fa impressione e Fincher è misogino quindi sarà ancora più violento… per me è un ragionamento al limite della fantascienza. Soprattutto considerando il fatto che la pellicola svedese, a conti fatti, non taglia niente e anzi, mostra di più nella tanto vituperata scena dello stupro. Sotto quel punto di vista i film si equivalgono, anzi, Fincher glissa chiudendo una porta e lasciando al solo audio il compito di agghiacciarci. Ovvio che se si specula su una pellicola considerando i propri ragionamenti non come ipotesi ma come certezze fondate sul nulla, è inutile discuterne. Infine sulle polemiche riguardanti l’atmosfera plumbea della pellicola di Fincher, come se la materia iniziale fosse neutra e ambientata in quel di Capri, vi grazierò di ulteriori commenti.
Lo vado a vedere? Sì, se hai voglia di un buon film basato su un cold case piuttosto intricato e supportato da un ottimo lato tecnico e interpretativo. Ci shippo qualcuno? Mh, non è questo il punto. Coefficiente viuleeenza? A patto di non essere troppo impressionabili, non vi turberà la coscienza. A meno che vi infastidiscano le scene di nudo. Ma allora che ci state a fare qui? XD
Conferisco al film una di gradimento personale come roba che avrei voglia di rivedere subito. E per i guardaroba da svenimento con cui hanno rifinito Daniel Craig.