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animali carini, Bill Nighy, Justice Smith, Kathryn Newton, Ken Watanabe, Rob Letterman, Ryan Reynolds
Sono anni che, dalla mia posizione privilegiata di osservatrice degli studios e adulta con un discreto curriculum adolescenziale in zona otaku, mi godo la stasi e l’indecisione cronica che affligge i pezzi grossi a Los Angeles. Mi basta chiudere gli occhi per vedermi i capoccia degli studios camminare avanti e indietro nei loro uffici, pensierosi e frementi al solo pensiero del tesoro che hanno davanti ai loro occhi ma che ormai da decenni sono restii a reclamare per sé.
Basta dare una scorsa alla programmazione di blockbuster di uno qualsiasi degli ultimi 10 anni per percepire la sete di nuove storie a Hollywood, insaziabile, appena mitigata dall’operazione sicura e paracula dell’investire sull’ennesimo remake o sulla tiepida rielaborazione di ciò che è già stato remake o rielaborato (cfr praticamente ogni progetto live action di Disney da qui all’eternità). Ed ecco lì, a portata di acquisizione di diritti, una montagna di materiale pop nipponico: manga, anime, videogiochi. Un filone narrativo popolare già ampiamente collaudato, fresco e – meraviglia delle meraviglie – che in molti casi ha già creato un legame emotivo anche con il pubblico occidentale, fino a sconfinare nel potentissimo effetto nostalgia. Ed ecco come arriviamo a POKÉMON Detective Pikachu e a quella titubanza che forse non ci consentirà mai di avere un film tratto da “cose nipponiche” davvero soddisfacente.
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